Un racconto alla settimana
Prefazione
Non c’è nulla da spiegare. Nulla da aggiungere. Nulla su cui riflettere. La vita scorre tra incontri banali, frasi smozzicate, risposte abortite, illusioni fatte certezze. I frammenti, senza passato né futuro, restano sospesi nella memoria. Non c’è tempo per i ripensamenti, l’esistenza scorre e, come l’acqua che sfugge dalle dita, evapora. Si volatilizza. Ogni sguardo è solamente personale. La presenza dell’altro si limita al tempo di un battito di ciglia. Poi sfugge, irrecuperabile, straniato, incomprensibile. I cattivi maestri pontificano ma la realtà è più veloce e inaspettata di qualsiasi fantasma presagito. La paura è vuota perché il domani è cieco. In queste pagine troverete solo frammenti, racconti senza morali, ore rubate all’infinito. Nessuna risposta, mi spiace. E per le domande, a ognuno le proprie.
Quadri di vita
«Secondo me, non c’è nulla di sbagliato nel chiedere a un vigile di torglierti la multa!»
«E gli altri?»
«Gli altri… chi?»
«Cosa dovrebbero fare tutti quelli che non hanno avuto la fortuna di arrivare in tempo per incontrare il vigile?»
«Beh, sono affari loro!»
«Bel senso della giustizia!»
«Macché giustizia, io parlo solo di un po’ di elasticità mentale!» «Senti, scendere dall’auto due minuti per andare a prendere le sigarette è un conto, ma posteggiare costantemente in doppia fila è un altro…» «È proprio quello che sosteneva Anna…»
«E invece quello che dicevo io è diverso!: il vigile mi stava facendo la multa perché, per andare al bar, avevo parcheggiato un attimo in un carico/scarico merci dove non davo fastidio a nessuno, mentre non si occupava minimamente di tutti quelli che sfrecciavano di fianco al tram, rischiando di investire le persone che stavano scendendo alla fermata…»
«Ha ragione lei, Fabio, esistono delle priorità…»
«Ma entrambe le situazioni sono sanzionabili…»
«Che forbito che sei… Ma adesso che c’entri tu, Veronica?»
«Perché, è una discussione privata? Non mi sembrava…»
«Lisa, qui tutti hanno il diritto di parlare.»
«Parlare, hai detto bene, non… fare gli avvocati anche con gli amici…»
«Non ho ancora capito perché ve la prendiate tanto: Anna non ha preso la multa e… questo è tutto.» «Come la fai semplice tu: qui si sta parlando di correttezza.»
«I regolamenti sono uguali per tutti, altrimenti ognuno potrebbe comportarsi come più gli fa comodo.»
«In Italia? Ma se i regolamenti sono al di sopra delle situazioni e delle persone, smettono di essere umani! Vogliamo una giustizia cieca o una all’italiana?»
«E non farla tanto tragica: stavamo solo discutendo di una multa!»
«O.k. Stop! Bene così! Con l’improvvisazione ve la cavate abbastanza bene. La settimana prossima, però, avrete un testo scritto a cui attenervi e vedremo cosa saprete fare… Anna, puoi attendere un attimo che avrei bisogno di parlare con te?»
«Sì, certo…»
«Senti, tu ce la metti tutta, ma dovresti lasciarti andare un po’ di più… Capisci cosa intendo?»
«A-a.»
«Non voglio offenderti, ma quando sei sul palcoscenico sembri un manichino. Ti irrigidisci e diventi inespressiva…»
«Vero…»
«Lo so che stai seguendo questo corso proprio perché vorresti essere più disinibita, ma se non riesci a scioglierti nemmeno quando non sei te stessa, quando interpreti un personaggio, non so… forse faresti meglio a tentare con qualcos’altro…»
«Cioè?»
«…Potresti dipingere… o magari iscriverti a un corso di musica… sai, un’attività che non ti costringa a essere protagonista.»
