La gatta frettolosa fa i gattini ciechi
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Il 22 ottobre 1997 uno tra i migliori giornalisti d’inchiesta che l’Italia abbia mai avuto, Paolo Barnard, firmava per Report, L’Affare Aids (1), dedicato alle ombre che si stavano addensando sull’AZT (allora uno tra i pochissimi farmaci utilizzati per rallentare la moltiplicazione virale dell’Hiv – ma non per curare l’Aids, dato che i pazienti in ogni caso, anche se sottoposti a terapia, nel giro di alcuni mesi morivano).
Negli anni a seguire sarebbero stati molti gli studi scientifici (2) e gli articoli (3) che avrebbero raccontato il retroscena dell’approvazione del farmaco e puntato il dito contro la sua tossicità per l’organismo umano. Finché, nel 2010, il regista canadese Brent W. Leung girò un docu-film, House of numbers – Epidemiologia e Aids (caricato su YouTube il 23 febbraio 2012 con i sottotitoli in Italiano), che cambiava definitivamente la narrazione:
Quello che emerge da articoli e studi, inchieste e docu-film è che l’iter per l’approvazione dell’AZT fu abbreviato a causa delle pressioni politiche. Era il gennaio 1987, l’amministrazione Reagan voleva delle risposte in quanto pressata a sua volta dall’isteria collettiva, provocata anche dalle notizie sempre più allarmanti che diffondevano i mass media. Sembrava che tutto il mondo avrebbe contratto l’Hiv e che tutti coloro che lo contraevano avrebbero sviluppato l’Aids, ossia l’immunodeficienza acquisita, morendo poi di alcune malattie opportunistiche che, in quegli anni, erano il sarcoma di Kaposi e la polmonite batterica.
Quello che non si teneva in considerazione e che il professor Luc Montagnier denunciò da subito era la presenza di fattori concomitanti che potessero portare alla morte dei pazienti e, aggiungeremmo noi, dei semplici ed efficaci mezzi per prevenire il contagio: il preservativo e la siringa monouso. In fondo, un virus che si ferma con norme igieniche come usare un condom (utile anche a impedire la trasmissione di altre malattie veneree) ed evitare di iniettarsi l’eroina con la medesima siringa usata da un altro, non è l’ebola!
Tra i fattori concomitanti che potevano peggiorare il quadro clinico dei sieropositivi e incidere negativamente sul sistema immunitario degli stessi – pensiamo che l’Aids in quel momento colpiva principalmente la comunità gay di San Francisco, Los Angeles e delle metropoli statunitensi – erano alcune scelte di vita di per sé non sane. La promiscuità sessuale non protetta causava il diffondersi delle malattie veneree (sifilide, gonorrea, clamidia, papilloma virus/Hpv, eccetera) e le conseguenti cure farmacologiche, magari ripetute più volte in tempi brevi, non erano sicuramente un toccasana per l’organismo. Inoltre si era diffuso l’uso di Popper (4), ossia di sostanze stupefacenti appartenenti ai nitriti alchilici (nitrito di amile, etile o butile) che erano inalate per ottenere lo ‘sballo’ e smerciate nelle saune come nei bagni pubblici e nei gay club. Causavano potenziali danni cardiaci, oculari, dermatiti, danneggiamento dei globuli bianchi del sangue e potevano perfino colpire il sistema immunitario.
Oggi le popolazioni che sono maggiormente a rischio di sviluppare forme di immunodeficienza acquisita sono quelle più povere, in Africa come in alcune aree asiatiche. Ma ancora una volta si sottostimano i co-fattori. Pensiamo alla mancanza di acqua potabile e servizi igienici. L’Unicef, nel 2019, pubblicava questi dati: “Circa 2,2 miliardi di abitanti del pianeta non dispongono di un accesso all’acqua potabile gestito in sicurezza, ben 4,2 miliardi non possiedono servizi igienici adeguati e complessivamente 3 miliardi non hanno gli strumenti basilari che occorrono per un semplice ma indispensabile comportamento igienico: lavarsi le mani”. A ciò vanno aggiunti la denutrizione o malnutrizione e l’alto numero di casi di dissenteria e malattie endemiche, quali il colera e la malaria. Una popolazione sfibrata non potrà, ovviamente, avere un sistema immunitario pronto a rispondere all’ennesima forma virale (o batterica) – ma alle Case farmaceutiche questo non interessa.
