Nel Giorno della Memoria, ai partigiani e all’Armata Rossa che liberò Auschwitz
di Simona Maria Frigerio
Sì, io mi ricordo – con le parole dei partigiani – di quegli anni, quando bambina ascoltavo i racconti di guerra. Non erano ricordi eroici: nessun rifugiato nascosto nella nostra cantina, niente fughe sui monti per unirsi alla Resistenza, semplici memorie sottovoce di spregevoli abusi quotidiani. L’evento memorabile fu il saccheggio a un treno bombardato dagli alleati, che allora erano solamente americani e però, grazie a quelle bombe, permettevano di rubare dai vagoni squarciati sacchi di farina e di patate destinati al fronte. Mio nonno che doveva fare la tessera per continuare a lavorare, la nonna che non portava la fede del giorno delle nozze perché l’aveva immolata al regime, le code interminabili per le razioni di zucchero o uova, mia madre con la gastroenterite che non poteva bere il latte materno confinata dai familiari in meridione, dove almeno il cibo non mancava, ma lei crebbe chiamando madre un’altra donna e quando tornò a casa, finita la guerra, quelli non erano più la sua casa, la sua lingua, e i suoi affetti.
Sì, io mi ricordo i miei zii che scherzavano definendo il nonno catto-comunista perché lui aveva un’adorazione per Stalin ma intanto, tutti i giorni, andava in chiesa ad abbandonare sui banchi vuoti una mezza preghiera sussurrata in silenzio. Io lo guardavo rimanere in piedi, mentre la nonna si inginocchiava e anch’io, che volevo più di ogni altra cosa identificarmi in lui, decidevo in silenzio di diventare comunista: parola astrusa e affascinate, lontana ma familiare. Poi vennero gli anni delle elementari, gli anni Settanta, e un giorno quella quotidianità, fatta di bombe ed eroina, si presentò alla porta della mia classe di quinta elementare, quando la preside mi chiese di ordinare a tutte le insegnanti di riunirsi in cortile. Io ubbidii, compresa del mio ruolo e, piccola prescelta con la mia boria da secchiona, entrai di classe in classe annunciando che Aldo Moro era stato rapito e che la preside voleva che si uscisse tutti. Cos’era rapito? E cos’era un aldo moro? Solo la vaga eccitazione di sentirsi importante: per un attimo voce della storia mio malgrado, voce incosciente della propria epoca.
E mi ricordo quando volli scegliere la scuola media e decisi di frequentare Rinascita. Istituzione di figli di partigiani: mi rendeva erede di quel nonno con la tessera in tasca che però adorava Stalin, degna di inseguire un sogno comunista all’alba dello yuppismo trionfante e, mentre la storia ripiegava su se stessa come la risacca del mare, io mi inorgoglivo per quelle strane lettere che a volte giungevano a scuola per minacciare insegnanti e genitori di un improbabile plagio che i comunisti stavano perpetrando sulle nostre giovani menti. In palestra, maschi e femmine riuniti, ridevamo compiaciuti di sentirci dalla parte giusta, quella di Anna Frank e di Judith Kerr, ignari di suscitare nelle nostre magliette sudate i livori timorosi di chi ci sapeva perduti a dio, alla rispettabilità, al capitalismo.
E sì, io mi ricordo quella sicurezza – linea retta di fronte ai miei passi di giovane donna – che mi aveva guidata nelle scelte di vita e di voto. Lontana dagli anni della guerra, della rivoluzione giovanile, del terrorismo: ricordi sbiaditi altrui, ma saldo patrimonio del mio essere. Io comunista vedevo il fascista lontano nel tempo che un giorno – su una camionetta, tornando dal fronte – tese la mano al nonno perché facesse un pezzo di strada in meno a piedi. Leggere Montale invidiandogli la coerenza estrema era la mia delizia. E intanto cominciavo a uscire la sera per bere una birra sentendomi adulta, ignara che tale consapevolezza fosse sintomo di immaturità: si è adulti quando non si pensa più di esserlo, si vive solamente se si smette di esserne coscienti. Corsi e ricorsi, le generazioni dimenticano e gli errori si ripetono in questo fatale eterno ritorno. Io bambina cresciuta, davanti a una birra, comunista perché esegeta di un nonno che tale si professava, d’un tratto mi accorsi che quel ragazzo al quale sorridevo si definiva fascista – quasi si fosse compiaciuto delle sue prodezze sciistiche o ci avesse parlato di una passione per l’ornitologia – e tutti gli amici e le amiche intorno a noi, ridendo compiaciuti, gli confessavano la loro invidia perché lui almeno credeva in qualcosa e, d’un tratto, mi ricordai la tessera fascista dei nonno.
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
venerdì, 27 gennaio 2023
In copertina: Foto di Kevin da Pixabay.