Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
L’autunno iniziava poco dopo l’equinozio, con il ritorno a scuola – anche se la data fissa del 1° ottobre, nel frattempo, era scomparsa insieme a quelle poche certezze che sembrava ci stessero abbandonando tutti – adulti o bambini che fossimo. I primi giorni il giardino, che circondava il vecchio edificio di epoca fascista, era ancora fiammeggiante grazie al rosso intenso delle foglie che salutavano la riapertura delle aule con la loro sgargiante livrea. Poi iniziavano le piogge e i colori si slavavano via. Il mondo appassiva intorno a noi, le giornate si facevano sempre più corte e quell’umidità che ti entrava nelle ossa nelle cinque ore di lezione, ti restava appiccicata come una seconda pelle, come un velo tra il te – che avevi lasciato sotto il sole ardente di luglio – e quella lana ‘punzecchiosa’ che doveva proteggerti dall’autunno e, invece, ti faceva sudare o ti dava prurito. Allora tutto era di lana, una lana spessa che si infeltriva seccandosi sui caloriferi, dalle calze alla canottiera (la maglia della ‘salute’ come si diceva allora), fino al maglione rigorosamente a collo alto, il gilet, la sciarpa, il cappello e i guanti. Quando uscivo di casa la mattina sembravo l’omino Michelin sotto il mio loden di lana verde militare e iniziavo subito a sudare – dal freddo, dal caldo – così quella sensazione di essere sempre bagnata non mi abbandonava mai.
L’unico momento in cui mi sembrava di scaldarmi era la sera a cena, quando i nonni e io chiudevamo fuori il mondo e ci sedevamo tutti e tre a tavola. La nonna faceva una sola cosa in casa: cucinava. Prima dei miei cinque o sei anni, stirava anche. Ma poi io avevo voluto provare a farlo, il nonno aveva spinto la nonna a farmi tentare, magari con le mutande (che erano tra le cose più difficili perché tutte spiegazzate e con gli elastici – ma se le bruciavo non si vedeva), e io mi ero dimostrata così abile che, pian piano, soprattutto dopo che eravamo passati dal ferro da stiro in ghisa, pesante e che andava scaldato sulla cucina economica, a quello fighissimo elettrico, mi ero ritrovata a stirare tutto – tranne la piega dei pantaloni del nonno – che si faceva da sé, come un rito religioso che solamente lui potesse celebrare. In verità il ferro da stiro elettrico era uno dei pochi elettrodomestici in quella casa. La colf, mia madre, ce l’aveva da anni, ma i nonni facevano fatica a comprare quattro tendine, figuriamoci gli elettrodomestici! Perfino la tivù, in bianco e nero (quando sapevo che il marito di mia madre aveva già da anni un Telefunken PAL color per guardarsi l’automobilismo, stravaccato sulla poltrona in pelle ‘vera’), con quelle valvole che – a metà del film o della partita domenicale – dovevo sempre girare un po’ a destra o a sinistra perché l’immagine cominciava a saltare, e andava di nuovo fissata; ebbene, quella tivù era stata il primo regalo di Natale comprato da mia madre e da mia zia quando erano riuscite ad andare entrambe a lavorare (mia madre ripeteva sempre che aveva ancora le ‘calze corte’). A parte la tivù, e poi il ferro da stiro, ricordo solo il phon, in quella casa, e ricordo anche quando fece una scintilla di troppo e rischiai di bruciarmi ma ebbi la prontezza di aprire la mano e lasciarlo cadere sul divano-letto del nonno e così bruciai solo il copridivano, a strisce rosse e oro (che, dopo molti anni, avrei capito essere di liseré: allora, per me, era solamente molto liso).
