Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
Oggi anno, a settembre, si rinnovava il rito laico del mio compleanno. Voi direte: come per tutti. E invece no, perché per gli altri poteva anche essere un po’ diverso, ogni anno, con una torta non sempre quella, con qualche nuovo amico e perfino quel regalo che aspettavi e che finalmente arrivava…
La mattina iniziava sempre con la doccia con i famosi dieci litri d’acqua che permetteva lo scaldabagno elettrico – che si accendeva solo per l’occasione, ossia la doccia settimanale e quella per il mio compleanno, che coincidevano per forza il sabato. La doccia era un getto ustionante che usciva da tanti forellini di cui molti pieni di calcare e che spruzzavano dappertutto tranne su dove c’era ancora il sapone o lo shampoo – applicato sui capelli asciutti e che mi colava negli occhi facendomeli bruciare. Tutta la faccenda durava meno di dieci minuti ma, non avendo nemmeno una tenda di plastica ma solo un buco nel pavimento (un po’ come avrei scoperto essere usuale in quel della Thailandia), era l’intero bagno a giovarsi della doccia più del mio corpicino. Finiva sempre che barbellavo dal freddo e mia nonna, memore della figlia morta per un bagnetto improvvido, se la prendeva con le idee balzane di pulizia di mia madre e mi avvolgeva negli asciugamani ancora mezza unta di Felce Azzurra o Pino Silvestre. Poi iniziava la tortura dello spazzolino, il controllo delle orecchie (compresi dentro e dietro) e delle unghie, che finivano sempre tagliate talmente corte che sembrava me le rosicchiassi ma che era più facile ridurre ai minimi termini che pulire. I capelli raramente avevano una lunghezza da spazzola ma la nonna sembrava ci provasse gusto a tirarmeli da tutte le parti benché la differenza, alla fine, fosse pressoché inavvertibile. E finalmente ecco il vestito della festa: ogni anno devo ammettere che almeno quello cambiava. Ne ricordo uno blu col corpino arricciato che mi piaceva tanto e un altro marrone – colore che adorava mia madre, io meno, ma aveva le maniche a pouf (come si diceva allora, o più propriamente stile Impero). Le calze erano sempre di cotone traforato bianco e al ginocchio, per il compleanno, e i buchetti mi davano il prurito (i collant di nylon o lana, dai colori sgargianti, che vedevo alle mie compagne di classe erano solo un sogno e lo sarebbero rimasti fino alla fine della prima superiore). Anche le scarpe erano sempre belle, a ballerina di vernice nera con il laccetto: le adoravo, ma potevo usarle solo quel giorno per non ‘sciuparle’ (allora tutto si ‘sciupava’ se veniva usato e così invecchiava nell’armadio e diventava troppo piccolo e finiva per essere regalato a mia cugina praticamente nuovo).
Anche i nonni si mettevano in tiro quel giorno perché ci sarebbero state le foto di rito. Il nonno, a dire il vero, era sempre elegante quando usciva, col garofano rosso all’occhiello, la giacca anche in estate e la piega ai pantaloni. Ma persino la nonna andava a farsi la permanente dal parrucchiere il giorno prima, sfoderava gli occhiali buoni a goccia, di corno, e metteva perfino le scarpe chiuse con la fibbia argentata che la facevano tanto Re Sole anche se lei non sapeva chi era. Poi salivamo sulla Cinquecento lavata per l’occasione e andavamo fino a casa di mia madre: 110 metri quadrati con box e cantina proprio sopra la fermata della metropolitana. Un lusso: la soddisfazione della nonna di aver ‘sistemato’ le figlie. Strano aggettivo ‘sistemato’ – si sistemano i fiori nei vasi, i vasi a centro tavola, i mobili in un soggiorno, i conti prima di morire e le figlie con i buoni partiti.
Ogni volta che entravo in quella casa mi assaliva l’odore del pulito. In via degli Apuli manco quando lavavi tutti i pavimenti e poi passavi la lucidatrice riuscivi a sentirlo. Solo una volta ogni due settimane provavo quasi la medesima sensazione, quando tornavamo dalla lavanderia a gettoni e stendevamo la biancheria su tutti i caloriferi della casa perché sulle corde, appese alla ringhiera del balcone, ci stavano appena le lenzuola, le camicie del nonno e le vestagliette della nonna. E così l’intera casa sapeva di bucato. Poi, quando mia madre ci permetteva di entrare accogliendoci come ospiti (cosa che, effettivamente, eravamo), io dovevo subito correre in bagno a vedere le piastrelle e il bidet. Le piastrelle avevano qualcosa di inquietante: erano lucide e nere e arrivavano fino al soffitto e quando ti sedevi sul water ti ci potevi specchiare dentro. Per terra la moquette era rosso fiammante e, al centro del bagno, tra una vasca che mi sembrava quella di Poppea e il water con la tavoletta di ceramica (una vera sciccheria per me abituata alla plastica che si crepava dopo pochi giorni dall’acquisto e, poi, per mesi rischiavi di pizzicartici le gambe) c’era il bidet. Oggetto delle meraviglie, mai usato (non capivo bene a cosa servisse… anche perché i lavapiedi, al mare, erano raso terra) e che, viaggiando, mi sarei accorta essere un accessorio ben poco frequentato, come in via degli Apuli, anche fuori dall’Italia.
