Prima parte
di Roberto Rinaldi (prefazione di Tommaso Chimenti)
«Forse nessuno ascolta l’Altro nel mondo. Semplicemente si può essere sfiorati dall’Altro
e allora è un gran lusso. Io in te vedo quello che non sono,
che forse non vorrei neppure essere ma che da qualche parte di me sono»
Prefazione
“Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto” – Pier Paolo Pasolini
Ci sono attimi che passano. Sarebbero da cogliere. Ma sono fogli bianchi, tutti da scrivere, che volano appena la finestra si apre. E rimangono incompiuti. E rimangono insoddisfatti. Proprio per questo, con il cerchio ancora lontano dal chiudersi, paradossalmente pieni, vivi, eterni, infiniti. Cioè non-finiti.
L’opposto di ciò che è l’uomo, in divenire, ma sempre, costantemente, votato al fallimento, alla conclusione, all’unione degli estremi in un’unica soluzione.
I recinti aperti, spalancati, ci spaventano, ci danno l’occasione per poter essere tutti i noi che abbiamo recluso, scacciato, emarginato, tenuto alla catena o solamente in disparte. Il deserto e il pack ghiacciato sono i luoghi dove si riesce a trovare quella parte divina che ci alberga dentro senza pagare l’affitto. Chiamala anima, chiamala, se vuoi, consapevolezza.
MPAA è un accadimento, che è sempre una fuga, un passo indietro per prepararsi al salto. Un salto verso l’ignoto, un salto nel buio, dagli esiti incerti. E, qui, chiamalo amore. Senza alcuna rete, come un trapezista ingenuo e precario e candido in equilibrio instabile, buttandosi nelle onde e scambiando le pinne di squalo per schiuma.
Un ac-cadere, lasciarsi andare, lasciarsi prendere e portare via. È un succedere, che niente ha a che vedere con il successo infingardo e capitalistico. In un continuo scioglimento di nodi e flash back, in uno sliding doors dove tutto, anche le più minime briciole insignificanti, ha un peso ed un prezzo da sostenere, in un agognato dejavù (che alcuni scienziati imputano ad una momentanea e fulminea e passeggera mancanza d’ossigeno al cervello), lo strano caso dell’Uomo che incontra, prima casualmente poi ad intervalli regolari e numerici, il suo (Alter) Ego, lo straniamento è dietro l’angolo. Gli altri sono un nostro intimo proiettarsi, una prospettiva a cuneo verso l’interno.
In MPAA esistono delle leggi sommesse, regole sotterranee. Ci sono Anime Salve, anime antiche ed altre che si sparpagliano come petali marci senza rendere l’amore che gli è stato donato. E c’è in ogni rima, in ogni sillaba, la paura di perdersi e la voglia di farlo, di lasciare gli ormeggi, liberarsi dalle zavorre appesantenti e costruite faticosamente nel tempo.
Gabbie neanche dorate, involucri arrugginiti, bozzoli grigi per bruchi che non sanno di avere ali coloratissime, scafandri di palombari senza più bombole dalle quali succhiare la vita. L’Uomo che naviga a vista è Cappuccetto Rosso in un bosco di biciclette e di segni, di lettere scritte su uno schermo che galleggiano nell’etere e lì sorseggiano in cannucce ostruite.
È un’attesa sul bordo dell’abisso e le sirene arrivano ad invogliare a fare quel salto ultimo. Ma bisogna sempre essere in due per giocare. È un gioco di rebus da decifrare e sciarade da interpretare, di sudoku da scomporre, cruciverba da rimettere al loro posto. Il dado è tratto.
È un incedere ed un fermarsi, un sostare e un riprendere, uno stordimento, uno straniamento tra il qui e l’ora e l’altrove ed il quando. Certamente il forse. E’ un battito animale che scandisce le presenze e le energie positive che i corpi emanano, è il sesto senso che qui diventa primario e dirige vista, occhi, tatto nell’unica direzione possibile, dove lo scandagliomuscoloimpazzitoasinistrasottolecostole punta deciso.