Quell’autunno, però, era un susseguirsi di acqua e di fuoco. A parte le piogge e l’incidente col phon, una ragazza, un’ereditiera australiana di nome Lynette Phillips, si era data fuoco. Aveva scritto anche un biglietto un po’ di tempo prima nel quale sperava che la sua azione avrebbe aperto la strada “all’instaurazione di un nuovo ordine sociale privo di sfruttamento, miseria e ingiustizie”. Non capivo bene perché lo avesse fatto, ma sapevo che doveva essere stato molto doloroso e la rispettavo per questo. Un giorno, in ospedale, andando a trovare il nonno che era stato ricoverato per il suo cuore o forse per il suo cancro, quello che me l’avrebbe portato via per sempre, avevo conosciuto un bambino, più o meno della mia età, che si era gettato addosso per sbaglio dell’alcool, quando era molto piccolo, e poi aveva acceso un fiammifero. Era sfigurato. Ma non era tanto quello che mi sconvolgeva vedendolo, ogni giorno in ospedale, quanto il fatto che dopo tanti anni dovesse ancora essere curato lì dentro. Quando lo guardavo – stando attenta a che mia madre non mi beccasse perché lei aveva la mania che i deformi, quelli in carrozzina o gli sfigurati, insomma tutti quelli che chiamava ‘poverini’ non dovessero essere fissati perché ‘non stava bene’ (ma era rispetto, il suo, o era un modo per evitarsi la sofferenza, il dolore, l’atroce assurdità della vita? Io non nascondevo mai il mio sguardo, nemmeno allora scappavo di fronte all’oscenità che chiamavamo esistenza); ebbene, ogni volta che lo fissavo, lui non sfuggiva il mio sguardo ma mi sorrideva con quella sua bocca mezza sbieca e mi diceva: «Lo sai che lo sento ancora, il fuoco? Mi brucia dentro» e poi mi portava in giro per l’ospedale: lo conosceva tutto, da cima a fondo. E così salivamo sull’ascensore, anche se non avremmo dovuto perché eravamo troppo piccoli, e lui si divertiva a portarmi su e giù e a raccontarmi ogni volta com’era successo – anche se ogni volta mi chiedevo come facesse a ricordarselo: se le fiamme gliel’avessero impresso nelle cellule del cervello o se quelle del corpo avessero loro stesse una propria memoria che trovava, in quelle del cervello, le parole per esprimere la loro sofferenza.
Dopo solo tre giorni dall’autoimmolazione di Lynette ce ne fu un’altra, un’inglese, una signora che si chiamava Pamela Evans Cooper e che dicevano fosse depressa. E poi un minatore, una bidella, un giovane facchino e una ventiseienne di Brighton – un paese che non conoscevo ma il nonno mi spiegò che era sul mare. E così scoprii che la gelida Albione aveva il mare e certa gente ci faceva pure il bagno. E intanto l’epidemia degli uomini e delle donne ‘torcia’, come li chiamavano ai telegiornali, continuava e andò avanti per mesi – anche se era sempre meno una ‘notizia’. C’era chi dava la colpa alla tivù e chi alla depressione. Era più facile pensare che fossero pazzi o ‘influenzabili’ – come se la spiegavano gli adulti perché non potevano ammettere che a qualcuno venisse davvero voglia di darsi fuoco per qualche motivo logico, valido, razionale. Ma in un libro o in una rivista del nonno (non ricordo in quale ma ricordo che era tra quelli ‘messi all’Indice’ da mia madre), avevo letto che il 10 giugno del 1963, in una città chiamata Saigon, un monaco si era seduto a terra in mezzo alla strada, si era accomodato nella posizione del loto (che mi pareva fosse come quella che chiamavamo ‘all’indiana’ e che era, ed è, la mia preferita quando riesco a stare seduta per più di dieci minuti) e, recitando un mantra (che immaginavo fosse tipo un rosario), si era fatto cospargere di benzina da un confratello e si era dato fuoco. Mi piaceva leggere che mentre le fiamme divampavano, il monaco continuava a recitare il suo mantra e che, al tramonto, si diceva che gli abitanti di Saigon videro in cielo l’immagine del Buddha, piangente.
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
* citazione da Róbert Hász.
venerdì, 29 luglio 2022
In copertina: Foto di Mabel Amber, who will one day da Pixabay.