Proteggersi dall’Hiv non sarebbe stato difficile – come abbiamo visto – eppure la psicosi dilagò e con essa la richiesta di una cura salvifica immediata.
L’iter per l’approvazione dell’Azt (chemioterapico già studiato in precedenza per forme oncologiche e abbandonato a causa della sua tossicità) fu abbreviato e solamente molti anni dopo si ebbe il coraggio di pubblicare i primi articoli critici su tale prodotto – sia per tema di Big Pharma sia di ondate di panico da parte dei pazienti. Nel suo preambolo dallo studio, Milena Gabanelli affermava nella succitata puntata di Report: “Paolo Barnard ha realizzato per noi un’inchiesta non facile, perché quando si parla di farmaci, e si assume un atteggiamento critico, si rischia spesso di innescare dei meccanismi che sfuggono al controllo. Noi vorremmo che non accadesse perché non è questo il nostro scopo. Però da anni, attorno alle cure contro l’AIDS, gravano sospetti da parte di ricercatori di calibro mondiale che ci pare doveroso non ignorare”.
Così si scoprì che quel giorno di gennaio del 1987 si era approvato un farmaco in cui lo studio in doppio cieco (con placebo e farmaco distribuiti a due gruppi separati, che non sapevano cosa stessero prendendo come non sapevano, i medici, cosa stavano somministrando e a chi) era saltato dopo poche settimane – come scriveva Celia Farber già nel 1989 su SPIN. Alcuni pazienti che sapevano di usare l’Azt l’avevano condiviso, per spirito solidaristico, con quelli che stavano assumendo il placebo; altri si erano procurati l’Azt sul mercato nero; mentre i medici facevano trasfusioni ad alcuni pazienti falsando sicuramente gli esiti dello studio. Quest’ultimo fu poi interrotto con 5 mesi di anticipo nonostante gli effetti collaterali gravi che stava causando l’Azt (e che furono confermati dalla Food and Drug Administration) perché sembrava che nel gruppo di controllo la mortalità elevatissima (19 pazienti deceduti contro un solo caso nel gruppo che assumeva Azt) giustificasse l’immediata approvazione del chemioterapico.
All’interno del panel che approvò il farmaco, il dottor Itzhak Brook, successivamente, fece notare che la differenza nella mortalità tra i due gruppi (trattati con Azt e placebo) col tempo era praticamente scomparsa; mentre il dottor Harvey Bialy, redattore scientifico di Biotechnology, affermò, sempre nel medesimo articolo di Farber: “Indubitabilmente, l’Azt uccide le cellule T-4 [globuli bianchi indispensabili per il sistema immunitario]” e aggiunse per spiegare l’utilizzo di trasfusioni durante lo studio: “Nessuno può sottrarsi a tale verità. L’Azt è un nucleotide che si posiziona al termine della catena di Dna, il che significa che blocca la replicazione del Dna. Va alla ricerca di qualsiasi cellula che è impegnata nella replicazione del Dna e la uccide. Il luogo in cui avviene la maggior parte di replicazioni è il midollo osseo. Questa è la ragione per cui tra gli effetti avversi gravi più comuni vi è la tossicità a livello di midollo osseo. Ecco perché [i pazienti] avevano bisogno di trasfusioni” (t.d.g.).
Già il panel composto da 11 medici che approvò il chemioterapico aveva scoperto come gli effetti positivi dell’Azt fossero di breve durata (al massimo 24 settimane, forse meno secondo il dottor Stanley Lemon). Secondo la Burroughs Wellcome (la Casa farmaceutica che mise in commercio l’Azt) il paziente trattato con Azt, durante lo studio, che sopravvisse più a lungo morì dopo tre anni e mezzo; al tempo in cui apparve l’articolo su SPIN, il longest survivor (come erano appellati allora i sieropositivi che sopravvivevano all’Aids per più di qualche mese), che non aveva mai fatto uso di Azt, era sopravvissuto per otto anni e mezzo dal momento della diagnosi.
Un altro fatto che va notato è che sebbene l’Azt avrebbe dovuto essere prescritto solo in casi gravi – emergenziali – vista la sua tossicità, Farber scriveva: “il dottor Anthony Fauci, a capo del National Institutes of Health (NIH), spinse per espandere la prescrizione” e, difatti, secondo un articolo del New York Times, già nel corso del 1987 i medici prescrivevano l’Azt persino alle persone sane che fossero risultate positive al test per l’Hiv (e sull’attendibilità dei test si potrebbe aprire un altro capitolo, per il quale vi rimandiamo al docu-film).
