Un racconto alla settimana…
di Simona Maria Frigerio
Non entravo nella casa della madre da anni.
Da anni non aprivo il tuo armadio… e ora eccomi a girare la chiave nell’anta e riscoprire i vestiti che indossavi vent’anni fa, quando camminavo tenendoti per mano e mi sembravi talmente alta… Mi accoccolo sorridendo in fondo all’armadio e afferro la scatola di latta delle fotografie. Non provo dolore, solo una buffa sensazione di déjà-vu; forse alla morte della propria madre si è già assistito, nell’attimo stesso della nascita: da quella separazione definitiva è solo un lento abituarsi… Apro la scatola col pensiero che ritroverò i nostri anni al mare, il mio costume di spugna a quadretti rossi, il patino, l’altalena in mezzo alle onde, la bottiglietta di gazzosa con la cannuccia colorata e i tuoi occhi verdi, all’ombra di una mano o del cappello blu a falde larghe, col nastro a pois. Scuoto il capo sorridendo ancora, ma non provo nulla. Il mio volto mi fa tenerezza, mi appartiene, ma per il resto è come guardare le immagini di vecchie cartoline ingiallite spedite da parenti lontani. Il ricordo è perso, un po’ sbiadito, sciupato dagli anni successivi, e da quel senso di vuoto che non riesco a riempire e mi rende distante: chirurgica nel sezionare le tue cose, gli oggetti, i vestiti, il profumo intenso di fiori d’arancio e lavanda… La luce della sera trascolora sull’anta di ciliegio e io sfioro delicatamente il legno che avrai toccato milioni di volte, eppure non sento nulla, il tuo calore è lontano, perso per sempre…
Tra le immagini ne afferro una delle elementari, prima A: scolari col grembiule spiegazzato e pompon blu al posto del fiocco caduto in disuso, distribuiti su tre file, io tra quelli seduti sul prato e, accanto a me, Lora. D’un tratto mi tornano in mente i nostri soprannomi: Fili e Lora, che non erano nemmeno personaggi di qualche cartone animato e scuoto il capo; solo nomignoli inventati un giorno, in cortile, mentre succhiavamo il dolce di piccoli fiori violacei. Mi ricordo che era un sabato mattina e quando ci sentimmo finalmente appagate, ci sdraiammo satolle a rubare il sole in piena faccia, testa contro testa, il grembiule bianco striato di macchie d’erba e noi che snocciolavamo tutti i nomi che ci passavano per la mente cercandone due che fossero solamente nostri e che non avremmo mai rivelato a nessuno: Matilda, Desdemona, Afrodite, Rebecca… e poi quelli più brevi, quasi intimi: Lulù, Dana, Bibo, Febi… e, d’un tratto, tu che salti in piedi: «Ci sono!: Fili! Per te: Fili!». E io che scoppio a ridere mentre mi estraggo un filo d’erba dalla bocca e penso che è proprio il nome adatto, quello che fa per me e poi mi assale l’angoscia di trovarne uno per te, altrettanto giusto e con un suono altrettanto musicale e scuoto il capo sconsolata, pesando che non sono brava come te e che mi ci vorrà molto più tempo e forse non riuscirò mai a trovarne uno. Mugolo qualcosa mentre mi allontano e sento che tu non capisci e forse pensi che il nome non mi è piaciuto; mi nascondo fra gli alberi, mi lascio scivolare contro un vecchio tronco e bofonchio per tutto il resto della mattinata: Milù, Cielo, Leda, Velvet… Mi ci vollero due settimane prima di trovare Lora; quando già cominciavo a disperarmi e ti sfuggivo senza darti spiegazioni e tu, pensando che fossi arrabbiata con te, mi lasciavi messaggini sotto il banco del tipo: Che c’è? Oppure: Ti ho fatto qualcosa? Fili non ti piace? Se vuoi ne inventiamo un altro, con la grammatica un po’ scorretta e tanti disegnini a fare da contorno alla domanda; proprio allora, mi venne in mente quel nomignolo. Corsi immediatamente da te, appena suonata la campanella dell’intervallo e, mentre ti spiegavo che in tutto quel tempo non avevo fatto altro che pensare a quel nome e che mi era finalmente venuto in mente, tu mi prendesti la mano e mi dicesti di non farti mai più credere di aver perso la nostra amicizia: «Non farmi più uno scherzo simile. Qualunque cosa ti passi per la testa, devi dirmelo. Non smettere mai di parlarmi. Promesso?». E io feci cenno di sì col capo e capii, per la prima volta, che si può ferire qualcuno anche se non si vuole, solo perché si è troppo presi da se stessi per vedere l’altro, che è fuori di noi e non ci appartiene e non può comprendere… Mi stropiccio la fotografia sul petto e premo più forte gli occhi: bagliori elettrici nelle pupille. Quando li riapro, il cielo è cobalto e nella stanza le ombre si allungano, gli spigoli ondeggiano negli ultimi riflessi del tramonto e io mi sento pronta per altri ricordi.