«Capisco: ma io non so disegnare… e sono stonata.»
«Va beh… lascia perdere… in fondo questo è un corso per principianti… E comunque siamo tutti qui per imparare… Dai, ci vediamo la settimana prossima!»
‟Faccio cenno di sì col capo e mi allontano: cos’altro potrei aggiungere? Non fa parte del mio personaggio contraddire, e poi è lui il regista: avrà pur ragione di rimproverarmi se non riesco a essere come lui mi vorrebbe! Lentamente mi strucco: è strano tornare a osservare il mio volto riflesso nello specchio, quel volto che evito ormai di guardare anche quando mi sto pettinando… I miei compagni sono sempre più veloci di me. Uscendo, qualcuno mi saluta sfiorandomi la spalla col braccio. Lisa mi dà un lieve bacio sulla guancia e mi stringe per le spalle. Forse vuole consolarmi, oppure tenta di farmi coraggio. Lei non sa: io non sono arrabbiata e nemmeno delusa: ritrovarmi in questo luogo è già abbastanza per me: non pretendo di più. Attendo l’autobus sotto una pioggia scrosciante. La pensilina minuscola è affollata di gente. Il mio sguardo è catturato da una miriade di piccole foglie rosse trascinate dall’acqua, lungo i rivoli ai bordi della strada. Resto ipnotizzata fino all’arrivo dell’autobus. Provo un attimo di sconcerto vedendo un ragazzo nero altissimo salire prima di me: vorrei avvertirlo di chinare il capo. Mi sento stranamente preoccupata dalla situazione. Quando salgo, una ventata di aria calda e umida mi toglie il respiro. Vorrrei scendere e andare a piedi, ma naturalmente non lo faccio: lui non sopporterebbe che ritardassi. Lui è mio marito.
Mio marito è un elemento stonato nella mia vita tranquilla: è iperattivo, energico, autoritario. Probabilmente ho bisogno di lui proprio perché compensa la mia perenne mancanza di senso pratico, o forse non ho avuto altra scelta e adesso sarebbe troppo difficile per me fare a meno di lui. E viceversa. Quando ci conoscemmo, all’università, fu innamoramento a prima vista: eravamo così diversi che non avremmo potuto rimanere indifferenti l’uno all’altra; avremmo potuto detestarci o innamorarci: ci toccò la seconda. Appena terminati gli studi ci sposammo. Lui, naturalmente, andò subito a lavorare nella società di proprietà del padre e io, con altrettanta naturalezza, mi arresi a rimanere a casa: ad attenderlo. Col tempo ho imparato che lui vuole i calzini intonati alla cravatta, il prosciutto tagliato sottile ma non troppo, lo zerbino attaccato alla porta, gli asciugamani piegati in tre e, soprattutto, trovarmi a casa quando ritorna dal lavoro. Due volte al giorno, verso l’una e alle sette, apro la porta di casa sorridente e lo faccio accomodare. Poi, posso anche dimenticarmi della sua presenza. Dal canto suo, lui si ritira nello studio a lavorare fino a mezzanotte o all’una. A volte mangia perfino sulla scrivania, di fretta, senza alzare gli occhi dalle carte che sta esaminando. Spesso mi domando come sarebbe stata la nostra vita se, invece di vivere in duecento metri quadrati di appartamento, Tasi permettendo, ci fossimo ritrovati in un