Ciliegina sulla torta: le azioni della Burroughs Wellcome salirono alle stelle appena si seppe dell’approvazione dell’Azt da parte della F&D Administration e a 8.000 dollari a paziente all’anno, l’Azt risultò essere il farmaco più caro nella storia del mercato farmaceutico fino a quel momento.
Dall’Azt ai vaccini contro il Covid-19: quando l’isteria di massa è funzionale al potere economico
Dopo circa quarant’anni ci siamo ritrovati di fronte a una nuova ondata di panico a causa di un virus. I mass media hanno trasformato un’influenza con complicanze polmonari e soprattutto, nel caso dell’Alpha, formazione di coaguli nel sangue, nella nuova peste e le popolazioni, visto che questa volta non bastava un preservativo o una siringa monouso a salvarle, sono state letteralmente blindate in casa – contagiandosi, quindi, tra familiari.
Se il panico e il bombardamento mediatico sono stati perfino superiori a quelli degli anni 80, molte altre analogie possono ravvisarsi nel percorso medico-scientifico e politico dell’intera vicenda.
Innanzi tutto abbiamo ritrovato, sempre su posizioni distanti, il professor Luc Montagnier e il dottor Anthony Fauci. Non solamente il primo ha sottolineato l’importanza delle cure precoci ma è tornato anche, nel nostro ‘dizionario epidemico’, il termine co-fattore. Malgrado fin dall’inizio si sia visto che il Covid-19 (nella variante Alpha) si trasformava in polmonite interstiziale quasi esclusivamente nelle persone molto anziane e/o con patologie pregresse, la psicosi ha assalito tutti indistintamente: come se vi fosse stato il medesimo rischio per il bambino di 8 anni e per il nonno di 80. La chiusura delle scuole ne è stata la conseguenza, così come il voler vaccinare persone al di sotto dei 29 anni solo perché, in questo modo, non avrebbero contagiato chi era a rischio (il che è stato contraddetto dall’audizione della Pfizer alla Commissione Europea, durante la quale la Casa farmaceutica ha ammesso di non aver testato il vaccino rispetto alla trasmissione virale. Del resto, la sua inefficacia come immunizzante era già emersa da quasi un anno e registrata persino sui Bollettini settimanali dell’ISS).
Rispetto ai co-fattori, col Covid-19 si è fatto, però, peggio che negli anni 80.
Qualcuno ricorda la Circolare 15280 del 2 maggio 2020, in cui si faceva presente che: “Per l’intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di COVID-19, sia se deceduti in corso di ricovero presso un reparto ospedaliero sia se deceduti presso il proprio domicilio”? Questa scelta ha rallentato certamente la ricerca sulle cause di mortalità legate al Covid-19, quali le trombosi polmonari (5). Inoltre, si è impedito che i medici curassero i pazienti: ‘paracetamolo e vigile attesa’ è stato il mantra dell’ex Ministro della Sanità Roberto Speranza, che ha continuato a ripeterlo persino dopo che l’Istituto Mario Negri aveva pubblicato uno studio sulle cure precoci dei pazienti a domicilio, nel quale si sconsigliava anche il paracetamolo in quanto: “non solo ha una bassa attività antinfiammatoria ma, secondo alcuni esperti, diminuisce le scorte di glutatione, una sostanza che agisce come antiossidante” (6). Quante vite si sarebbero salvate in quel primo periodo se si fosse agito altrimenti? Sicuramente l’alto numero di morti è servito a montare la macchina del terrore che è stata poi amplificata dai mass media. La psicosi collettiva ha avallato le misure coercitive e fatto pressione sulla politica per avere, ancora una volta, il vaccino o la cura salvifica nel più breve tempo possibile.
