Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo
di Simona Maria Frigerio
Georgios Katsantonis, studioso di teatro e letteratura, pubblica un libro che raccogli tre originali essai che indagano, attraverso altrettante opere drammaturgiche pasoliane, il portato filosofico e politico dell’intellettuale bolognese.
Il volume non solamente è approfondito e ricco di rimandi ma suggerisce altresì ulteriori percorsi di ricerca ed è per questo che abbiamo pensato di analizzarlo – in questo numero di InTheNet dedicato ai 100 anni dalla nascita di Pasolini – dando ulteriori spunti al lettore che vorrà dedicarvisi.
De Sade filosofo quanto Pasolini
Il primo studio, dedicato al raffronto tra il divin marchese e Pasolini e, per la precisione, tra la Philosophie dans le boudoir e Orgia, che utilizza il corpo quale medium di indagine, ci pare il più interessante in assoluto (senza togliere nulla agli altri). In primis perché molti dei temi che saranno successivamente dibattuti si delineano già con evidenza in questo studio corposo e fluido; secondo, perché Pasolini senza il corpo (il suo e quello dei personaggi che ha ‘visceralmente’ creato per lo schermo, sulla carta o per il palcoscenico) sarebbe come un vaso di fiori senz’acqua.
Partiamo da un concetto fondamentale del primo studio: se un’attività è eletta a senso proprio dell’esistenza si trasforma in filosofia di vita – ecco perché l’erotismo fu per De Sade tale, ossia un mezzo per interpretare il mondo e il significato del nostro vivere, ma anche i rapporti esistenti tra esseri umani e tra potente e sottomesso. Traslando tale concetto dialogico in servo/padrone (come nel capolavoro di Joseph Losey, The servant, sceneggiato da Harold Pinter nel 1963), ossia in una dialettica politicamente ed economicamente storicizzata, Pasolini assume il principio di piacere di De Sade all’interno della sua personale visione critica della società capitalistica e consumistica occidentale – e l’Uomo e la Donna di Orgia più che mettere in scena un rapporto sado-masochistico erotico, interpretano i ruoli di coppia edonistica in una società consumistica in cui il soggetto è meramente degradato a oggetto/merce.
Ulteriori concetti chiave del saggio sono il linguaggio e la morte. La lingua del corpo, rivendicata in De Sade, sembra ormai abortita in Orgia come nella nostra società, sostituita da quel Logos/Padre che, secolarizzato il messaggio escatologico di ascendenza ebraica, si è trasformato nella lingua dei consumi (o negli attuali ‘aborti’, potremmo aggiungere, degli sms degradati alla spezzatura dei like da social). “Una lingua che non distingue la morte dalla vita”, come afferma la Donna in Orgia. Il linguaggio, al contrario, può essere anche fonte di piacere in entrambe le opere in quanto, come scriveva, Gotthold Ephraim Lessing: “L’attesa del piacere è essa stessa piacere”. Ovvero: quale mezzo migliore (prima che tale massima fosse degradata a slogan pubblicitario) per anticipare il piacere, del parlare di ciò che accadrà, di ciò che si farà all’altro da sé – complice/vittima consenziente?
Eppure il linguaggio della contemporaneità, in Pasolini, si identifica con la morte. La stessa cui conduce l’erotismo in Orgia e che, al aldilà del principio di piacere, non esplode mai in uno slancio vitalistico (come nel divin marchese) ma si ripiega su se stesso in una versione funebre pre-fetale (rimandiamo al terzo studio per il rapporto di Pasolini con i figli e con il padre). E qui sorge spontaneo un altro rimando filmico. Quello a Ecco l’impero dei sensi, il capolavoro di Nagisa Ōshima, dove l’erotismo assurge, sì, a filosofia di vita – con connotati fortemente sadomasochisti, accettati e condivisi – ma a ruoli invertiti. E proprio la possibilità dell’inversione di ruoli, che non sfugge alla sagacia libertina e libertaria di De Sade (in cui la donna ‘fotte’ e per la quale rivendica il dritto al piacere), non può essere nemmeno immaginata da Pasolini. Quest’ultimo, infatti – come gli rimprovererà Laura Betti in riferimento a uno tra gli Scritti corsari dedicati all’interruzione volontaria di gravidanza – non è capace di analizzare la tematica in quanto nel suo pensiero “manca fisiologicamente la donna”. E del resto, laddove De Sade (come scrive Katsantonis): “riporta il corpo della donna alla sua dimensione carnale con incitamenti veri e propri al godimento femminile”, Pasolini vede solo il piacere edonistico della coppia consumistica e, di fronte all’autodeterminazione femminile, afferma (secondo noi in maniera miope e puritana), sempre in Scritti corsari: “Io ho posto l’accento più sul figlio che sulla madre, in quanto, nel nostro caso, si tratta di una madre nemica. Non potevo non rimuoverla, e privilegiare il suo frutto”. La donna-oggetto passiva di Pasolini (al contrario, in De Sade, la donna può essere soggetto attivo) è, quindi, madre che, se fagocita il proprio figlio, si trasforma in nemica – e di questo topos l’unica figurazione forse in positivo, in quanto legata al mito, resterebbe Medea – l’esclusa dal circolo magico della comunità. Ma Pasolini così facendo opera egli stesso, secondo noi, una riduzione della donna a una sua funzione – quella procreatrice, appunto – e, alla stregua, di un’incubatrice la oggettivizza in un ruolo cristallizzato di matrice patriarcale.
