Lo sfruttamento esiste in ogni settore. Compreso il giornalismo
di Simona Maria Frigerio
Quest’anno i giornalisti iscritti all’Inpgi gestione separata (in pratica, le Ritenute d’Acconto e le Partite Iva) si ritroveranno a dover versare alla Cassa pensionistica di categoria un minimo di 369,90 Euro, fino a un massimo reddituale di riferimento di Euro 2.143, 67 (ossia il 17,21% del totale che, nel caso si guadagni anche meno, può arrivare fino al 100% o oltre, se un giornalista guadagna, ad esempio, 369,90 Euro annuali, 250 oppure solo 150 Euro).
Questo perché, come riporta il sito dell’Ente Previdenziale, si è tenuto conto, rispetto all’anno scorso in cui il contributo minimo era 287,96 Euro (a fronte di un reddito minimo di riferimento di Euro 2.132,99) della “variazione annua corrispondente all’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, calcolato dall’Istat, che per l’anno 2020 è risultato pari allo 0,5%”.
L’argomento potrà sembrare cavilloso ma la matematica non è un’opinione. Ora, anche tenendo conto che si è avuto un aumento del 2% (dal 12 al 14% e dal 22 al 24% a seconda delle fasce di reddito annuali) dei due scaglioni di imposizione previdenziale, con il 2,5% di aumento si sarebbe dovuti passare da 287,96 Euro a 295,15 Euro, mentre 369,90 Euro sancisce effettivamente un aumento del 28,45%. Un aumento che, tra l’altro, non trova il corrispettivo in quello del reddito di riferimento (ossia fino a 2.143, 67 Euro – cifra che, rispetto ai 2.132,99 Euro dell’anno precedente, corrisponde al famoso 0,5%).
La Costituzione calpestata
Nell’art. 53 della Costituzione, al secondo comma, è contenuto il principio della progressività del sistema tributario che sancisce, in parole povere, che chi guadagna di più deve anche versare di più, in percentuale, rispetto a chi guadagna di meno. Ecco perché, sia a livello di Irpef che di Inps, il lavoratore che non superi i 5 mila Euro lordi annui (tenendo conto che il 20% della Ritenuta d’Acconto è poi restituito al lavoratore con la dichiarazione fiscale dell’anno successivo) non versa né tasse né contributi previdenziali.
Mentre, chi è giornalista, è obbligato fino al 15° anno di anzianità lavorativa, al versamento del contributo minimo che, come si è visto, può dirsi anticostituzionale in quanto aumenta in percentuale con la diminuzione del reddito.
Chi è giornalista oggi?
Quando si chiede solidarietà alla categoria, però, cosa si ottiene?
C’è chi ti risponde che “se prendi poco, è perché vali poco”, altri ti dicono che fai loro concorrenza sleale svendendoti, i più compassionevoli ti consigliano di cercarti un altro lavoro. Sebbene nelle redazioni gli assunti sappiano che molti tra i loro colleghi a Partita Iva o in Ritenuta d’Acconto prendano anche meno di 5 Euro ad articolo, persino sulla blasonata carta stampata, o siano sfruttati nelle redazioni televisive come stagisti, la solidarietà sembra fermarsi ai succitati consigli.
Eppure i medesimi consigli si potrebbero estendere a musicisti e attori, grafici e coltivatori diretti, ricercatori universitari e promoter, chi raccoglie pomodori in un campo e chi è addetto stampa in un ufficio o, più spesso, a casa propria (altra categoria spesso sottopagata. I cui membri, nonostante l’Ordine spinga perché diventino giornalisti e si iscrivano all’Inpgi, tendono – se possono – a non farlo e a restare nell’Inps anche per la relativa esenzione).
Ma cambiamo prospettiva. La verità, però, potrebbe essere un’altra. L’imposizione che obbliga, per rimanere iscritti all’Ordine dei giornalisti, a versare un contributo Inpgi perché il lavoro non retribuito non è considerato tale e porta all’espulsione dall’Albo, costringe alcuni ad accettare compensi da fame pur di rimanere nel giro e avvalersi di alcune prerogative, proprie del giornalista, che lo garantiscono maggiormente in caso di querela – dato che la giurisprudenza in Italia ha più volte ribadito “il diritto insopprimibile dei giornalisti alla libertà di informazione e di critica”. In effetti, visto l’uso strumentale della querela civile, chiunque voglia fare informazione indipendente difficilmente potrà fare a meno del minimo di garanzia fornito dall’iscrizione all’Ordine.
Teniamo infine presente che dette cifre non potranno mai assicurare al lavoratore una pensione e, quindi, risulta doppiamente vessatorio costringerlo a versare un’alta percentuale dei suoi magri guadagni per riavere (sempreché arrivi a 66 o più anni e l’inpgi non finisca nel calderone Inps) il versato indicizzato (e, ovviamente, tassato). Ora, questa non può essere considerata che una forma di accantonamento e/o investimento, che dovrebbe essere su base volontaria, ma non ha alcun senso considerarla (vista l’entità complessiva da accantonare negli anni e la sproporzione rispetto al reddito effettivo annuale) una forma previdenziale obbligatoria.
Ma non solamente nei campi di cotone…
16 giugno 2020
In copertina: Il lavoro. Il venditore di ananas arrostito in spiaggia. Koh Tao, Thailandia. Foto di Simona Maria Frigerio (vietata la riproduzione).