Se per l’Hiv dopo quarant’anni non si è ancora trovato un vaccino efficace, per il Covid si sono bruciati i tempi e, come per l’Azt, anche i trial per l’approvazione dei vaccini di Pfizer, Moderna, Johnson e Astra Zeneca hanno subito un’accelerazione che non ha permesso di valutare con proprietà costi/benefici – anche e soprattutto nel medio e lungo termine. Prova ne è quanto accaduto con Astra Zeneca che – nel tempo – è stato sconsigliato a varie fasce di popolazione a causa dei possibili effetti avversi gravi, in particolare la trombocitopenia che poteva causare la morte dell’inoculato. Nonostante fosse stata denunciata, già il 20 marzo 2021, dall’immunologo Andreas Greinacher, una possibile correlazione tra Astra Zeneca e trombosi con trombocitopenia indotta dal vaccino, tale rischio è stato sottostimato dal nostro Ministero della Sanità che ha continuato a promuovere perfino gli Open Day vaccinali per i giovani (causando la morte, ad esempio, di Camilla Canepa (7 e 8). E ovviamente restano da chiarire anche tutti gli altri effetti avversi registrati dopo l’inoculo degli altri vaccini – dalle miocarditi e pericarditi alla meno nota sindrome perdita capillare (9).
Nel frattempo, però, il Covid-19 è mutato profondamente – come accade normalmente ai virus – ed è emersa la variante Omicron che, sebbene molto più infettiva, interessa le alte vie aeree e si è dimostrata da subito molto meno grave, come riportato dagli studi pubblicati dai medici africani (10). Ma accettare che il Covid-19 si fosse sgonfiato, trasformandosi da peste del nuovo millennio a semplice patologia influenzale sarebbe stato difficile e per mesi si è affermato che il Regno Unito – il primo in Europa a tornare alla normalità – si sarebbe trasformato in un lazzaretto. In Italia chi non voleva vaccinarsi si è visto cancellare diritti basici (come andare in posta o in banca, acquistare un paio di calze o un libro, lavorare e guadagnarsi di che vivere), e tutto ciò per un vaccino che, alla fine (ma, ribadiamo, lo si sapeva già da mesi e il Presidente Biden lo aveva detto a chiare lettere il 21 dicembre 2021: “Vaccinated people who get Covid may get ill”) si è rivelato non immunizzante. Per quanto concerne il fatto che il succitato ‘vaccino’ impedisca che la malattia si aggravi abbiamo altrettanti dubbi. In primis, la Omicron è meno grave in sé; in secondo luogo, oggi molti si curano precocemente indipendentemente da quanto stabiliscono le linee guida del Ministro della Sanità; e infine, anche la stampa ha cominciato a chiedersi se gli over 80 (che sono ormai quasi gli unici ad aggravarsi, vaccinati o meno) finiscano in ospedale a causa del Covid-19 o di altre patologie e, poi, siano inseriti nel computo solo perché risultano positivi al test, senza però essere affetti da polmonite.
Anche un’altra caratteristica accomuna stranamente la parabola dei vaccini per il Covid-19 all’Azt, ossia la loro efficacia nel tempo. Se all’inizio si era parlato di una sola dose o al massimo di due dosi, i booster sono poi diventati una costante. Se l’efficacia dell’Azt declinava entro 6 mesi, i vaccini sono passati da una durata pressoché a vita, a 9, poi a 6 e infine a soli 4 mesi (con conseguente perdita del Green Pass e delle libertà civili per quegli italiani che non volevano sottoporsi a continui inoculi, anche se bivaccinati).
Come per l’Hiv (vi consigliamo di vedere il docu-film qui linkato) non risulta chiaro il ruolo giocato dai test per la diagnosi della malattia. Se all’inizio si è evitato l’uso di test rapidi, che avrebbero potuto bloccare il contagio, in seguito si è scoperto che gli stessi non sono attendibili per un’altra ragione. In effetti, come nel caso dell’Hiv, il test PCR comporta un’amplificazione molecolare di quantità molto piccole virus e può, quindi, dare falsi positivi. Si può venire in contatto con parti di virus senza essere contagiati, ammalati e tanto meno contagiosi (11).
E infine, quello che è certo è che i bilanci di Pfizer (come quelli a suo tempo di Burroughs Wellcome) sono schizzati alle stelle. Nei primi 3 mesi del 2021 il gruppo ha conseguito un utile per azione pari a 0,93 dollari, in aumento del 47% su base tendenziale (fonte IlSole24Ore). Poi vi è stato un calo ma ad agosto 2022, non sarà un caso, la partner BioNTech – che stava registrando la diminuzione degli utili per azione – annunciava che avrebbe iniziato le consegne di due vaccini anti-Covid 19 adattati a Omicron in ottobre, “contribuendo a stimolare la domanda nel quarto trimestre”.
