Le detective stories di Robert Crais ridanno lustro all’hard boiled
di Simona Maria Frigerio
Esistono passioni che ci accompagnano fin dall’infanzia. La mia è quella per i thriller, per sempre legati all’immagine di mia madre in bikini, sdraiata sul lettino come una lucertola al sole, che si crogiolava per ore sulla spiaggia di San Giuliano Mare persa nei suoi ‘gialli’ Mondadori – a quei tempi letteratura di genere e, quindi, rigorosamente di serie B (giusto un po’ meno ‘vergognosa’ di Liala, dei fotoromanzi di Grand Hotel e de L’amante di Lady Chatterly, nascosto da una copertina di carta fregiata, chissà perché, con il giglio di Firenze).
Negli anni 70 imperava il whodunit, ossia la detective story tesa alla ricerca del colpevole del delitto, che vedeva sul podio d’onore S. S. Van Dine (La fine dei Greene e La canarina assassinata tra i suoi must), John Dickson Carr/Carter Dickson con gli enigmi della camera chiusa, ed Ellery Queen (pseudonimo di Frederick Dannay e Manfred Bennington Lee), che riscuoteva anche grande successo tra il pubblico televisivo grazie alla serie interpretata da Jim Hutton e David Wayne.
A un livello più ‘alto’ – perché in Italia la letteratura, come il cinema o il teatro si devono dividere tra alto e basso, dove al primo appartengono drammi, tragedie e polpettoni vari, e al secondo comico, satira e generi – l’hard boiled nel Belpaese arrivava soprattutto grazie alla mediazione cinematografica del noir, ormai nella programmazione televisiva (dato che tali film erano usciti vent’anni prima, in epoca di ‘telefoni bianchi’ e, quindi, erano ben poco noti da noi ma altresì in vari Paesi europei coinvolti nella Seconda guerra mondiale). Oscuri e disperati, i noir furono rivalutati dalla critica francese negli anni 60, e annoveravano decine di titoli tra Il Mistero del falco (John Huston, 1941) e L’infernale Quinlan (Orson Welles, 1958). Il realismo allora (ma forse persino oggi) imponeva il bianco e nero, ma anche altre erano le specificità del genere a livello cinematografico: la cura per la fotografia con ascendenze dall’espressionismo tedesco, lo spazio occupato da onirismo e incubo, la dipendenza del protagonista dall’alcool (spesso comune all’interprete nella vita), la sigaretta sempre accesa, l’impermeabile che faceva da contraltare agli asfalti lucidi per la pioggia, il dualismo irriconciliabile detective/dark lady, la corruzione dilagante, trame spesso contorte e che rimanevano in parte irrisolte, una sensualità ‘deviata’ o fuori dal matrimonio che doveva essere sempre punita (il Codice Hays decadrà solamente nel ‘67). E molti di questi film traevano la loro linfa vitale non dai fatti di cronaca nera ma dagli hard boiled di autori di gran classe, almeno in un caso prestati anche alla sceneggiatura: pensiamo a Raymond Chandler.
Robert Crais, l’autore di L. A Killer, inizia la propria carriera proprio come sceneggiatore soprattutto di telefilm polizieschi, da Miami Vice a Hill Street giorno e notte. Per fortuna a un certo punto della sua carriera decide di scrivere romanzi, abbandonando il piccolo schermo e inventando la coppia di detective composta da Elvis Cole e Joe Pike.
Dietro a un buon hard boiled c’è sempre la cruda realtà
Quando si sceglie un libro, perché lo si fa? Per la copertina patinata? Il titolo accattivante? L’ambientazione esotica? Le recensioni fasulle dei quotidiani stampate in controcopertina (ovviamente sempre entusiastiche)? La trama in breve che, spesso, è scritta da qualcuno che non ha letto il libro? In questo caso mi sono fidata delle parole di James Ellroy (scrittore culto del genere, autore della trilogia di Lloyd Hopkins): “I romanzi di Crais sono intelligenti, intuitivi, duri e avvincenti”. Chiuso il libro, potrei aggiungere: raffinati hard boiled con un tocco di Steinbeck.
L. A. Killer non è il primo romanzo del ciclo, e nel prosieguo Crais ha deciso di dare maggiore spazio, o addirittura il ruolo principale, al personaggio del co-protoganista, Joe Pike. Negli altri (soprattutto quelli precedenti e anche in questo) è Elvis Cole a occupare la scena con un misto di disincanto e romanticismo à la Bogart – condito da una buona dose di autoironia.
Il libro scorre velocemente senza l’abuso del cliffhanger – ossia un (in)opportuno colpo di scena – tra un capitolo e il successivo, per tenere alta l’attenzione dello spettatore: pratica che sta diventando un espediente stucchevole in alcuni lavori di Jeffery Deaver e Donato Carrisi. Il lettore sebbene debba identificarsi con Cole, che è altresì la voce del Narratore, entra anche nella mente del killer e nei sogni e nei ricordi di Pike – in una serie di sovrapposizioni che potrebbero mettere in dubbio l’identità degli stessi. Essendo un thriller – tra l’altro, molto ben costruito – non vi riveleremo altro se non il perché abbiamo citato Steinbeck. Non sono solamente i giallisti scandinavi ad aver legato le loro storie alla denuncia della società contemporanea o delle nefandezze commesse dalle loro nazioni nel recente passato. Anche il noir cinematografico e l’hard boiled letterario a stelle e strisce spesso esprimono, sebbene a livello metaforico, le profonde storture della società che li ha prodotti. Seguitemi e capirete.
Ci sono frasi che ci restano attaccate addosso come carta moschicida. Una di queste, per me, è: “Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia” (da The Grapes of Wrath, letteralmente ‘i frutti dell’ira’, tradotto in Furore, 1939, Jonh Steinbeck). In L. A. Killer c’è un capitolo particolare, avulso dalla trama – e quindi, niente paura, nessuno spoiler – in cui si descrive un episodio dell’infanzia di Pike. C’è un ragazzino mingherlino, che ama perdersi tra i boschi e immergersi nella natura, che un giorno vede tre ragazzi più grandi di lui penetrare nel suo ‘regno’ per dare fuoco a un gattino. Tre ventenni come tanti, di una mediocre cittadina statunitense come tante, che vogliono far passare un tempo senza senso, mentre aspettano la cartolina che li spedirà a bruciare il Vietnam sotto le bombe e a distruggerne i campi con l’agente arancio. Ma i tre bulletti di periferia (tra i quali c’è anche una giovane) vengono fermati dal ragazzino: più piccolo di loro, magrolino, solo, apparentemente indifeso, ma tenace al punto tale da farsi pestare a sangue pur di salvare il gatto. Come quei viet cong che si nascondevano nei tunnel mentre combattevano il gigante statunitense, non si arrende. Si fa massacrare. Ma fino all’ultimo pugno e calcio ripete: «Non è finita finché non vinco io».
Da leggere tutto d’un fiato, meglio sotto un ombrellone o stesi su un’amaca al limitare di un bosco.
Venerdì, 9 aprile 2021
In copertina: Los Angeles. Foto di David Mark da Pixabay.