Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
Quel 26 agosto la giornata iniziò proprio storta per il nonno e, quando era storta per lui, lo era anche per me. La sua Cinquecento bianca con il tettuccio apribile (che d’estate, se aprivi, il sole ti bruciava la testa e, d’inverno, anche se non aprivi, finiva sempre che la mia testa subiva la tortura della goccia) era stata rubata. Ma da chi? Il nonno l’aveva comprata andando in pensione, quasi dieci anni prima. Sembrava l’auto di Gianna in Profondo Rosso per quanto era conciata… e poi anche il nonno non è che la usasse un granché: giusto quando si andava da qualche parte per una gita. Della serie… le due volte all’anno che si arrivava fino in Bovisa a trovare la sorella del nonno o quando si andava addirittura fino a Cinisello – per quel suo fratello di latte e la prozia che veniva dalla Colombia. Le nostre gite…
Mentre il nonno risaliva in casa rimuginando sul da farsi, in cortile si era formato il solito gruppazzo agostano: anche un furto poteva essere un evento. Così radunai i ‘magnifici quattro’ e insieme decidemmo una sortita: saremmo usciti dal cortile appena qualcuno avesse lasciato il portone aperto e, fino a mezzogiorno, in quelle due ore in cui non ci avrebbe cercato nessuno, avremmo perlustrato il quartiere. G, la più piccola del gruppo, con S., il maschio. Io e O. insieme.
«Prima dobbiamo decidere se andare verso largo dei Gelsomini o verso piazza Tirana», fa S. con il piglio del capo-branco. Bella domanda, dovevo ammettere. «Andiamo dove ci sono più tossici», risponde O. Aveva ragione: sembrava il furto per qualche ora di sonno al coperto. «Partiamo da Gelsomini. Voi seguite via Giambellino e noi prendiamo per il mercato rionale e seguiamo la tranvia, ci ritroviamo ai giardinetti», decisi ristabilendo la linea di comando. Ma come uscire? Ci piazzammo intorno al cancello con ‘nonchalance’ – come avevo visto fare in un film con Jean Gabin. La porta si apriva solo con le chiavi, il pulsante per l’apertura dall’interno si era rotto mesi prima e nessuno pensava di farlo riparare – né le Case popolari, che sembrava sempre avessero di meglio a cui pensare, né gli inquilini, che ormai ci ripetevano che era meglio se noi bambini restavamo chiusi dentro. Dopo una mezz’ora arrivò una signora più larga che alta, dell’ultima scala, come sempre carica di sacchetti dell’Esselunga (pensare che in quella casa vivevano solo lei e il marito ma compravano roba per un intero esercito, dandosi pure il cambio due volte al giorno a fare la spesa). S. si dimostrò un vero cavaliere, tenendole il cancello aperto per farla entrare. Lei lo guardò di sottecchi: era la prima volta che lo faceva in tanti anni, ma non dubitò secondi fini. I bambini non possono avere secondi fini… Lo ringraziò e se ne andò verso la sua scala, guardando indietro verso di noi, con un’occhiata sfuggente, solo una volta prima di entrare nel portone: ma noi fingevamo di confabulare e io avevo già piazzato una carta straccia nel cancello per non farlo chiudere (sempre alla Gabin). Quando scomparve alla nostra vista, ci mettemmo in azione.
Io e O. ci avventurammo verso la biblioteca Lorenteggio, una specie di prefabbricato che sapeva di vecchio e di marcio anche solo a guardarlo da lontano, ma per arrivarci dovevamo evitare di passare di fronte al Bar Jolly di via degli Apuli 2. Fu tutta una chicane: prima attraversammo verso via degli Apuli 5 e io sbircia oltre le sbarre del cancello sperando di intravedere W. Poi svoltammo a destra in via Odazio, attraversammo la strada e proseguimmo a sinistra, così che gli avventori del Bar Jolly rimasero sull’altro lato della via: se il nonno avesse saputo che ero rimasta su quel lato del marciapiede, non l’avrebbe presa bene e non mi avrebbe portata ai giardini di piazza Frattini per almeno una settimana. Oltrepassammo anche la biblioteca, sulla nostra destra, e arrivammo al mercato rionale: lì c’erano più entrate ed era facile perdersi, come sapevo fin da piccola (ma quella era un’altra storia). O. mi prese per un braccio: «Inutile entrare nel mercato, tanto l’auto mica può stare parcheggiata lì! Seguiamo i binari del tram, così vediamo da una parte e dall’altra di via Lorenteggio». L’idea mi sembrò ottima e così risalimmo lentamente verso largo dei Gelsomini guardando a destra e a sinistra. Ci sembrò un viaggio a me e a O.: camminavamo spalla a spalla – lei era solo leggermente più bassa di me perché aveva un anno di meno ma era molto carina, quando non era sporca o torva. Quella mattina sembrava respirare meglio, la sua leggera asma l’affliggeva sempre ma c’era qualcosa di frizzante nell’aria, come un’attesa di piogge future. Il suo patrigno era scomparso, non ne parlavamo ma pensavo che ne era felice, o almeno sollevata. Io mi sentivo molto grande a guidare quella spedizione e responsabile per lei, che era più piccola. Sentivo che cominciava a rinfrescare, presto l’afa avrebbe allentato la morsa ma questo significava anche altre cose: sarebbe tornata B. e con lei sapevo già che quella banda dei quattro sarebbe esplosa. Lo strano idillio che si era creato quell’estate si sarebbe frantumato e poi, con le piogge autunnali e la scuola, ci saremmo persi per sempre.