monolocale con cucina semiabitabile. Avrebbe lavorato sul tavolo da cucina tra l’odore dei peperoni e il fritto misto? Mio marito è l’uomo in grigio per eccellenza: inappuntabile, puntuale, dinamico, positivo, in perfetta forma. Col passare degli anni è perfino migliorato: si è prosciugato, gli zigomi sono diventati sporgenti, lo sguardo – come scrivono nei gialli – si è fatto gelido, e il suo fascino è aumentato d’intensità. Peccato che io, ormai, ne sia immune. A volte, quando lo guardo tornare dalla palestra, fresco di doccia e coi muscoli rilassati dalla sauna e dal massaggio, provo l’impulso di toccarlo: far scorrere le mie dita sul suo petto levigato. È un attimo: una frazione di secondo nella quale l’attrazione dei primi mesi mi sorride dai lembi della memoria stanca. Poi lui apre la bocca e chiede il suo piatto di prosciutto e melone. Io sorrido e affondo le dita nella polpa gialla. A volte mi domando dove abbia perso il mio amore: forse alla fermata dell’autobus, a vent’anni, quando lo salutavo dal finestrino e baciavo il vetro impolverato col desiderio del contatto delle sue labbra… O forse, l’innamoramento non è che una breve stagione dorata che si spegne lentamente nella monotonia dei rapporti, nella ripetizione dei gesti, nei rituali ormai privi di significato… Eppure l’abitudine, col tempo, sostituisce l’amore, diventa l’amore stesso, la sua sostanza, si erge a ragione di vita, a indispensabile compagna delle nostre notti vuote. Ormai non mi sarebbe più possibile mangiare, dormire, vivere da sola. Anche se, pensandoci meglio, mangiare, dormire, vivere con un estraneo è solo una bugia, una favola che mi racconto la sera, prima di addormentarmi, per illudermi di non essere sola. Sorrido entrando in casa: non ho fatto in tempo. Il traffico mi ha impedito di arrivare prima di lui. Mio marito è imbronciato. Mi guarda con aria interrogativa: si domanda perché abbia bisogno di quella scuola di recitazione. Sua madre lo ha convinto che sarebbe stato opportuno farmi ‘svagare’ – pensando forse a ‘mali’ peggiori. Lui, però, ha accettato la situazione senza esserne convinto. È irritato, ma si controlla – sembra inglese, in questo. Mi dice che ha perfino preparato la cena – tradotto: ha scaldato l’arrosto che avevo messo in forno e ha tagliato l’insalata che avevo lasciato nella centrifuga. Sorrido: fa parte del mio personaggio scusarmi e non lamentarmi mai. Ci sediamo a tavola e mangiamo velocemente: lui deve uscire perché ha una riunione con l’amministratore delegato: mi ha fatto un favore venendo a casa a cenare. Ancora una volta sorrido riconoscente. Finalmente posso respirare, a pieni polmoni: mangio l’aria che lui ha lasciato – vuota – dietro di sé. Mi siedo e guardo un vecchio film alla televisione, un melodramma degli anni Quaranta in bianco e nero. Di solito, trasmettono questi film solamente d’estate: quando nessuno, tranne me, guarda la tivù. Stasera, però, c’è l’ennesima partita di qualche coppa del nonno, tanto vale trasmettere un vecchio film… l’audience è altrove.