E poi c’è quel ʻmagari’ che ci tiene sospesi, increduli, incerti sui passi nella sabbia che arrivi un’altra folata a rimangiarci, nelle briciole che passi un affamato a portarsele alle labbra. È mistero e arcano, il tutto tenuto in bilico dalla magia, dall’alchimia dell’imperfezione che, nel contingente, nel momento, sembra sempre togliere qualcosa, che sia poesia, un attimo di felicità o l’occasione della vita, ma che si dona, come un abbraccio, nel tempo, e ritorna, come in un nascondino infantile, quando meno te lo aspetti.
Tommaso Chimenti
*°*°*
L’inciampo fatale
Gli ʻinciampi’ tra due esseri umani a volte non sono casuali,
perché la vita di ognuno di noi s’interseca con quella dell’altro
e lasciano sempre un ricordo,
un’immagine nella memoria e nella coscienza.
A volte lo stupore si manifesta all’improvviso. Di notte. Sotto la luce al neon di una vetrina dove si consumano attimi di brivido e batticuore. Viene meno il respiro quando ti senti dire: “Magari ti ribecco”, e tu resti lì spiazzato e incredulo.
Quella frase detta in corsa durante la sua fuga risuonava dentro come l’eco di un suono rarefatto. Lo sguardo rivolto all’indietro, ma di lui non c’era più traccia. Era apparso per un solo istante. Il buio l’aveva inghiottito e il ritorno mesto dei propri passi verso casa sembrava durare in eterno.
Eppure c’è una ragione perché certi incontri lasciano un segno ed altri no. E’ un presentimento inesplicabile che il contatto fugace fa scattare e di cui purtroppo non sapremo mai niente.
Da quella notte attraversava la sua strada per cercare un filo tessuto dal ragno cui farsi catturare. Come un investigatore trovava le sue tracce seminate ovunque, ma il fatidico click computato sulla tastiera del computer, stentava a partire.
Era il giusto timore d’invadere una vita. Una distanza siderale infinita li divideva come un abisso. Un insostenibile macigno impediva un gesto proteso verso quel sorriso che si era manifestato. I suoi occhi neri e magnetici lo avevano indagato per lunghi interminabili minuti.
Si era sentito colto da lui.
Riaffiorò in quell’istante una delle frasi profetiche contenute nelle lettere ricevute da un uomo che sapeva anticipare il futuro: «Ti turberà la sua bellezza quando lo rincontrerai e lo stesso accadrà a lui. Abbasserà lo sguardo nel cercarti. La bellezza richiede uno spazio per essere colta furtivamente. È un semplice gesto, un’occhiata che vi scambierete nel buio di una notte».
Un inciampo fatale che avrebbe potuto sconfiggere la sua imperturbabile coscienza. Una sorta di sinestesia degli affetti. Ora provava solo un malinconico ricordo.
Avrebbe potuto perderlo il treno quella fatidica notte, indugiare oltre nel bar a leggere i giornali, vagare nel buio perdendosi nei vicoli della propria anima solitaria. Invece no. Era andato incontro al suo destino spinto dal quel ʻsentire’ che lo accompagnava da sempre. In sella alla bicicletta, lo zainetto in spalla. Verso di lui. Inesorabilmente. Come gli era stato predetto dalle parole di un uomo conosciuto una notte apparso in una chat. La notte era per lui il luogo privilegiato dove andare incontro al suo destino.
Il contatore gira
Otto giorni e centonovantadue ore dopo. Il contatore dei minuti scandiva il tempo. Il suo silenzio diventava sempre più assordante.
Il sonar non aveva più captato nemmeno un debole impulso. Otto giorni e centonovantadue ore prima. Si era risvegliato dopo un sopore durato troppo tempo e l’obnubilamento della coscienza forse era ancora reversibile.
La sua mente sapeva accedere ad esperienze altrui. Lo aveva già sperimentato con un altro uomo capace di percepire in anticipo il contenuto delle lettere spedite. Anticipava il pensiero e le emozioni di chi ancora non le aveva manifestate. Non poteva sottrarsi. Nemmeno questa volta.
Un sogno color bianco
Appare nel suo camice bianco visto in fotografia. Bianca la lettera che voleva scrivergli. I pensieri vacui spinti verso un nulla da cui non poteva sfuggire. La speranza vana di incrociarlo ancora. Sempre più labile, sfumata nell’oblio che tardava ad arrivare.
Si sentiva come un cielo di nuvole spazzato da un vento gelido. Calda era stata quella fatidica notte, mentre ora sentiva freddo nella coscienza.