La nostra caccia, fino ad allora, aveva dato esito negativo. Immaginai per un momento quanto sarebbe stato figo se avessimo avuto dei walkie-tolkie per comunicare con gli altri, come nei film di guerra. In fondo a largo dei Gelsomini voltammo a destra per risalire via Giambellino. Ma gli altri dov’erano finiti? Pensai che si fossero infrattati nei giardinetti ma anche che non era una buona idea pure se, a quell’ora, i tossici non erano ancora attivi. «Eccoci!», urlò G. alla mia destra. La vidi che correva verso di me con quel suo passo strano: due saltelli a destra e uno a sinistra – doveva averlo visto in qualche film. Mi voltai a sinistra per valutare se proseguire almeno fino alle vie dei fiori ma, proprio mentre giravo la testa, ebbi un coccolone: era lì, a meno di cinquanta metri da me, parcheggiata e apparentemente intatta (a parte la ruggine e le ammaccature che c’erano già prima per essere esatti). Non potevo credere ai miei occhi! Ce l’avevo fatta. Ma adesso chi glielo diceva al nonno che avevo ritrovato la macchina andando in giro da sola? E se parlavo degli altri tre, i loro genitori non li avrebbero menati perché eravamo usciti dal cortile? No, una cosa la sapevo per certa del nonno: non avrebbe mai fatto la spia!
«Eccola lì!», gridai indicandola. G., che nel frattempo mi si era messa accanto e mi guardava, probabilmente chiedendosi perché restavo imbambolata e non davo ordini per proseguire, ci rimase un po’ male: l’avventura era già finita. Anche S. arrivò, con passo strascicato e si sentì in dovere di aggiungere qualcosa da maschio: «Adesso ci guardo dentro e vedo se è tutto a posto». Stavo per rispondergli che era chiusa e non avevo le chiavi ma poi capii che, per fortuna, la mia lingua quella volta non era stata più veloce del cervello. Se l’avevano rubata dovevano pure averla aperta in qualche modo e certamente non l’avevano richiusa, così deviai in corner: «Sta’ attento, magari c’è ancora qualcuno che dorme dentro». S. mi prese sul serio e si irrigidì. Pian piano ci avvicinammo un po’ tutti ma con fare guardingo, sbirciammo dal lunotto ma nessuno stava sdraiato in quel bugigattolo. Così andai dalla parte del guidatore, anche se dava verso la strada e sapevo che il nonno non voleva. Abbassai la maniglia della portiera e mi ritrovai davanti a una scena strana: le uova che la vecchia delle case minime, con il giardinetto pieno di galline, aveva dato al nonno il giorno prima erano tutte sparpagliate sul sedile del passeggero. Mi avvicinai per guardare meglio. Avevano un piccolo foro nel guscio, come se qualcuno le avesse bucate a una a una con una siringa e se le fosse bevute così. Crude. Il sedile del conducente era reclinato. Mi immaginai che dopo quella lauta cena, il tossico si fosse fatto e sistemato ben bene per la notte: doveva essersi fatto una bel viaggio perché, a pancia piena, si dorme meglio.
A quel punto occorreva dividersi: S. e G. sarebbero rimasti di guardia – la più piccola con il maschio – e io sarei tornata a casa con O. per avvertire il nonno. S. approvò con un cenno affermativo della testa. Si sentiva preso dal ruolo del generale che difende il fortino dagli apache (quando giocavamo a indiani e cowboy, lui era sempre dalla parte dei cowboy perché gli stavano pure antipatici ma vincevano sempre).
Stranamente, al mio arrivo a casa, il nonno non s’inquietò. Mi lasciò raccontare la nostra avventura con tutta calma e poi prese la giacca che aveva appena finito di stirare e ci seguì accarezzandoci la testa, a me e a O., come se avessimo fatto una cosa buona e giusta.
Quella sera arrivò anche la fumata bianca: Albino Luciani era diventato papa. Pertini e Giovanni Paolo I: il nonno era felice. Un papa povero e un presidente che aveva lottato nella Resistenza. Quando scoppiò il temporale respirammo tutti a pieni polmoni, quella sera, fuori dalla finestra del soggiorno/forno. Ma forse non fu perché avevamo salutato definitivamente l’afa.
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 15 luglio 2022
In copertina: Foto di Luigi Crosti da Pixabay.