Dal Recovery Fund a oggi: cosa è cambiato e perché i conti non tornano
di Simona Maria Frigerio
In questi mesi in molti hanno scritto e parlato di Recovery Fund come di una manna che l’Europa avrebbe fatto cadere dal cielo sui popoli degli Stati che la compongono. Molti colleghi della stampa continuano a parlarne, ormai a sproposito, dato che nel frattempo lo stesso non solamente ha cambiato nome ma altresì contenuto.
In primis, i fondi saranno concessi in cambio di interventi mirati in alcuni settori, quali il cosiddetto green e la digitalizzazione – ma siamo certi che siano quelli che interessano veramente le nostre aziende? I problemi della PA (comprese scuola/università, ricerca e giustizia) italiana dipendono da una carenza nella digitalizzazione o sono altri? L’ecobonus del 110% sarà un volano green o l’ennesimo regalo (cavilloso e burocratico) a imprese edificatrici e proprietari privati, mentre converrebbe investire i fondi in impianti fotovoltaici installati e gestiti dai Comuni, nel dissesto idrogeologico, in mezzi pubblici a emissioni zero? Qualcuno si è domandato se abbiamo imprese che produrranno ciò che ci serve o se finiremo per finanziare quelle di altri Stati? Ma soprattutto, se la nostra economia deve rinascere, quali sono i settori sui quali dovremmo puntare? Il turismo, la cultura, la sanità, la ricerca, i beni di lusso, l’agroalimentare e così via saranno correttamente finanziati o finiremo per spendere tutto, ad esempio, nei Maglev (i treni a levitazione magnetica) di produzione tedesca?
Fare chiarezza è necessario perché se in tivù e sui giornali preferiscono perdere tempo con ipotetiche crisi di Governo (quando non dovrebbe contare chi governa ma come lo fa, ossia su quali programmi e con quali obiettivi), la crisi economica è un dato di fatto così come il debito pubblico che, acceso direttamente sul mercato con l’emissione di titoli di Stato o attraverso l’Unione Europea, dovrà in ogni caso essere restituito beffardamente – e con tanto di interessi – soprattutto dalla ‘next generation’ (ossia tra il 2028 e il 2058).
Ordini di grandezza
Quando si parla di miliardi è facile fraintendere. Occorrerebbe, quindi, dare alcune coordinate al lettore (e al cittadino) perché si orienti meglio. Secondo Il Sole24Ore e altre fonti autorevoli il debito pubblico italiano durante il 2020 dovrebbe toccare un nuovo picco, con un aumento di circa 190 miliardi. Sempre secondo il succitato quotidiano economico la Legge di bilancio 2020 (ossia le previsioni sulle spese pubbliche e le entrate per l’anno successivo) dovrebbe essere una manovra da 38 miliardi. Un’ultima cifra da tenere in considerazione è quella del do ut des Italia/Europa. Secondo i dati forniti da www.Money.it, ad esempio, nel 2017 il nostro Paese avrebbe versato all’Unione Europea 12,250 miliardi di Euro, ricevendo in cambio 9,795 miliardi – con un saldo, quindi, negativo pari a 2,455 miliardi. E questa maggior contribuzione dell’Italia verso l’Europa sembrerebbe essere stata un trend costante negli anni.
Cerchiamo di capire cos’è il Next Generation EU e cosa non è
Innanzi tutto, dei complessivi 205 miliardi (ammettiamo di essere incerti sulla precisione al miliardo della cifra, dato che il calcolo dipende da una serie di parametri legati anche al Pil, al tasso di disoccupazione, eccetera), 78 sarebbero sovvenzioni mentre 127 prestiti.
Se, quindi, su 3/5 dell’intero ammontare dovremo far fronte a livello di capitale e interessi, gli altri 78 (più o meno il valore di due manovre finanziarie o 1/3 del debito pubblico contratto quest’anno) saranno davvero a fondo perduto come da litania politica?
Non proprio. La Commissione Europea, infatti, si indebiterà sui mercati finanziari per reperire i fondi promessi ai vari Paesi e, per restituire tale debito ai finanziatori privati, “gli Stati membri potrebbero”, come specifica SkyTg24, scegliere tra: “pagare secondo le quote che già versano al bilancio europeo; altrimenti potrebbero essere introdotte nuove imposte europee pagate da contribuenti e imprese (come quella sulla plastica che entrerà in funzione da gennaio)”; e più oltre: “l’Italia sulla parte di sussidi (ossia su 78 miliardi, n.d.g.) dovrebbe restituire circa 50 miliardi di Euro”. Do ut des, ancora una volta. Oppure – in parole povere – l’Europa con una mano dà ai Paesi in difficoltà e con l’altra riprende (per restituire ai finanziatori del debito pubblico acceso a livello europeo).
Sugli altri 1050 miliardi (dato che i quotidiani sparano la cifra di 1800 miliardi, come se la Banca Europea si mettesse a fabbricarli in proprio per regalarceli) facciamo altrettanta chiarezza. Questa cifra è costituita dal budget europeo 2021/2027 e sarà composta dai dazi, da una percentuale sull’Iva, dal prelievo sul reddito nazionale lordo dei vari Stati, e da altre entrate (quindi, dalle nostre tasse). Ogni Paese verserà una quota, compresa l’Italia, e l’Europa investirà i fondi dei Paesi membri secondo direttive prestabilite che, ancora una volta, non è detto coincidano con i bisogni del singolo Paese.