Convivere con i virus è possibile, se si smette di aver paura
Le epidemie ci sono sempre state nella storia dell’umanità e di certo la capacità di farvi fronte è aumentata, grazie ai progressi medico-scientifici. D’altro canto i co-fattori sembra siano i più trascurati nel nuovo ordinamento sanitario mondiale perché più difficili da eradicare e, comunque, meno lucrosi da combattere per le corporation. L’OMS nasceva nel 1948 per: “Fermare la diffusione della malaria, della tubercolosi e delle malattie a trasmissione sessuale, ridurre la mortalità e preservare la salute materna e infantile e promuovere l’importanza dell’adozione di misure igieniche adeguate e di una sana alimentazione. L’Oms si propone quindi non solo di contrastare le emergenze in atto, ma anche di fare il possibile per prevenirle”.
Sarà un caso ma le comunità Maya del Chiapas, invece di accettare la beneficienza paternalistico/colonialista del Covax, hanno preferito far fronte alla pandemia a modo loro, puntando su una sana alimentazione, sulle erbe medicinali tradizionali e sulla cura familiare e comunitaria (quella che è completamente mancata in Occidente: con i medici che erano disponibili solo, e non sempre, al telefono; i malati che dovevano essere separati dai loro cari; l’ospedalizzazione forzata, eccetera). Mentre il Covax elargiva pochissimi vaccini in ritardo, in procinto di scadere o inadatti alle popolazioni giovani africane (vedasi l’invio dell’Astra Zeneca quando lo stesso non era più accettato dagli europei), c’era chi preferiva emanciparsi dall’Occidente e dalla sua carità.
Un proverbio cinese recita: “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”. L’autosufficienza alimentare, l’educazione, l’accesso a servizi igienici e acqua potabile, l’auto-consapevolezza e il rispetto verso di sé e le proprie tradizioni, il possesso comunitario dei terreni e un loro sfruttamento intelligente, sono tutte scelte che hanno cambiato la vita nelle comunità zapatiste messicane rendendole in grado di fronteggiare anche l’epidemia di Covid-19 senza ricorrere all’aiuto occidentale o del Governo centrale messicano. Ma l’OMS, in Africa, non si è mosso in questo senso, ossia non ha favorito l’affrancamento delle popolazioni locali dal nostro modello di salute e sanità, che li rende dipendenti e assoggettati a scelte che sono fatte da altri Stati e a favore di società i cui guadagni non impattano positivamente sulle loro esistenze.
Il fatto che il primo donor dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sia una fondazione privata, la Bill & Melinda Gates la quale, per il biennio 2020-21, ha addirittura superato l’elargizione del governo statunitense – con i suoi 789 milioni di dollari contro i 610 degli Us – ed era già il secondo finanziatore nel biennio precedente (con 531 milioni di dollari inseriti a bilancio nel 2018/2019, ossia il 9,4% dell’intero budget), è un indizio sul perché l’OMS non agisca altrimenti.
In altre parole, circa tre quarti del sostegno all’OMS proviene da privati e questi sono quasi per la totalità indirizzati e vincolati a progetti che ogni donatore sceglie in base alle sue priorità. Sono gli Stati più ricchi e i privati a decidere in quali progetti l’OMS deve investire mentre i Paesi più poveri possono esercitare un potere minimo in quanto sempre commisurato all’esiguità dei loro finanziamenti sul budget complessivo. Non a caso, i programmi maggiormente finanziati sono l’eradicazione della poliomielite e le malattie prevenibili con vaccino. Programmi che potrebbero dare un reale impulso al rafforzamento dei sistemi sanitari nazionali e impattare positivamente sull’autosufficienza sanitaria, ricevono meno del 5% dei contributi. Va altresì notato che il quinto finanziatore dell’OMS è Gavi Alliance, “sostenuta a sua volta in modo preponderante sempre dalla B&MGF (12): in tempi non sospetti infatti, Gates è stato fautore della sua nascita e oggi la Fondazione Gates è membro permanente del CdA di Gavi” – e a Gavi, grazie al Decreto-legge 115 del 9 agosto 2022, sono stati assegnati 100 milioni di fondi dal Governo Draghi (e su questo punto si potrebbe aprire un altro capitolo).