Stamane c’è il sole: è bello svagliarsi, guardare fuori dalla finestra e vedere la luce irradiare calore e allegria tutt’intorno. Accendo lo stereo e metto su i Doors. Ballo per la stanza felice come una bambina: oggi compio trentacinque anni, ma mi sembra di essere una ragazza, più gli anni passano e più mi sento piccola… Il telefono squilla: sicuramente oggi chiamerà mia madre. Lei si ricorda sempre di telefonarmi il giorno del mio compleanno – e poi si dimentica di me gli altri 364 giorni. La signorina, dall’altro capo del filo, mi chiede se accetto una chiamata a carico del destinatario dall’Argentina. Faccio cenno di sì col capo. Poi mi rendo conto che lei non può vedermi e dico di sì. La mamma parla… parla: ha un nuovo cane, suo marito è al lavoro, il recinto è nuovamente da rifare, quando andiamo a trovarla?, mi aspetta, mi vuole bene, mi manda un bacio… Appendo il ricevitore, sorrido – ma questa volta mi riesce più difficile: qualcosa nel mio personaggio si sta infrangendo contro la realtà. Esco di casa e mi dimentico di spegnere lo stereo. In ascensore penso che se lui arriva a casa prima di me s’infurierà, ma io sono sicura di tornare presto. Sono in strada, mi guardo intorno: dove vado adesso? D’un tratto mi viene voglia di verde: decido per il parco e penso di fare un po’ di esercizi sull’erba… M’incammino spedita e sono felice: improvvisamente, senza alcun motivo apparente, mi sento a posto con me stessa; un piacevole senso di benessere mi pervade, forse è solamente il sole che mi sta scaldando. Alex mi guarda e fa tante facce buffe, lascio perdere le flessioni e mi avvicino a lui, gli chiedo cosa faccia in giro a quest’ora e lui mi risponde che oggi ha deciso di non andare in ufficio. Accenno di sì col capo in segno di approvazione: secondo mio marito, la mia capacità di giudizio rispetto a ciò che è giusto e ciò che non lo è lascia alquanto a desiderare: forse ha ragione lui, che non si assenta mai dal lavoro, nemmeno quando ha la febbre, e torna prima dalle vacanze perché si sente angosciato dalla lontananza forzata. Però io, che non lavoro – che sono un peso per la società perché non produco niente tranne le mie fantasie – capisco Alex e approvo. Poi Alex mi parla della sua compagna: non vanno più d’accordo. D’un tratto mi sento protagonista di una scena già vista: recito a fatica il ruolo dell’amica dispiaciuta. Parliamo di tutto e di nulla, ridiamo, Alex mi somiglia molto. Un’ondata di gioia incontrollata ci avvicina pericolosamente, butto il capo all’indietro e mi ritrovo a baciarlo. Per un attimo la mia mente, estraniata dal corpo, si domanda cosa mai stia facendo, ma il mio corpo parla una lingua sconosciuta e, per qualche secondo, non riescono a intendersi. Ci lasciamo dandoci appuntamento per l’indomani pomeriggio: salterò la lezione di recitazione. Mi rendo conto che sta succedendo tutto troppo velocemente e non mi sento preparata. Mi chiedo perché mi stia comportando in questo modo: non mi era mai successo prima. Frequento Alex da anni, non c’è mai stato niente tra di noi e, d’improvviso, domani andrò in un albergo che non conosco, in una via che devo cercare sullo stradario, senza nemmeno preoccuparmi della mia instabile normalità, di quella routine, monotona ma rassicurante, alla quale mi sono aggrappata per anni.
