Marco Martinelli racconta la trilogia afro-ravennate
di La redazione di InTheNet
Sentiamo telefonicamente Marco Martinelli, drammaturgo, regista e Deus-ex-Machina del Teatro delle Albe mentre sta preparando la nuova chiamata pubblica per il terzo capitolo dedicato alla Divina Commedia – quel Paradiso che inonderà le strade di Ravenna, e che sarebbe dovuto andare in scena nel 2021 per i 700 anni dalla morte del poeta.
Il debutto dello spettacolo che, immaginiamo, sarà in parte itinerante e che coinvolgerà anche la cittadinanza, avverrà negli stessi giorni in cui al CAMeC di La Spezia, si aprirà la mostra dedicata a Giacomo Verde. La coincidenza ci porta a ritornare agli anni in cui Ermanna Montanari e Marco Martinelli incontrarono Verde e agli spettacoli nei quali collaborarono, ma anche al lungo viaggio che li condusse fino a Dakar, confrontandosi con la cultura e le tradizioni senegalesi.
Quando avvenne l’incontro con Giacomo Verde?
Marco Martinelli: «Qualche anno prima di Siamo asini o pedanti?, ci eravamo conosciuti e ci eravamo molto piaciuti. In genere, noi contattiamo artisti che sono anche persone che ci piacciono. Non solamente, quindi, perché bravi o hanno talento, ma quando sentiamo una sintonia più profonda con loro, che riguarda l’arte ma anche la vita. Con Giacomo condividevamo questo innamoramento per il teatro e per tutti i linguaggi artistici. E però, come dice Elsa Morante, uno scrittore prima di tutto è uno che non si occupa di letteratura ma si occupa del mondo e la nostra passione era per la vita in quanto tale, per l’umanità e per la polis. Quindi, nei primi anni Ottanta, in quel periodo in cui si voleva gettare al vento tutta la militanza dei decenni precedenti, noi sentivamo – come Giacomo – che non si doveva buttar via ‘il bambino insieme all’acqua sporca’. Certamente c’erano state troppa ideologia e tanta rigidità, però la creatura andava salvata, ossia il fatto che un artista è, prima di tutto, un cittadino all’interno della città, il cui lavoro è inteso per il bene di tutti anche quando va contro tutti – creando degli scarti o dei conflitti. Questa passione per la polis rimaneva ed era il segno che avvicinava Giacomo a noi».
In Siamo asini o pedanti? (del 1989), Verde interpreta la parte del pastore zampognaro. Da cosa nacque quel personaggio?
M. M.: «Siamo asini o pedanti? è una favola surreale in cui tre migranti senegalesi, arrivati in Italia, decidono di vendere la loro asinella magica – in quanto parlante – a un business man, in completo grigio, che non si sa bene come voglia utilizzarla, forse per esibirla in qualche baraccone televisivo. Ciò che conta è però l’atto della compravendita, mentre l’elemento surreale è, innanzi tutto, costituito da Fatima, l’asinella parlante che è anche il simbolo della ricchezza culturale del mondo senegalese in cui (anche nelle favole tradizionali) la figura dell’asina è una sorta di guida psichica e onirica di grande rilevanza. La narrazione procede con i migranti che acconsentono alla vendita e però Fatima deve dormire un’ultima notte con loro. In quelle poche ore tutto si stravolgerà e all’acquirente – con tutti i suoi soldi e già pronto per l’affare – ne accadranno di tutti i colori. L’incubo nel quale si ritroverà immerso è una specie di mondo alla rovescia, carnevalesco (1), in cui sono gli africani a dominare e lui – che si ritrova in posizione subalterna – deve subirne tante. In questo circo notturno che nasceva nelle nostre menti, sentimmo la necessità di una figura di musicista che sapesse mettersi in relazione con le percussioni e i tamburi africani già sperimentati nello spettacolo precedente, ossia in Ruh. Romagna più Africa uguale – che aveva inaugurato questo nostro percorso e dialogo con l’Africa. Volevamo una figura di musicista e così inventammo il personaggio dello zampognaro che affidammo a Giacomo, in quanto sapeva suonare lo strumento. E non solo. Siccome già nel precedente Ruh avevamo lavorato sull’intreccio dell’italiano, del dialetto romagnolo e del wolof (2); ed essendo io – come drammaturgo – interessato ai dialetti e alla fusione tra lingue diverse, Giacomo fu chiamato, oltre che per suonare, per far ‘risuonare’ il suo dialetto. Inventai, quindi, la figura di Giordano, il pastore zampognaro, che segue oniricamente la narrazione, è dentro a questo circo notturno, e sarà colui che, nel suo monologo finale, tirerà le fila dell’intera favola. Mentre molti hanno il ricordo di Giacomo come sperimentatore di linguaggi tecnologici, il nostro approccio fu in certo senso arcaico: valorizzammo il suo saper suonare la zampogna e padroneggiare il dialetto napoletano. Anche perché io scrivo i testi solo quando so quale sarà veramente la squadra in campo, ho bisogno di misurarmi con la carne viva: è stato, quindi, dopo aver scelto Giacomo che, insieme al gruppo, ho elaborato e composto Siamo asini o pedanti?».
