Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
A febbraio dell’anno precedente era stato arrestato il bel René e, ad aprile, ‘Francis’ Turatello. La vecchia mala milanese veniva spazzata via con un colpo di spugna e si apriva la strada alla camorra e ai fiumi di eroina che invadevano le strade, trasformando le utopie di una generazione di rivoluzionari in un lungo sonno della ragione.
Il giornale che leggeva il nonno, l’unico che sapevo esistere, si scandalizzava dell’appoggio popolare che riscuoteva Vallanzasca. Naturale per quei signori giornalisti col doppiopetto e la messimpiega alla Volonté di Sbatti il mostro in prima pagina. Al Giambellino loro non c’erano mai stati – o magari sì, in qualche bisca per giocare o rimorchiare le prostitute di Turatello. Noi che ci vivevamo, non sapevamo nemmeno cosa fosse un conto in banca! Al massimo il libretto postale… su cui la nonna metteva le vincite al Lotto per pagarsi il funerale. Una volta fece un ambo secco con quei due numeri che giocava da anni e si mise finalmente il cuore in pace, ma si fosse messa via tutte le giocate avrebbe avuto il cocchio e sei cavalli pure col pennacchio, come la sua bambina morta a 40 giorni.
Il bel René rubava i soldi ai ricchi e poi se li spendeva come fanno i ricchi – senza ritegno, come se non esistesse un domani. Mentre noi, da sempre, dovevamo fare economie su tutto, perfino su quella tendina di terital con la corolla del girasole arsa dalla candela magica. E il nonno, per consolarsi, quando infilava un po’ di bambagia sotto la dentiera perché gli ballava e non aveva i soldi per il dentista, mi diceva sottovoce: «Arriverà Peppone!»… Ma Stalin era morto da cinque lustri e il comunismo italiano era ormai in fase di compromesso storico. Il mio nonno stalinista mi faceva accendere le candele in chiesa e, anche se non ci andava mai la domenica, ogni volta che ci passavamo di fronte, entrava e si faceva il segno della croce e poi mi dava 100 lire e io mi inebriavo di quelle luci che mi ricordavano – pure quelle – le candele magiche e la tendina zoppa che suscitava l’ilarità della nipote dei friulani… Povero nonno: troppo comunista per i suoi generi (e il figlio) qualunquisti, troppo malato di ‘cuore’ per farsi una bella litigata con gli imbelli borghesi che si erano portati via le figlie (mai abbastanza lontano) e troppo catto- per non farsi dileggiare dai fratelli, operaisti mandati al confino in epoca fascista e che vivevano a Milano, ma nel cuore restavano duri e scorticati come la terra calabrese.
Adiós mala, bienvenida camorra! I pesci della vasca pubblica cominciarono a galleggiare a pancia all’aria. Quello che oggi si fa chiamare Parco Calisthenics – e che era un giardino spelacchiato, in inverno, e secco come un campo di grano dopo la mietitura, in estate – si riempì di siringhe. Chiusero le fontanelle dell’acqua, così i ‘tossici’ (allora non usavamo il linguaggio politically correct – non sapevamo nemmeno che esistessero due modi per definire le cose: quello accettabile socialmente e quello aderente alla realtà) non potevano lavarsi le siringhe e sciogliersi l’eroina in pace, e noi bambini non potevamo bere quando avevamo sete per aver corso o biciclettato nel quartiere. E intanto i limoni servivano sempre di meno in manifestazione e sempre di più a squagliare quella polvere bianca: li vedevi ciondolare persi, quei ventenni capelloni con i pantaloni di velluto a coste e l’eskimo, o sedersi e poi cadere all’indietro, sulla schiena, persi in un sogno, un oblio che, in fondo, non ci toccava. Non ci badavamo neppure, ma la rogna era che i nostri vecchi cominciavano a preoccuparsi e non volevano più che uscissimo dai cortili. Cominciarono a blindarci dentro, come carcerati. La vecchia custode era stata mandata via, sostituita dalle Case popolari con la donna delle pulizie a mezzo servizio, e la soluzione fu chiudere il cancello di ferro arrugginito a chiave: io e le altre guardavamo attraverso le sbarre in strada – come ergastolane – i ragazzi più grandi che potevano ancora uscire e facevano le impennate sfidandosi a colpi di marmitta. Che ce ne fregava a noi dei tossici? Noi volevamo tornare a uscire, andare dalla panettiera per la focaccia (almeno quelle di noi che avevano i soldi per comprarla, non io) o al giardinetto a buttare briciole di pane ai pesci. La lattaia aveva aperto la porta sul retro e ci vendeva i Mottarelli direttamente in cortile, ma noi guardavamo oltre il corridoio buio che tagliava quel budello di negozio e bramavamo la luce del sole aldilà dell’ingresso. Eppure la luce c’era anche nel nostro cortile: ma in quella fine d’inverno ci pareva che splendesse di meno, che fosse smorto come le nostre facce ingrigite dai mesi di scuola, da quelle poesie che sapevano di rancido quando le vomitavamo a memoria a una classe assente, altrove.
