Da home sweet home a prigione
di Simona Maria Frigerio
Inutile nascondercelo: la casa in quest’ultimo secolo ha subito una serie di modificazioni a livello semiologico che hanno comportato, non solamente da un punto di vista linguistico ma soprattutto contenutistico – relativamente all’immaginario collettivo – gradi di consapevolezza e accettazione di paradigmi culturali diversi.
In parole povere si è passati da focolare domestico (dove spesso la donna angelicata era, in realtà, una contadina serva sia in casa propria sia nell’aia o nei campi e generatrice di figli, oppure una borghese insoddisfatta à la Madame Bovary) ad abitazione funzionale per famiglie mononucleari post-Seconda guerra mondiale, dotata di tutti i comfort del boom economico, che potessero rendere meno pesanti i lavori domestici della casalinga efficientista a stelle e strisce. Dagli anni 80/90 la casa si è trasformata in un luogo di passaggio, dove servire pasti precotti a famiglie sempre più frammentate e frenetiche; diaframma sottile affacciato sull’universo sempre più inglobante nel quale erano risucchiati single in carriera; giovani rampanti; e studenti che, grazie all’Erasmus e ai viaggi all’estero per apprendere le lingue, avevano eletto il mondo a propria dimora. Dopo l’affaire dei subprime, il mondo si è improvvisamente rimpicciolito e la crisi economica ha minato, oltre che le finanze, anche la fiducia degli italiani (e degli occidentali, in generale): pian piano una certa retorica familistica da ‘Mulino Bianco’ si è fatta strada, le paure reali e indotte si sono moltiplicate – tra orde di migranti che avrebbero bussato alla nostra porta e orde di poveri che restavano chiusi fuori dal cancello dell’Europa e del sogno americano.
Questo il quadro fino al Covid-19, quando lo slogan #IoRestoaCasa è diventato sinonimo dell’apogeo di quella chiusura, fisica e mentale, affettiva e simpatetica, che ormai stava montando come un’onda devastante nelle nostre vite di piccoli consumatori egoisti, certi di esserci comprati anche la morte. Cosa importava che nell’Africa Sub-sahariana morissero ogni anno a centinaia di migliaia di malaria o che 50 milioni di persone al mondo combattessero contro la dengue, se noi potevamo sederci comodamente nella poltrona del nostro salotto, lindo e asettico, a guardare qualche comico demenziale fare battute omofobe o razziste in tivù?
Eppure la casa – strenuo baluardo contro il virus/nemico dell’Occidente opulento, e di una vecchiaia malata tesa oltre lo spasimo da case farmaceutiche voraci – che avrebbe dovuto opporsi a un microrganismo – parte dell’ecosistema né più né meno dell’homo sapiens, ma spacciato dalla retorica terroristica di regime (politica e mediatica) come essere senziente, denotato da aggettivi guerreschi e antromorfici, quali ‘subdolo’ – ebbene, la casa, nelle otto settimane del lockdown, pian piano, e nonostante la paura montante e la narrazione della pandemia sempre più surreale come la sfilata dei camion con le bare dei bergamaschi, che al contrario avrebbero dovuto essere aperte per permettere quelle autopsie che avrebbero forse salvato migliaia di vite; quella casa ha cominciato a diventare una prigione, nonostante si cercasse di spacciarla quale fortezza a difesa di questo deserto dei tartari. Settimana dopo settimana, ci si è sentiti reclusi: chiusi dentro invece che fuori dai cancelli dell’umanità; condannati senza colpa e senza appello; con un fine pena che, settimana dopo settimana, sembrava terminare con un ‘mai’.
Assistere, quindi, oggi (e non l’anno scorso, quando la performance debuttò) all’ultimo lavoro di Cecilia Bertoni (e Carl G. Beukman), On the corner, assume connotazioni e rimandi, e conduce a letture ovviamente diverse. L’anno scorso non avevamo ancora perso la nostra innocenza, potevamo credere in un’eternità di corpi sempre più incancreniti ma immortali – immemori del dolore, chiusi in quell’egotismo che ci faceva credere di poter bombardare il cielo per abbassare le temperature terrestri, o che un muro tra Usa e Messico non ci riguardasse. Convinti che rendere pubblico un video nel quale i soldati a stelle e strisce sparano sui civili sia un atto in sé da condannare – e non da premiare con un Pulitzer; mentre uccidere un leader politico o un presunto nemico del proprio sistema economico con bombe ‘intelligenti’ che, magari, provocano anche danni collaterali (come sterminare una famiglia), sia perfettamente legittimo perché noi siamo dalla ‘parta giusta’.