Verde ha realizzato anche la documentazione video del viaggio del Teatro delle Albe in Senegal del gennaio-febbraio 1990. Alla Ravenna-Dakar parteciparono, oltre a Verde, Mor Awa Niang, Luigi Dadina, Nico Garrone, Ermanna Montanari, Mandiaye Ndiaye e lei. Per quale motivo le Albe intrapresero un simile viaggio?
M. M.: «Stavamo ricambiando la visita dei nostri amici senegalesi: loro erano arrivati in Italia come migranti e noi volevamo vivere a casa loro, nei loro villaggi. Giacomo venne con noi e riprese questo lungo periodo di lavoro. Quel viaggio di due mesi in Senegal fu poi tradotto in un video, la Ravenna-Dakar, il cui titolo era una celia della Parigi-Dakar – in quanto noi non attraversavamo il deserto con le motociclette, ma andavamo nei villaggi per un autentico scambio di anime».
Mi sembra che in quegli anni esistesse una autentica forma comunitaria, in cui compartecipavano artisti di estrazione diversa ma anche critici – come, ad esempio, Nico Garrone. Com’era il clima di allora?
M. M.: «Ho cercato di raccontare quell’atmosfera in un piccolo libro, che ho anche recitato, Farsi luogo (3). Da sempre Ermanna e io possediamo questa tensione: quella del farsi luogo, farsi comunità, farsi ambiente in cui intrecciare relazioni e pensieri. Quella particolare esperienza che fu la Ravenna-Dakar è stata solo una dei tanti appuntamenti di questo farsi luogo – da Scampia al Kenya (4). L’arte ha senso se gli artisti sono in relazione con l’altro da sé, che è la vita stessa – sia i membri della polis, sia quegli studiosi che si dedicano al teatro con la loro professione, con la scrittura, con la critica. Noi crediamo che ogni città debba essere un’università permanente in cui si incrociano esperienze e saperi. Per tornare a Nico, ricordo che allora lo chiamavamo il ‘critico monello’ perché, come uomo, non ambiva al potere: scriveva per il piacere di guardare il teatro, e a volte aveva delle autentiche illuminazioni. Per noi, allora appena trentenni, non era il cosiddetto critico paludato, che intimoriva, era un compagno di strada. Tra l’altro lui aveva scritto su Siamo asini o pedanti? più che una critica, un approfondimento, e siccome noi saremmo andati a recitare quello spettacolo nel Teatro Nazionale del Senegal, a Dakar, e poi nei villaggi della Casamance (5), ci parse naturale invitarlo a seguirci. Vivemmo due mesi in Africa, da una parte come un’immersione nel loro mondo per cercare di capire da dove venissero quei ragazzi che incontravamo sulle nostre spiagge, quali erano le motivazioni dei loro viaggi, e dall’altra come artisti in tournée».
Le Albe, sempre nel 1990, crearono lo spettacolo Lunga vita all’albero, tratto da una leggenda senegalese, dove Giacomo Verde interpretava la parte di un cantastorie smemorato, munito di fisarmonica, lui che si autodefiniva narratore più che attore. Ci racconta quello spettacolo?
