La Fiera delle vanità
di Simona Maria Frigerio
Saremo concisi perché, se la cosiddetta Notte degli Oscar è ormai sulla bocca di tutti solamente per una battuta ‘scorretta’ alla quale si è replicato non con una controbattuta (e da un Man in Black ci si potrebbe attendere almeno questo) ma con un ceffone, significa che gli States hanno ormai davvero poco da dire – e a livello non solamente cinematografico.
La vera e propria ossessione degli Academy per il politicamente corretto (che avevamo già segnalato due anni fa: https://www.inthenet.eu/2020/09/25/oscar-allipocrisia/) continua imperterrita a mietere vittime.
La prima è la qualità filmica. L’unico modo per vincere una statuetta a Hollywood, da almeno trent’anni, pare quello di raccontare la malattia. Dall’Alzheimer (la strepitosa Julianne Moore di A Single Man o Far from Heaven ha dovuto ‘piegarsi’ al prevedibile Still Alice) alla paraplegia (condita, però, con la genialità di uno Stephen Hawking); dalla cecità (un Al pacino in formula remake) al ritardo mentale di uno già decedute per Aids (Tom Hanks 2 la vendetta); dall’ossessivo-compulsività (ma Nicholson era meglio quando fingeva solamente la pazzia in Qualcuno volò sul nido del cuculo) all’autismo di un Rain Man prima della moda dei neuro-atipici. E così via. Senza nulla togliere all’importanza di narrazioni diversificate, il buonismo condito di melassa dopo un po’ nausea.
Se poi questa tendenza si coniuga a obblighi di assumere minoranze, di presentare tutto l’arcobaleno umano (a livello di genere, minoranze etniche e disabilità) in ogni pellicola – ma persino in ogni serial – e di eleggere a bandiera qualsiasi battaglia, tanto sventolata quanto frettolosamente ammainata (dal #MeToo al Black Lives Matter), l’intero carrozzone hollywoodiano finisce per perdere completamente il suo smalto.
E così, mentre gli ascolti crollano e i grandi schermi traboccano di già visto (come l’ultimo film di Jane Campion), tra abiti scollacciati che mostrano più di quanto celino – in barba al succitato #MeToo e alle donne che non diventerebbero dive grazie al do ut des – e battute persino peggiori di quelle di Sanremo, ci vuole uno schiaffo per far parlare, purtroppo, non di cinema ma di cadute di gusto e violenza da operetta.
La lingua ferisce più della spada ma un ceffone ha sempre il suo perché? Il maschio afroamericano difende la ‘sua’ donna e questa sarebbe l’America dei giusti? La libertà di parola si contesta con sagacia o magari commozione, come ha fatto il padre di un bambino danneggiato dal vaccino scrivendo una lettera aperta a Fiorello (https://scenarieconomici.it/lettera-del-padre-di-un-figlio-danneggiato-dal-vaccino-a-fiorello/). Ma la dignità non paga. Per giorni adesso, forse settimane, il nome di Will Smith e Chris Rock scivoleranno sulle labbra, mentre i due protagonisti – magari – se la rideranno per aver trovato il modo di rivitalizzare una serata fiacca e appassita quanto certi décolleté privi di reggiseno. E tutta questa manfrina per una battuta come: «Jada, I love you. G.I. Jane 2, non vedo l’ora di vederlo», che paragonerebbe la moglie del redivivo (cinematograficamente parlando) Smith, affetta da alopecia, alla super-sexy Demi Moore pelata di Soldato Jane… Sinéad O’Connor – e non solo – avrebbe gradito.
Beati i tempi in cui i reggiseni erano buttati alle ortiche perché le donne rivendicavano l’intelligenza e la libertà – anche di difendersi da sole, senza cavalieri e mariti boxeur. Beati i tempi in cui vincevano gli Oscar film come Casablanca, Tutti gli uomini del re (Broderick Crawford anche miglior attore), Eva contro Eva o Fronte del porto (Marlon Brando anche miglior attore). E le attrici che conquistavano la statuetta erano ‘brutte’ come Anna Magnani in La Rosa tatuata, Simone Signoret in La strada dei quartieri alti o Barbra Streisand in Funny Girl.
venerdì, 15 aprile 2022
In copertina: Foto di Kalhh da Pixabay.