L’OMS dipende quindi da Gates, il quale a sua volta decide i programmi nei quali deve investire l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e predilige quelli vaccinali. Allo stesso tempo tempo, Gates gioca sul tavolo dei brevetti (dei quali è un fermo sostenitore) mentre la sua Fondazione “ha un portafoglio di investimenti di oltre 250 milioni di dollari in una dozzina di aziende impegnate nella ricerca contro il Covid19 – vaccini, medicinali, diagnostici o altre produzioni medicali” (fonte La Repubblica). Ma non solo. CureVac, la biotech specializzata nella tecnologia RNA (quella utilizzata nei vaccini Pfizer e Moderna per il Covid-19), vede tra i principali investor sempre la Fondazione dei coniugi (o ex tali) Gates. Con una mano dai e con l’altra riprendi?
Ciò che pare non cambiare mai, dai tempi dell’Hiv a oggi, è la commistione tra business e medicina, favorito dalle politiche dei vari Governi occidentali e ignorato dalle masse che, spaventate dalle campagne mediatiche, mirano solamente a salvarsi da virus più o meno pericolosi. Quello che ormai manca è il senso critico, l’accettazione della limitatezza dell’esistenza umana e la capacità di investire più su un sistema di ben-essere condiviso che non sui miracoli di brevetti prêt-à-porter.
(1) https://www.rai.it/programmi/report/inchieste/Laffare-aids-99f7ab6e-dfbd-42e7-aa75-1fb1466661e3.html
(2) Si veda lo studio pubblicato da D.T. Chiu e P.H. Duesberg su PubMed.gov: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/7744255/; o quello di Meryem Demir ed Eric D. Laywell su Frontiers in Neuroscience: https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fnins.2015.00093/full
(3) L’articolo di Celia Farber su SPIN: https://www.spin.com/2015/10/aids-and-the-azt-scandal-spin-1989-feature-sins-of-omission/; o quello di Alice Park sul Time: https://time.com/4705809/first-aids-drug-azt/
(4) Per gli effetti avversi del Popper, leggasi: https://www.cbdmania.it/blog/popper e http://www.actroma.it/index.php?option=com_content&view=article&id=819:popper-una-droga-inalante-che-fa-perdere-la-vista&Itemid=87
(5) Sulle trombosi polmonari, ricordiamo: https://www.sanitainformazione.it/salute/lospedale-sacco-presenta-il-protocollo-viecca-antiaggreganti-e-antinfiammatori-per-curare-trombosi-da-covid/
(6) Sulle cure precoci, leggiamo: “Intervenire in questa fase, iniziando a curarsi a casa e trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione respiratoria, ancora prima che sia disponibile l’esito del tampone, potrebbe aiutare ad accelerare il recupero e a ridurre l’ospedalizzazione”. https://www.marionegri.it/magazine/covid-19-cure-domiciliari
(7) Il decesso di Camilla Canepa: https://genova.repubblica.it/cronaca/2021/10/21/news/camilla_canepa_era_sana_la_morte_ragionevolemte_dovuta_a_effetti_avversi_di_astrazeneca_-323217386/
(8) La puntata di Report dedicata ad Astra Zeneca: https://www.rai.it/programmi/report/inchieste/Il-caso-Astrazeneca-Gli-Open-Day-over-18-3dc932a9-1632-4ae7-9f30-ed932b7e4b4e.html
(9) L’Avviso dell’EMA: https://www.adnkronos.com/vaccino-moderna-e-sindrome-perdita-capillare-avviso-ema-cose-e-come-si-manifesta_5JWE6JxgYPpkzSTL1DtFyG
(10) I primi studi sulla Omicron provenienti dall’Africa: https://www.samrc.ac.za/news/tshwane-district-omicron-variant-patient-profile-early-features
(11) Da tempo vi sono dubbi sull’attendibilità dei test PCR: https://www.medicinaintegratanews.it/test-pcr-in-italia-ne-e-in-discussione-la-veridicita-scientifica/
(12) Un interessante articolo sul ruolo della Bill and Melissa Gates Foundation nell’OMS: https://rivistapaginauno.it/oms-la-salute-globale-che-piace-ai-ricchi-profitti-con-la-beneficenza/
venerdì, 2 dicembre 2022
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay.
Nel pezzo: Foto di Myriams-Fotos, Bruno /Germany, Tumisu e Charles Nambasi, tutte da Pixabay.