Uscivo dal bagno solo perché dopo un po’ arrivavano gli altri ospiti e ne avevano bisogno – loro per davvero. Salutavo il bidet come un vecchio amico che non avrei più rivisto per un intero anno. E passavo in sala da pranzo. Ricordo le pareti rosso mattone (quella casa aveva i colori di un bordello ma io, allora, non sapevo che cosa fosse un bordello e trovavo quelle pareti solo un po’ opprimenti), la pesante credenza di legno scuro con i vetri smerigliati, le sedie con gli schienali alti di pelle fissata da borchie come se fossero tanti troni disposti intorno a una lunga tavola rettangolare, invece che rotonda. Al centro, come tutti gli anni, la Saint Honoré che non piaceva a nessuno – nemmeno a mia madre che la trovava troppo inzuppata di liquori per un’astemia, eppure la ordinava, anno dopo anno, imperterrita, manco gliel’avesse imposto la mia pediatra… E poi il cabaret di pasticcini, dove latitavano quelli al cioccolato che mi piacevano tanto perché il «cioccolato fa male» ripeteva la signora del maniero, mentre abbondavano i cannoncini, che detestavo ma erano i preferiti di mia cugina (che, infatti, se li spazzolava tutti, lasciandone giusto un paio ai nonni). Mi chiedevo a cosa servisse quell’enorme sala da pranzo a mia madre, dato che l’apriva solo una volta l’anno per il mio compleanno. Potevamo anche farlo più alla buona dai nonni e non sarebbe cambiato nulla… Ma forse le serviva per celebrare la sua maternità più che il mio compleanno.
Le foto si facevano sull’ampia balconata con il sole dritto negli occhi perché il fotografo doveva averlo alle spalle e così io li stropicciavo e mia madre aveva da ridire che non tenevo gli occhi bene aperti e facevo troppe smorfie. Meglio quando si rientrava in salotto e il nonno poteva godersi la poltrona di ‘vera’ pelle (che mi faceva sempre pensare che mia madre era andata a caccia e aveva scuoiato l’animale di persona, con le sue belle unghie laccate di rosso). Non osavo nemmeno mettermi sulle ginocchia del nonno in quell’occasione perché capivo che per lui era davvero un piacere, che a casa nostra non esisteva. Al Giambellino solo sedie di legno.
Col trascorrere del pomeriggio, i grandi intorno a me prendevano a chiacchierare delle solite cose – di politica, di calcio (in tempi in cui l’unica partita trasmessa era un tempo di una partita di serie A o B la domenica sera) e di lavoro. Io girovagavo senza meta in quella casa che non era mia sapendo già come sarebbe finita: prima di sera il nonno comunista e i generi e il figlio qualunquisti avrebbero iniziato a litigare (questo, di solito, tra il secondo e il terzo bicchiere di spumante dolciastro) e la nonna si sarebbe alzata e avrebbe detto che era tardi, che il viaggio era lungo (meno di due chilometri per l’esattezza) e che il nonno non ci vedeva più come una volta ed era meglio rientrare con la luce. Anche mia madre, che mi vedeva ciondolare annoiata, tirava fuori sempre la stessa frase: «Perché non vai in giardino a giocare con gli altri bambini?» e poi aggiungeva, preoccupata che lo facessi davvero: «Ma non sporcarti e non sudare». Ecco perché non lo facevo, perché non avrei potuto giocare senza sudare e poi i bambini di quel complesso di lusso in klinker mi erano estranei e mi risultavano incomprensibili, come probabilmente risultavo io estranea e incomprensibile a loro, che vivevano in quelle belle case coi loro genitori. Ma io, i miei amici del cortile, non potevo invitarli e così ero sola, spersa e pure imbronciata.
Alla fine si arrivava all’apertura dei regali sempre un po’ di corsa, con la nonna che continuava a guardare il suo orologino d’oro come se il tempo quel giorno scappasse e io che aprivo tutto alla rinfusa perché sentivo che anche il nonno cominciava a friggere in quella situazione e preferiva la sua sedia di legno alla poltrona di ‘vera’ pelle. Quasi mai quello che trovavo era quello che avevo chiesto e me lo si leggeva in faccia. Così mia madre mi metteva il broncio perché non ero gentile e «a caval donato non si guarda in bocca» e «l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re». Insomma, lei aveva sempre la massima giusta per farmi sentire sbagliata. Anche quando ricevevo i pattini a rotelle invece dell’iscrizione al corso di pattinaggio su ghiaccio, o la bici da adulti a soli sei anni (che poi avrebbe usato, non a caso, suo marito) o, peggio, uno spelacchiato leone di pannolenci quando volevo un morbido peluche della Trudi – e però, quella volta, persino la mamma ci rimase male e, qualche tempo dopo, me lo regalò lei il mio leoncino di peluche e me lo portò tutto bello infiocchettato in via degli Apuli.
Qualche giorno dopo, nonostante fosse sera e avesse raffrescato, sembrò che l’afa fosse tornata a toglierci l’aria: Papa Luciani era morto.
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 22 luglio 2022
In copertina: Foto di Silvia Rao da Pixabay.