Apro l’album di pelle nera, con le cuciture bianche sdrucite lungo i bordi, abbandonato in fondo alla scatola. Nella prima pagina una bimba di pochi mesi sorride dal fasciatoio e io stento a riconoscermi: mi domando come sia possibile che quell’essere così piccolo sia io. Quali pensieri mi saranno passati per la mente allora? Cosa potevo provare? Affetto dolore desiderio, espressioni degli stimoli ancestrali, ancora legati alla fame, alla sete, al bisogno di calore, o sentimenti più profondi, o forse più superficiali: bisogno di coccole, tenerezza, empatia, paura? Nella pagina successiva mi rivedo sulla giostra, con la coda del coniglio stretta nella mano guantata e l’aria felice del cacciatore, mentre mi sollazzo all’idea del giro che mi sono conquistata. Alle mie spalle, che ti sorride mentre ci fotografi, la tua amica Giovanna. Erano anni che non la vedevo più così, e mi fa una strana impressione rendermi conto che la memoria me la restituisce sempre come in questa foto; il cancro, l’ospedale, il letto disfatto, le occhiaie – tutto scomparso, e lei è e sarà per sempre solamente quella dell’immagine. Coi jeans un po’ sdruciti, la zazzera incolta e la kefia intorno al collo, che ti sorride, e io sento che quel sorriso è solo per te. Inconsapevolmente ne ero gelosa, sai? Forse perché era lei, dopo che tu e papà vi separaste, quella che mi faceva giocare e mi portava al parco anche nelle giornate invernali, quando tu preferivi rimanere sul divano a leggere un libro sorseggiando un bicchiere di vino rosso, e mi salutavi con un bacio sulla fronte dicendomi di tenere i guanti e di non spostare il paraorecchie; era lei che usciva con me, nella nebbia milanese di quei primi anni Settanta; era lei che mi spingeva sull’altalena, che vinceva il mio riserbo e mi obbligava a giocare con gli altri bambini: sconosciuti che m’impaurivano; che mi comprava lo zucchero filato e mi portava al circo, scuotendo il capo e ridendo quando le raccontavo che la nonna diceva che gli zingari rubano i bambini e forse avremmo fatto bene a non avvicinarci troppo; lei m’insegnava con dolcezza a non avere paura, come m’insegnava a risolvere i problemi di geometria o a usare la china e le tempere. Eppure i suoi sorrisi erano solo per te. Oggi non saprei dire se ero gelosa di te o di lei, o ancor di più di quell’affetto così profondo e muto che lei ti portava senza chiederti nulla in cambio, e tu prendevi e prendevi senza mai ringraziare, come se tutto ti fosse dovuto: il mio amore, il suo, quello di mio padre, anche se non era più mio padre e tu ripetevi che dovevo dimenticarlo. E poi, un giorno, hai allontanato anche lei, senza darmi spiegazioni; mi ricordo che avevo sedici anni e tu eri in cucina e mi stavi sbraitando in faccia che mi ero dimenticata di fare la spesa e quindi, quella sera, avrei mangiato solo uova ed era meglio che mi preparassi a cucinarmele perché tu avevi di meglio da fare e, d’un tratto, mi dicesti che Giovanna non sarebbe venuta a farmi compagnia, quella sera, mentre tu eri fuori; mi dicesti che ero abbastanza grande da restare sola. Tentai di protestare ma tu eri già uscita dalla cucina e di casa, sbattendo la porta, urlando che non dovevi spiegarmi niente e che era meglio così, soprattutto per me. Oggi