Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
Giornata lunga quel 9 maggio. Avevamo un doposcuola per recuperare qualche materia in cui eravamo rimasti indietro. Vero che la storia, alle elementari, in quegli anni finiva con la Seconda guerra mondiale e la letteratura – che poi si riduceva a imparare a memoria poesie chilometriche e incomprensibili – non andava oltre alla triade Carducci, Pascoli e Ungaretti… eppure riuscivamo sempre a rimanere indietro e, a maggio, quando le giornate si facevano deliziosamente tiepide e avremmo tutti voluto essere all’aperto per correre in bicicletta o giocare in cortile, ecco che ci toccava rientrare a scuola al pomeriggio per qualche tormentosa ora di inedia e nozionismo.
Vagavo nel corridoio di ritorno dal bagno, come sempre facendo il giro più lungo. Mi fermai di fronte a un finestrone con un vetro scheggiato: dal giardino arrivava il profumo di un piccolo roseto che resisteva all’incuria della bidella. Vidi il prato punteggiato di trifoglio e mi ricordai di quando la migliore (e forse l’unica) amica della mia infanzia e io ci sedevamo sotto quell’enorme tiglio e ci dedicavamo a succhiare, per passatempo, i fiori di trifoglio a uno a uno. Il dolce nettare si mescolava alla gioia di condividere un piacere segreto di cui ci sembrava fossimo le uniche detentrici. Era stato lì, sotto quel tiglio, che L. mi regalò una perlina del suo braccialetto perché qualcosa ci unisse per sempre. Ma io, quella perlina, me la sono persa, nei traslochi, nel continuo rimestarsi di un’esistenza girovaga in cerca di me stessa. E però quel giorno mi sembrò che L. fosse di nuovo lì e mi invitasse a raggiungerla. Ma io non potevo più raggiungerla.
I suoi genitori erano morti in un incidente automobilistico due anni prima, di schianto, in una di quelle code agostane che allora erano le fughe dei migranti benestanti. Lei fu sbalzata dalla macchina ma si salvò. Si ruppe qualcosa – un braccio o una gamba – e io non rividi più quel suo naso punteggiato di lentiggini, il sorriso sempre a portata di mano, quei riccioli rossi scomposti che nessun pettine riusciva a domare. Fu mia madre a comunicarmelo – senza troppo garbo – ma come al solito evitando la tragedia per ipocrisia. Al contrario mi disse, con la sua affettazione da impiegata di concetto che ha visto troppi sceneggiati in tivù, che dovevo essere ‘felice’ per lei e per suo fratello perché erano stati divisi tra due coppie di zii: quelli che avevano la femmina si erano aggiudicati il maschio e quelli col maschio si erano scippati la femmina «Pensa… hanno fatto la coppietta!». Come se stesse parlando di una coppietta di fidanzatini… Ricordo che guardai mia madre come si osserva una noce che, dopo aver perso tempo a tentare di schiacciarla con qualsiasi strumento ci è capitato in mano, ci mostra un contenuto rachitico e marcio. Come poteva immaginarsi che due bambini che avevano appena perso i genitori, due genitori veri, di quelli che giocano con te e con i quali fai i compiti e vai al parco e vengono a scuola a parlare con la maestra e ti applaudono al saggio di fine anno e ti insegnano ad andare in bicicletta, insomma come poteva pensare che due, ai quali avevano tolto il mondo come lo conoscevano e ogni certezza, fossero felici di aver ricomposto la coppietta perfetta con un o una cugina e due zii, che erano poco più che estranei? Ma lei pensava ai costi: ammortizzare una bocca in più era generoso. Due sarebbe stato impossibile?
Al terzo richiamo capii che non era L., la sirena che mi invitava a raggiungerla, ma la bidella che mi aveva beccata a ciondolare, oziosa, in corridoio in orario di lezione – anzi, peggio: di recupero. Così dovetti seguirla in presidenza e già mi attendevo una ramanzina da quella signora sull’isterico andante, tutta nervi, tinte improbabili e tailleur ‘classici’ (come li definiva mia madre, quegli orrori fuori moda e fuori tempo massimo), che – quando entrava in classe – eravamo obbligati a salutare mettendoci sull’attenti. E per fortuna, che se n’era andato il vecchio preside in doppiopetto, che accennava un aborto di saluto fascista e poi nascondeva la mano.