La mano ancora tesa in segno d’amicizia. Non restava che il suo viso sorridente, ammirato infinite volte.
Come un sogno. La stessa pulsazione si era manifestata prepotentemente di nuovo. Lo sentiva in avvicinamento come una vedetta di guardia sulla coffa di un veliero in navigazione, attento a cogliere un’ombra all’orizzonte. Forse era stato solo un sogno.
Il radar segnala in avvicinamento…
Il sonar aveva ripreso a scandagliare negli abissi che portavano a lui. Si era seduto dentro un rumoroso bar affollato. Percepiva ancora il suo pulsare. Saliva l’eccitazione che lo costringeva a deglutire a fatica in un’apnea di sentimenti contrastanti. Un istante dopo si era materializzato. Attorniato da fedeli guardie del corpo. Erano gli amici a cui lui era legato e a loro donava il sorriso. Come avrebbe desiderato farne parte.
Aspettò una sua reazione. Si erano scambiati solo uno sguardo fugace. Non poteva restare ancora lì. C’era come un confine e non gli era consentito superare la soglia oltre la quale cadere. La distanza siderale si era materializzata nuovamente. Un groviglio di emozioni repentine, divergenti, attorcigliate. In grado di procurare un senso di smarrimento. Si era trasformato in un gioco dove rincorrersi all’infinito. La sensazione gli procurava una sorta di fibrillazione cardiaca. L’elettroencefalogramma della propria coscienza segnava un labile tracciato. Lui sorrideva altrove e il suo viso s’irradiava di un candore infantile.
Come dirlo con le parole
La pagina aperta sul computer alle due di notte. L’insonnia aveva preso il sopravvento. Doveva raccontare tutto, sviscerare ogni emozione. L’incrocio degli sguardi come un rituale tra uomini che si desiderano e si rifuggono. Rivedere tutto alla moviola e ripartire dal primo istante. Cosciente di fallire, non voleva sottrarsi. Lo aveva cercato e trovato. Un uomo di scienza.
Provava la sensazione di toccare quasi con mano quel sapere conquistato con grande impegno. Non poteva negarlo ma aveva paura.
Stava invadendo la sua vita e c’era solo un modo per confessarlo.
Fuori dalla finestra albeggiava.
Lo stordimento notturno affaticava i sensi già così duramente provati. Un dito sul tasto e le sue parole scritte inviate senza indugio, senza un ripensamento. Le sue emozioni spedite a destinazione dentro il computer di quell’uomo apparso in quella fatidica notte. Non restava che attendere la sua sentenza. Ma c’era un rebus che aleggiava in quella fatidica notte. Non restava che attendere la sua sentenza. Ma c’era un rebus che aleggiava sopra l’occasionale incontro, terminato nell’istante della loro conoscenza.
Magari avrebbe risposto
Le sue parole spiegavano lucide. Sensate. Consapevoli di aver ricevuto un fiume di pensieri piombato come una piena all’improvviso. Una colata di parole tracimate dopo aver covato sotto le ceneri di un vulcano a lungo sopito. L’inizio di qualcosa ancora non definito. Una flebile speranza. Il suo desiderio dalla sera del loro primo incontro, lo aveva scritto subito la stessa notte al suo rientro: peccato tu non abbia accettato la mia amicizia. Ma era più una speranza che non un rammarico. Ora la rotta s’invertiva? Non sarebbe stato facile.
Come biasimarlo di fronte a tanta irruenza insinuatasi nella sua vita.
Parole dettate dall’istante di un’urgenza impossibile da rinviare. Finivano con la parola fatidica magari. Ancora lei, la stessa pronunciata la notte del suo inciampo. Non si era sottratto. Sei lettere per poter sperare. Magari poteva accadere ancora. Ripensava a quella lettera scritta d’impeto. Provava vergogna per aver assunto un tono da inquisitore. Pur non volendolo lo aveva portato sul banco dell’accusa. Per non aver commesso il fatto, sentenzierebbe il giudice nell’assolverlo.
To be continued…
venerdì, 30 settembre 2022 (il romanzo breve è stato pubblicato in originale il 16 giugno 2015 su Rumorscena):
In copertina: Foto di Briam Cute da Pixabay.