sono convinta che nella tua cecità credessi veramente di farlo per me; ma ti sbagliavi, come sempre. Lei continuò a sorriderti anche dopo, quando tu la fuggivi e non volevi nemmeno risponderle al telefono per un saluto, e pure all’ospedale lei non faceva altro che parlare di te. Sì, perché io andai a trovarla, di nascosto, inventandomi amiche immaginarie e impegni assurdi; passai mesi seduta al suo fianco a leggerle i miei libri di scuola, mentre lei mi correggeva il quaderno di matematica scuotendo il capo e, di tanto in tanto, si lasciava sfuggire qualche domanda a cui non volevo rispondere: perché ero leale, anche in quei momenti in cui ti odiavo, volevo rimanere fedele a te – madre. E poi vennero gli ultimi giorni accanto al letto, l’odore di chiuso e il comodino che sapeva di medicinali e rancido, qualche arancia e la brocca dell’acqua sempre troppo calda o troppo fredda e lei che guardava fuori dalla finestra cercando di rubare gli ultimi istanti di luce, la luce di un altro giorno, un giorno in meno rubato alla morte, e poi, di sfuggita, nascondendolo anche a me, quello sguardo alla porta, in attesa, con la speranza che quel breve rumore fossero i tuoi passi… ma tu non arrivasti. Io non ti avvertii, mi avresti impedito di starle vicino, fingendo anche allora, dicendo che lo facevi per me, che non avrei mai dovuto perdere tanti giorni di scuola. Ma altri te lo dovevano aver detto; eppure tu non venisti, nonostante lei continuasse a sorridere ai nostri ricordi insieme e forse ad altri ricordi, solo vostri, che non so, che non voglio sapere. E adesso eccola di nuovo qui, dietro le mie spalle, che fa un leggero cenno con la mano e, improvvisamente, mi chiedo perché tu abbia tenuto questa foto e mi sembra strano e ingiusto e bello.
Ripongo l’album e mi guardo intorno: la tua stanza. Quanti anni dall’ultima volta che vi sono entrata. Mi alzo e mi accorgo che le gambe formicolano, pungiglioni le trafiggono e io fatico a camminare. Devo essere rimasta seduta più a lungo di quanto pensassi. Guardo fuori dalla finestra e vedo che il cielo non esiste più, il vuoto di una notte tersa mi perde e io la allontano lentamente, trascinando la gamba. In corridoio scorgo la mia camera, sorrido involontariamente e mi avvicino alla porta. Più per riposare e massaggiarmi la coscia, che per nostalgia, mi abbandono sul mio vecchio letto e, d’un tratto, mi rendo conto di essere stanca. Mi lascio scivolare sul copriletto bianco, ricamato dalla nonna, e fisso il soffitto. Poi mi giro sul fianco e sorrido di nuovo. Ricordo quando tu e io ci mettemmo a dipingere questa stanza: ti eri appena separata da papà e penso ti sentissi colpevole; avevamo visto quel film e io ripetevo di volere le nuvole nella mia nuova camera e tu acconsentisti. Un giorno arrivasti a casa con pennelli rulli idropittura e smalto a acqua e io ti guardai nella tua tuta da muratore – che non ho mai scoperto dove avessi trovato – e scoppiai a ridere tutta eccitata. Battei le mani, saltai sul letto e insistetti tanto per poterti aiutare che alla fine mi desti un pennello, dicendomi di non aspirare la vernice e, soprattutto, di fare quello che mi avresti ordinato senza discutere. Naturalmente sapevo che neanche tu eri sicura di quello che stavi