Sono qui già da dieci minuti con Lou Reed negli auricolari e mi guardo intorno nervosamente. Mi siedo un attimo sul letto ma mi accorgo di essere tesa e legnosa. Devo calmarmi: perciò mi alzo e riprendo a camminare per la stanza. Mi accendo una sigaretta, tossisco e la spengo. Non riuscirò mai a prendere il vizio, per quanto strenuamente tenti di farlo; spendo decine di euro in pacchetti dimenticati e sigarette spente ancor prima di essere accese. Tiro un profondo sospiro e d’improvviso mi calmo: un piacevole senso di tranquillità mi avvolge. Ho completamente dimenticato la mia coscienza, se mai ne ho posseduta una. Il senso dell’oblio per ciò che rappresento nella vita di mio marito e degli altri è completo. Mi lascio trascinare dal Lete del disinteresse più assoluto: per chi sono, ciò che farò, il perché mi trovo in questo luogo e, soprattutto, quali saranno le conseguenze della mia scelta. Mi sento Lauren Bacall in Acque del Sud: sollevo il capo e sorrido, mi manca solo la sigaretta accesa! Qualcuno bussa alla porta e io mi domando chi possa essere, poi ricordo dove sono e scuoto il capo. Alex entra e mi sorride: è imbarazzato, anche se cerca di nasconderlo. È strano pensare di fare sesso con una persona che conosci da sempre. Mi chiedo se mi sia mai sentita attratta da Alex o se sia un sentimento nuovo. Devo ammettere di essermi negata a lungo. Alex sembra leggermi dentro, accenna di sì col capo: è stato così anche per lui. Mi dice che mi desidera, forse si accorge che le parole non riescono a esprimere ciò che prova. Per fortuna, tace. Mi sento la protagonista di uno di quei racconti minimalisti americani in cui lui e lei si ritrovano da qualche parte a fare l’amore senza amore e poi ognuno se ne va, più vuoto di prima, più solo di sempre… Eppure, stranamente per me, questa volta mi lascio andare, senza imbarazzo, e il mio corpo esprime molto più che desiderio… La cassetta di Lou Reed è finita. Mi alzo in mezzo al letto e cerco di guardare fuori dalla finestra. Si sta facendo buio: è ora che vada. Alex non si è addormentato, ha continuato a parlarmi per tutto il tempo, mi ha raccontato di sé, di ciò che prova, di noi due. Mi ha perfino chiesto di andare a vivere da lui. Io scuoto il capo all’idea di lasciare mio marito. Come si può pensare di cambiare la propria esistenza per un istante di piacere? Mi rimprovero: Alex è molto di più. Però no, non ho il coraggio. Restare sarebbe sognare. È ora di svegliarmi e di tornare a casa. Mi rivesto con cura: all’improvviso, temo le conseguenze. Mio marito e il mio cosiddetto ruolo sociale accanto a lui contano nuovamente. Devo rientrare nel personaggio. Che brava attrice che sono: solo il regista non se n’è ancora accorto. Alex rimane a letto. Lui se ne andrà: non ha più nulla da dire alla sua compagna. In strada, guardo un attimo la finestra della camera e mi pare di scorgere il suo bel volto che mi osserva dall’interno di quella stanza buia e vuota. Probabilmente, è solo la mia immaginazione. La pioggia ha ricominciato a scendere copiosamente, un cielo plumbeo e triste sembra penetrare, attraverso le narici e la bocca, nell’animo dei passanti. Una lacrima mi cola lentamente e si confonde nella pioggia. Sono quasi arrivata: tra meno di dieci minuti sarò a casa mia, a preparare la cena per me e lui. Mio marito entrerà, mi chiederà com’è andata la lezione di recitazione e non dovrò nemmeno mentire perché lui tanto non attenderà la risposta, mangerà di corsa, mi dirà qualcosa del genere ‘come ti sei smagrita’ o ‘perché non sei andata dal parrucchiere?’ E io inventerò una scusa e lui se ne andrà nel suo studio in pace con la propria coscienza di marito premuroso. E io piangerò un po’, magari chiusa in bagno, senza farmi sentire, ma domani rientrerò nel mio personaggio, andrò dal parrucchiere e gli chiederò di tagliare i capelli, ma quando vedrò le forbici cambierò idea, e come sempre mi farò fare solo una messa in piega e domani sera mio marito mi dirà che sto bene e crederà che abbia finalmente accorciato i capelli e così per qualche mese non si dovrà più accorgere di me. D’un tratto mi volto, in mezzo all’autobus affollato, e comincio a spingere verso l’uscita. Qualcuno mi guarda male, sento rimbrotti e imprecazioni. Non ci faccio caso e riesco a scendere. Mi ritrovo in mezzo alla strada senza rendermi esattamente conto di ciò che sto facendo. Non potrei giurare di essere responsabile di me stessa. Ormai, le