Il Covid-19 ci ha svegliati da questo sonno della ragione, riportandoci alla carnalità delle nostre esistenze, alla limitatezza dei nostri corpi, alla loro vulnerabilità fatta di sangue e dolore e malattia e morte. Avevamo lasciato l’artista Cecilia Bertoni con #Camera 5 (https://artegrafica.persinsala.it/diamanti-camera-5/12145) e quel senso di pace e comunione con il tutto che si sperimenta nella morte bianca/orientale, fatta di ritorno alla natura, di ciclicità delle stagioni, di accettazione dell’ineluttabile che ci rende, nella sua eguaglianza e certezza, veramente umani; per ritrovarla, dopo la pandemia, nei gorghi di una nuova angoscia nella quale la casa trova il suo fulcro espressivo e percettivo. Una casa dalla quale fuggire, una casa/prigione che anche noi abbiamo recentemente sperimentato sulla nostra pelle.
Delle tre performance che compongono la pièce, è soprattutto quella agita da Bertoni stessa con Fernando Marques Penteado, nel Metato del Pastore, che coglie più a fondo questa profonda assonanza e dissonanza. La casa non solamente come luogo fisico di clausura ma, metaforicamente, anche il corpo come limite corruttibile che rinchiude i nostri sogni e speranze, e che lentamente e inesorabilmente si deteriora fino ad abbandonarci. La lotta strenua e stremante per ricondurlo a noi – e viene alla mente l’illusione distopica occidentale dell’eterna giovinezza indagata, ad esempio, da Marco Chenevier nel suo Saremo bellissimi e giovanissimi sempre, tratto dai pensieri di Meister Eckhart – che si scontra con il limite; quel limite che non dovrebbe essere visto in maniera negativa, bensì come possibilità – perché è all’interno di un limite che possiamo comprendere il valore della libertà: e le otto settimane di lockdown, ce lo hanno ricordato.
Ogni segno, in questa performance, dal corpo bruciato al calore di un camino che lentamente si spegne, come la luce della vita, dall’immobilità del presente incarnato da Bertoni a confronto con il suo (e forse il nostro) subconscio che continua a dibattersi – l’immagine nel video – fino all’apertura di quella finestra che ci riporta all’esterno, alla vita e ai suoi colori/profumi/rumori; tutto concorre, come dicevamo, a inscrivere ancora una volta nel solco del presente il segno di un’umanità che troverà pace solamente nell’accettazione del proprio e del comune limite, ossia nel riconciliarsi con la morte come elemento che dà autentica forza e significato all’atto presente.
E poi si torna a camminare perché lunga e impervia è la strada…
La performance itinerante continua nell’ambito della programmazione tematica Della morte e del morire:
Tenuta Dello Scompiglio
via di Vorno, 67 – Vorno (Lucca)
da venerdì 18 a domenica 20 e da venerdì 25 a domenica 27 settembre 2020, ore 17.00
Compagnia Dello Scompiglio presenta:
On the corner
performance itinerante in 3 atti
di Cecilia Bertoni
in collaborazione con Carl G. Beukman
con Cecilia Bertoni, Fernando Marques Penteado, Mariagrazia Pompei e Charlotte Zerbey
musica, suoni e rumori Carl G. Beukman
regia Cecilia Bertoni
(dato il numero limitato di posti, è necessaria la prenotazione)
Durante il mese di settembre, nei giorni di spettacolo e negli orari di apertura dello SPE – Spazio Performatico ed Espositivo, è possibile visitare le opere permanenti negli spazi della Tenuta Dello Scompiglio: Camera #3; In sosta; There is not a priori answer to this dilemma (The Dolphin Hotel); W18S; Un Esilio; L’Attesa; Arie per lo Scompiglio; e la mostra collettiva Il Cimitero della Memoria.
Venerdì, 25 settembre 2020
In copertina: Compagnia Dello Scompiglio, On the corner (foto gentilmente fornita dall’ufficio stampa. Vietata la riproduzione).