Poi, in un giorno di pallido sole da smog, uscì sul balcone O. coi suoi capelli da Cristo appiccicati alla fronte e le magliette incollate a un petto scavato. Ci guardò ridendo, fumando una sigaretta di nicotina che puzzava come quelle di mio zio, senza filtro. Sorrideva meno perso del solito, sembrava perfino che ci vedesse. Pensai che non era poi tanto brutto. Smilzo e slavato. Come me, forse più di me. Ma non brutto. E poi aveva anche lui i denti “come un gregge di pecore tosate” e un naso piccolo, femminile, in mezzo a due zigomi alti. D’un tratto si sedette, come li vedevamo fare nel giardinetto. Si appoggiò contro la parete del balcone e si addormentò. La sigaretta gli penzolava in mezzo alle dita. Le mie amiche mi dissero di ‘mollarlo’, che tanto era ‘partito’. Ma io rimasi lì, immobile, con lo sguardo fisso su quella sigaretta che si stava consumando tra indice e medio. Mi ero incantata. Non riuscivo a muovere nemmeno un muscolo; non le sentivo più, le altre, che avevano ripreso a saltare sul Mondo, disegnato coi tacchi nel brecciolino che correva lungo le aiuole del cortile. La mia mente si era impuntata a scoprire cosa sarebbe accaduto alla sigaretta ancora accesa: gli avrebbe bruciato le dita? Si sarebbe risvegliato? Oppure quando ti ‘fai’ non senti davvero più il dolore? Nessuno può più ferirti? Nessuno può più rinnegarti e abbandonarti dai tuoi nonni come se non fossi mai nata? Stavo lì, saltellando da una gamba all’altra, ciondolando in attesa della rivelazione e, alla fine, lo vidi: il mozzicone cadde a terra e si consumò mentre le sue dita si rilassavano in una beatitudine angelica dalla quale non si sarebbe più risvegliato. Nemmeno quando arrivò l’ambulanza, chiamata dal padre di G. che, rientrando dal lavoro, mi aveva vista fissare quella scena e si era subito allarmato, dandole una spiegazione che mi sfuggiva. Non mi mossi quando mandarono a chiamare la signora a mezzo servizio perché portasse le chiavi del cancello per fare entrare l’ambulanza e rimasi lì, dietro a una siepe, quando i paramedici – che non sapevo nemmeno si chiamassero paramedici – scavalcarono la ringhiera e atterrarono nel balcone al pianterreno. Le mie amiche erano già salite tutte, rientrate nelle loro case dove i grandi potevano convincerle che non era successo nulla, che O. non si era sentito bene ma che all’ospedale lo avrebbero guarito. Non ci credevano i grandi, non ci credeva nessuno. Ma loro continuavano a mentire per non farci sapere. Sapere che la vita è come una sigaretta accesa, che si consuma e, se non stai attento, o anche se stai attento, può bruciarti e poi, quando meno te l’aspetti, ti cade e si spegne. Io muovevo la testa piegandola di lato, lentamente, ritmicamente: quasi mi stessi scaldando i muscoli prima dello start. La nonna si era arresa: non sarei salita. Ero una piccola schifosa sanguisuga che stata abbeverandosi con quell’ultimo goccio di vita, che stillava dal corpo di un ragazzo che aveva solo qualche anno più di me. Imparavo la vita.
Quando salii, alla fine, dopo che il suono della sirena dell’ambulanza si fu spento in lontananza – e chissà perché, mi chiesi anche allora, l’avevano accesa, dato che la morte non è mai urgente: forse per darci l’impressione che non era successo l’inevitabile che, prima o poi, succede a tutti? – la nonna mi tirò una delle sue ciabatte di plastica, mi mancò, imprecò contro la mia disobbedienza, mi minacciò di dire tutto ‘a mia madre’ (quando l’avesse vista… ma sapevo che prima di allora se ne sarebbe dimenticata). La guardai e mi grattai la testa rasata di fresco: no, non sarebbe venuta troppo presto. Avevo tempo per ingraziarmi di nuovo la nonna. E poi non capivo perché facesse tutta quella cagnara: lei che ogni anno mi raccontava la storia dietro ai volti sulle immaginette – la nipote che era saltata in aria con il fidanzato militare per una bomba dei partigiani (chissà cos’erano i partigiani? Non eravamo ancora arrivati alla Seconda guerra mondiale); la sua bambina morta neonata di broncopolmonite fulminante perché la cognata l’aveva costretta a lavarla anche se non c’era il riscaldamento ed era gennaio e fuori c’erano i ghiaccioli che pendevano dai tetti; i suoi fratellini gemelli morti di Spagnola e io che pensavo che era strano che una malattia avesse nazionalità… non conoscevo ancora il mal ‘francese’… La guardai ancora qualche istante, torva, respingendo la sua minaccia con un piccolo, imperioso movimento della mano, come se non potesse toccarmi. Come se a quel punto nessuno avrebbe più potuto toccarmi… davvero. Davvero?
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 3 giugno 2022
In copertina: In copertina: Foto di Reno Beranger da Pixabay.