situazioni in cui il mio comportamente sfugge al controllo si stanno moltiplicando, ma io non provo né angoscia né paura. Un gorgoglio di gioia mi scaturisce dalle labbra al pensiero che mio marito rientrerà a casa e forse troverà lo stereo o la televisione accesi, ma io non ci sarò per sentire i suoi rimbrotti… e domani potrò lasciare i capelli liberi di cadermi sulle spalle… e buttare via le camicie di seta che mi ha regalato e che non riesco a stirare… e non dovrò più pulirgli i suoi meloni appiccicosi… e potrò leggere i libri fino a tardi… e tornerò a frequentare i miei amici e… sarò semplicemente mia. Corro d’un fiato fino alla camera nella quale riposa Alex. Di colpo mi blocco e mi chiedo angosciata cosa farei se non lo trovassi. Poi un altro dubbio mi assale: e se Alex diventasse la mia nuova prigione? Non potrei accettare di scappare da mio marito per ritrovarmi nella stessa situazione con un uomo diverso! Sorrido, scuoto il capo e mi siedo sulle scale. Adesso non so più se desiderare che Alex mi stia ancora aspettando, o che se ne sia già andato. I dubbi mi assalgono con la consistenza di oggetti scagliati contro il mio corpo, improvvisamente inerme. Non voglio tornare indietro, ma neppure entrare in quella stanza e scoprire che sarebbe questo il tornare indietro. Eppure no, non devo fermarmi, non devo lasciare che le mie paure mi impediscano di scegliere, tentare, sbagliare, ma comunque vivere. Arrendermi adesso non sarebbe diverso da ciò che ho fatto negli ultimi dieci anni: negarmi. Lentamente mi alzo e riprendo a salire le scale con una nuova tranquillità. Forse è il mio senso del fato che mi dà la forza di andare avanti. Penso che se troverò o meno Alex sarà il destino a deciderlo e sarà comunque la cosa migliore. Eppure no, non riesco più ad accettare una tale rassegnazione: io ho cambiato la mia vita venendo qui, e ancor più tornandovi. Ma una cosa è vera, e adesso me ne rendo conto in maniera lucida: che Alex se ne sia andato o meno, io non cambierò la mia scelta, perché adesso finalmente mi sento abbastanza forte da poter decidere della mia esistenza e non tornerò indietro. Busso alla porta una, due volte. Non sento alcun rumore. Per un attimo penso che sarebbe meglio se me ne andassi: forse la stanza è già stata occupata da altri… ma un impulso mi spinge a entrare. Giro la maniglia e mi accorgo che la porta è aperta. Dal bagno esce il vapore della doccia calda. Mi avvicino e sento, sopra lo scroscio dell’acqua, la voce di Alex cantare una vecchia canzone dei Cream. Per un istante penso di entrare e infilarmi sotto la doccia, magari tutta vestita, come ho visto nei film americani, ma non mi sembra il caso: ho voglia di parlare e poi non avrei un cambio d’abiti. Alex esce dalla doccia e mi guarda sorpreso: sto tentando di fumare una sigaretta per darmi un certo contegno e sembro una bambina che ha rubato il pacchetto del padre. Scuote la testa. Faccio cenno di sì col capo e, impacciata, spengo il mozzicone. Alex mi sorride e mi abbraccia. È felice: lo sento dal suo calore mentre mi stringe. Non ho dubbi. E, d’improvviso, ecco che sento le sue parole: non più mediate dalla mia mente, ma sue e dirette verso di me. Le parole mi penetrano e io percepisco finalmente altre esistenze al di fuori della mia – io non sono il mondo, il mondo esiste al di là della cinepresa dei miei occhi stanchi. Mi sento nuda, vulnerabile, ma finalmente libera”.
«O.k., bene così! Spegnete le luci! Anna, sei stata bravissima: intensa come sempre. Domani sera, la prima sarà un trionfo! Mi raccomando: dormi, che non voglio vederti le occhiaie affiorare sotto il cerone… E tu, Alex, avvolgiti meglio quell’asciugamano: ci sono abbastanza nudi nei teatri e noi vorremmo essere originali, o no? E ora: tutti a casa».
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
In copertina: Foto di David Mark da Pixabay.