M. M.: «Lunga vita all’albero nasce nei due mesi trascorsi in Senegal, come se fosse la conclusione di una trilogia: come se ogni lavoro di quel periodo germinasse in qualche misura dall’esperienza precedente. Eravamo in Casamance quando ci raccontarono la storia di Alinsitowe Diatta, regina animista, una figura che – so di banalizzarla – potrebbe essere traslata in quella di una Giovanna d’Arco africana. Ancora molto giovane comincia a sentire le voci degli antenati che le dicono di liberare il suo popolo dai colonizzatori francesi. Curioso che la pulzella d’Orléans volesse, al contrario, liberare la Francia dagli inglesi! Non immaginiamoci, però, grandi città o castelli e corti: lei era una profetessa che vagava tra i villaggi. Teniamo conto che in Casamance, ancora nel 2022, l’Islam non è riuscito realmente a penetrare sebbene sia la religione ufficiale del Senegal e, in questa regione, resiste una sorta di guerriglia delle tribù animiste contro il governo musulmano di Dakar. Questa figura ci sembrava l’icona perfetta della rivolta contro il colonialismo e così, Ermanna, Luigi, Giacomo e io decidemmo di ideare uno spettacolo che raccontasse la sua storia. Bisognava però trovare il come per decidere se il racconto sarebbe stato efficace. Fu così che inventai un narratore, impersonato da Giacomo, che si sarebbe sposato perfettamente al suo modo di essere in scena e al fatto che fosse trilingue perché, oltre all’italiano e al napoletano, Verde padroneggiava il toscano (avendo vissuto a lungo a Empoli). Mi inventai questo narratore che doveva raccontare la storia della regina animista e, però, non se la ricordava. Per fortuna, sulla sua strada, incontra un Arlecchino nero, africano, un griot, al quale chiede aiuto. Da quel momento, insieme, racconteranno di questa rivoluzionaria nera e, contemporaneamente, la storia della nostra Resistenza. Piani onirici e reali si intrecciano in quella che pare una doppia rivolta: contro il nazi-fascismo e contro il colonialismo francese. Ultimo particolare, Giacomo suonava anche, in questo caso la fisarmonica, a dimostrazione della sua grande versatilità».
(1) Il ‘mondo alla rovescia’ di tradizione carnascialesca, prende origine dai Saturnali romani in cui gli schiavi potevano sentirsi liberi e i padroni diventare servi, gli uomini si vestivano da donne e viceversa, durante festini sfrenati. In epoca medievale, i morigerati costumi religiosi erano sconvolti e si eleggevano un Re e una Regina della festa e, soprattutto, gli studenti universitari, i clerici vagantes, passando da un’università all’altra e da una piazza all’altra, proclamavano il rovesciamento dei valori, scardinando per qualche giorno l’autorità politica e religiosa – memorabile lo spazio che Umberto Eco diede a tale tradizione in Il nome della rosa (dalla Cena Cypriani all’invettiva di Jorge da Burgos contro il riso e la commedia).
(2) Il wolof è una lingua parlata da alcune popolazioni che vivono in Senegal, Mauritania e Gambia.
(3) Farsi luogo: Varco al teatro in 101 movimenti, Marco Martinelli, 2015.
(4) Si consigliano, per comprendere meglio alcune di queste esperienze, il libro Aristofane a Scampia, Marco Martinelli, Ponte alle Grazie, Milano, 2016; e il docu-film The Sky over Ribera, Marco Martinelli, 2019.
(5) La Casamance è una regione geografica del Senegal meridionale, divisa dai colonialisti francesi e portoghesi tra Senegal e Guinea-Bissau.
venerdì, 27 maggio 2022
In copertina: Una foto d’epoca con Ermanna Montanari (a sinistra) e Giacomo Verde (sulla destra), durante l’avventura della Ravenna-Dakar. Sullo sfondo, dalla parte di Verde, maglietta nera e occhiali da sole, Marco Martinelli, mentre tra Montanari e la figura centrale, il drammaturgo Gigi Gherzi, anch’egli amico di Verde. (Giacomo Verde Archives).