La passione per gli acronimi
In attesa che l’Italia presenti il Pnrr – ossia il Piano nazionale di ripresa e resilienza – definitivo, che dovrà essere approvato in Europa prima che il nostro Paese ottenga anche un solo Euro di finanziamento, soffermiamoci su due punti.
Il Consiglio Europeo ha finalmente sbloccato il Next Generation EU e gli altri fondi destinati a sostenere i Paesi in crisi a causa della pandemia. Dato che detti fondi andranno a impattare sul debito e sui bilanci dell’intera Unione Europea per i prossimi anni, il loro stanziamento è stato subordinato all’approvazione del Quadro finanziario pluriennale di riferimento, bloccato dal veto di Ungheria e Polonia, contrari alle limitazioni che sarebbero imposte ai Paesi che presentassero “carenze sul fronte dello stato di diritto”. L’impasse è stata superata garantendo che gli Stati ricevano i fondi, indipendentemente dal loro modo di agire, fino a un’eventuale sentenza di condanna da parte della Corte di Giustizia Europea. No comment. Dato che era necessario il voto a maggioranza assoluta, due soli Paesi hanno messo in scacco l’intero, farraginoso sistema europeo e dimostrato, per l’ennesima volta, che una cosa sono le affermazioni di diritto e un’altra la loro applicazione.
La seconda pulce nell’orecchio del lettore sarebbe un semplice confronto tra cifre necessarie e cifre promesse. A Federalberghi, la quale annuncia che il fatturato del comparto ricettivo subirà una perdita di 14 miliardi di Euro (-57%) nel 2020 – come da Report del 21 ottobre, reperibile anche in rete, e tenendo presente che tale comparto è ovviamente solo una componente dell’intero settore turistico (che interessa anche trasporti, agenzie viaggio, ristorazione, commercio, impianti sciistici o balneari, eccetera); e a Federcultura, che annuncia una perdita di 3 miliardi, l’ex Recovery Fund cosa promette? All’intero settore turismo e cultura dovrebbero andare 3 miliardi. Una miseria. Soprattutto se si pensa che il Pnrr non dovrebbe tappare buchi (ormai voragini) bensì servire da volano per il rilancio dei vari settori, permettere il loro eventuale svecchiamento, e favorirne la conseguente ‘inevitabile’ crescita.
E c’era chi credeva che avremmo migliorato almeno la Sanità…
Se avessimo avuto un piano pandemico adeguato (Report docet), letti in ospedale e in terapia intensiva sufficienti, servizi territoriali e di assistenza anche telematica, non solamente avremmo avuto un tasso di mortalità più vicino a quello tedesco, russo o sudcoreano (forse), ma non avremmo creato l’enorme bolla di debito pubblico e potenziali fallimenti/disoccupazioni che sta per scoppiarci in faccia (con conseguente minore gettito fiscale).
Abbiamo imparato dagli errori? Non sembrerebbe.
Nel roboante Piano nazionale di ripresa e resilienza (il succitato Pnrr) si legge che solamente 9 miliardi saranno destinati alla Sanità. Vi sembrano tanti? Nel 2019 la spesa sanitaria era di 114,5 miliardi annui, ossia il 6,6% del Pil; mentre tra il 2010 e il 2019 si sono operati ben 37 miliardi di tagli nel settore. A queste cifre ne aggiungiamo un’altra, desunta da vari articoli, ossia che l’Italia ha opzionato (ossia, non è detto che le compreremo tutte) oltre 200 milioni di dosi di vaccino anti-Covid, che attualmente si aggira a un costo – per dose – dai 3 ai 30 Euro (a seconda della Casa farmaceutica), per un esborso complessivo ipotetico dai 600 milioni ai 6 miliardi di Euro. Fate due conti e rispondete voi stessi alla domanda posta in apertura.
Da IlSole24Ore apprendiamo anche un’ultima ora davvero allarmante circa la succitata Legge di Bilancio 2020: “Dall’anno 2023 per effetto dei processi connessi alla riorganizzazione dei servizi sanitari anche attraverso il potenziamento dei processi di digitalizzazione, si prevede una minore spesa di 300 milioni di euro annui, con conseguente riduzione del livello del finanziamento” della Sanità. Probabilmente, scambiando l’assistenza telematica (che, al massimo, può far pervenire il dato della temperatura corporea o dell’ossigenazione del sangue a un infermiere o a un paramedico) con l’assistenza medica (e del resto, in questo periodo, quanti medici generici ‘visitano’ per telefono? Non a caso, i pronto soccorso sono assediati da pazienti paucisintomatici o lievemente sintomatici), c’è chi si immagina già un futuro in cui fruiremo tutti di medici e chirurghi online che ci visiteranno e opereranno via Zoom…
Venerdì, 11 dicembre 2020
In copertina: Foto di Nattanan Kanchanaprat da Pixabay.