La trovai strana, però, quella volta. Il phon doveva essersi rotto a metà della messimpiega perché alcuni ciuffi, al centro della testa, le erano rimasti in piedi, come capitava alla nonna quando si alzava dal letto il pomeriggio e si dimenticava di pettinarsi almeno un po’. Mi disse che dovevo entrare in tutte le aule di quel piano e comunicare lo stesso messaggio a tutte le maestre: «Dovete raccogliere i bambini e portarli in cortile» (pensai fosse un sogno) e poi, aggiunse fingendo un eccessivo turbamento: «Aldo Moro è morto». Ecco che tornava quel nome che aveva causato un’intera notte di insonnia al nonno – e a me, che lo sentivo girarsi e rigirarsi come quando aveva il mal di denti. Pensai che la notizia lo avrebbe di nuovo agitato, ma poi tornai al presente: mi sentivo tutta compresa dal mio ruolo! Avrei recitato la parte della primadonna per ben cinque palchi/aule. Così accennai di sì col capo e uscii in tutta fretta, prima che la preside decidesse di farmi accompagnare dalla bidella che, ero certa, mi avrebbe rovinato lo spettacolo e si sarebbe rubata la scena.
Entrai nella quarta A, e pronunciai la prima parte del discorso. Ovviamente la maestra mi guardò come se fossi impazzita: chi ero io per dirle cosa doveva fare degli alunni? Non appartenevo nemmeno a quell’aula! I suoi alunni, però, mi fissarono come se fossi una dea. Mi crogiolai qualche istante assaporando quella sensazione di potere che si prova a essere venerati, calibrando bene i tempi, e finalmente spiegai: «Aldo Moro è morto». Uscii senza applausi. A mano a mano che procedevo, il corridoio si andava riempiendo. Il vocìo arrivava fin nelle aule e le mie battute non sortivano più lo stesso effetto. L’ultima classe fu la mia e per allora mi ero già stancata delle repliche… Quando arrivammo in cortile noi alunni ci sparpagliammo in ogni dove mentre le maestre si riunirono in un angolo, quasi volessero proteggersi da un pericolo che noi non avvertivamo – qualcuna si mise perfino a fumare nervosamente e la preside, di solito rigida sul fumo, si fece passare una sigaretta e cominciò anche lei a tirare profonde boccate di nicotina e catrame.
Quando arrivai a casa fu sorprendente. Nonno e nonna non parlavano di quel Moro ma di un certo Peppino Impastato. Dall’agitazione di entrambi pensai fosse un parente loro, un nipote… Quelli rimasti al sud si erano quasi tutti trasferiti in Puglia o in Sicilia. In Calabria non c’era proprio lavoro – almeno, non ce n’era se non volevi dover restituire favori o svenderti il voto o se non riuscivi a entrare alle poste – ma lì, il giochetto era venire al nord, mi aveva spiegato lo zio: fare il trimestrale e poi, appena assunto, fare richiesta di trasferimento. Anche nella scuola funzionava così. Quante maestre andavano e venivano: io ne avevo già cambiate quattro. Una aveva persino preferito l’Africa a noi: era andata a fare la missionaria, anche se non era una suora… ma per come si vestiva con quelle palandrane larghe e nere e per come ci imponeva la preghiera ogni mattina prima di iniziare la lezione, avrebbero potuto esserlo, eccome!
Nonno era proprio inverso quel giorno. Lo zio qualunquista tentò di riportare il discorso su Moro, quella sera a tavola, e il nonno prese un piatto che volò dritto dritto fuori dalla finestra del soggiorno, lasciata mezza aperta perché faceva già abbastanza caldo in quella stanza/forno (la finestra della tendina zoppa, per la precisione). Corsi a guardare dove atterrava il piatto: sul marciapiede di schianto. Nonno non colpì mai nessuno in testa: un vero miracolo (nemmeno il cane della signora M., che la sera usciva sempre da solo per il giretto piscio). Il piatto fu il punto definitivo della questione: nonna approvava in silenzio. Fu l’unica volta, forse, che la vidi prendere le parti del nonno contro suo figlio: avevano ammazzato un bravo compagno perché lottava contro la mafia. Non c’era futuro per il nostro meridione. Nessuna speranza.
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 24 giugno 2022
In copertina: Foto di Pezibear da Pixabay.