facendo, ma non importava… ci divertimmo lo stesso… per un po’, finché cominciasti a spazientirti, come sempre. Non riuscivamo a trovare un accordo su come fare le nuvole: io le volevo coi bordi arrotondati, tu frastagliate, come sono nella realtà; ma io ero una bambina e non volevi cedere – tu avevi ragione e, alla fine, cominciasti a tirare il celeste lungo tutta la parete e io mi ritrovai con quella stanza/cielo, con un nastro bianco tra le pareti e il soffitto, anch’esso celeste, e io non ebbi le nuvole ma fui contenta lo stesso. Ho trascorso anni a guardare quel soffitto celeste che sembra staccarsi dalle pareti e volare via. Forse sono rimasta così a lungo con te proprio per questa stanza, per la sensazione di libertà che mi dava: quando chiudevo la porta sulle tue urla e accendevo lo stereo a tutto volume mettendomi a fissare il soffitto fino a vederlo davvero staccarsi dalle pareti e volare via…
Mi alzo a sedere. La gamba ha smesso di formicolarmi e anche l’altra sembra tornata a posto. “Sai? Oggi c’era anche papà in chiesa. È stato un bel funerale, ti sarebbe piaciuto: sobrio, silenzioso, elegante. Forse persino meglio del tuo matrimonio…”. Scoppio a ridere senza riuscire a trattenermi. Quando mi fermo sono senza fiato. “Strano… La gente andava da papà e gli stringeva la mano e gli faceva le condoglianze, come se fosse stato ancora tuo marito. Per santa madre chiesa forse lo era ancora… non so, ma mi ha fatto uno strano effetto vedere quella gente che gli si avvicinava e scuoteva il capo comprensiva e lui che ricopriva quel ruolo che forse non poteva recitare nessuno e io che rimanevo in secondo piano, come se la mia ribellione fosse stata imperdonabile, e nemmeno la tua morte mi avesse restituito il ruolo di figlia. Io rimanevo l’estranea e lui il marito, il padre, per sempre. Mi ha accompagnata a casa tenendomi sotto braccio. Un guadagno secco per lui: da domani, niente più alimenti. Quando mi ha baciata sulla guancia il suo fiato sapeva di birra, di piscia di gatto come dicevo da bambina, ma ho finto e ho sorriso. Tu, ti saresti opposta: forse è per questo che ho ricambiato il bacio. Mi ha perfino chiesto se avevo bisogno di qualcosa, se volevo un aiuto per liberare l’appartamento. Ma non ce l’ho fatta ad accettare: tu sei morta e adesso lui non conta più. Ho scosso la testa e l’ho ringraziato. Gli ho anche promesso di chiamarlo qualche volta, ma so che non lo farò, nemmeno lui vorrebbe che lo prendessi sul serio”.
Sbuffo e mi guardo attorno un’ultima volta: chiamerò un’impresa o un robivecchi, se esistono ancora, e lascerò che se ne occupino loro. Mi avvio all’ingresso con passo ciondolante e d’un tratto mi chiedo perché. Perché ci hai escluso tutti? Perché eri talmente presa da te stessa da cancellarci dalla tua vita? Io Giovanna gli amici papà o qualche suo sostituto. Quando è successo? Quando abbiamo perso il contatto e tu sei diventata un’estranea? Quando ti sei seduta su un punto immaginario e, raggomitolata con le ginocchia fra le braccia, ti sei per sempre staccata da me? Quando è stato il momento in cui mi hai veramente lasciata? Quando sei morta – madre?
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
venerdì, 10 febbraio 2023
In copertina: Foto di Taken da Pixabay.