Anche il possedere e il potere ricoprono ruoli di grande rilevanza nei due scritti esaminati e i parallelismi proposti da Katsantonis, nel saggio, paiono molto pregnanti. Se per De Sade “L’eguaglianza degli esseri [ossia dei generi, ma pensiamo anche all’affermazione di non potersi possedere esclusivamente una donna, come non si possono possedere schiavi, n.d.g.] è il diritto di disporre in egual misura di tutti gli esseri: la libertà è il potere di sottomettere chiunque ai propri desideri”. Massima in cui un lettore attuale potrebbe intravvedere i germi di quella volontà di potenza nietzschiana creatrice di mondi, che vuole se stessa e che mira a crescere incessantemente. Per Pier Paolo Pasolini, il binomio possedere/potere si ricollega, nel proprio opus, aldilà dei riferimenti al sistema capitalistico (su cui torneremo), alla volontà del Narratore che, come scrive Katsantonis: “inventando una storia e dei personaggi, li possiede e ne gestisce il mondo di riferimento”. Ma non solo. Il Narratore/Autore, creando, si rivela – e Pasolini si domanda: “Lo scandalizzare non sarà un atto che un autore compie perché ricada su lui stesso? Un atto di sadomasochismo, diciamo di autolesionismo? Un atto espressivo in quanto pubblica punizione di se stesso?”. A proposito viene in mente quando Lino Musella, interprete di The Night Writer di Jan Fabre, “si addentra[va] nel disvelamento pornografico dell’artista – ché sempre nel raccontarsi si denuda di fronte al proprio pubblico, intessendo trame complici e condendo il narrare di sé con un pizzico di autocompiaciuto esibizionismo (nessun artista potrà mai sottrarsi all’attrazione di Narciso).” E più oltre spiegavamo che:“ogni autobiografia è […] una forma di esibizionismo che necessita di una dose di crudeltà autoinferta, dato che non si può scrivere di sé, apertamente, se non si è inciso nel profondo, nell’intimità (e, riandando a Fabre, non è lui stesso a definire la per-for-mance: «una persona che per-fo-ra se stessa e il suo ambiente»?”[1].
Ne discendono altri due filoni – entrambi analizzati nell’essai – ossia la teatralità e il senso della tragedia. Sul palcoscenico imbastito da De Sade, le vittime possono trasformarsi in carnefici e il dolore è mezzo di piacere e piacere esso stesso (ricordiamo che nel sadomasochismo contemporaneo è il masochista quello che dice ‘basta’ e, quindi, colui o colei che esercita il potere su di sé e sulla coppia). Mentre in Pasolini (sebbene la teatralità e il senso della tragedia partengano alla struttura di Orgia in quanto – come nella Philosophie dans le boudoir – la stessa si costruisce intorno alle tre unità aristoteliche di luogo, tempo e azione), la dimensione tragica si carica di quella che è denominata (dal citato Raffele Donnarumma) di una “metafisica del sesso”, ove il Male (e in De Sade non vi è traccia della dicotomia bene/male) è incarnato da carnefici attivi che, però, sono espressioni di un Potere (capitalistico/consumistico) che trasforma gli esseri umani in oggetti (anche sessuali) passivi. La trasposizione storicistica del potere erotico/sessuale in potere economico/finanziario, in Pasolini, diventa d’altro canto antistorica assurgendo a spiegazione ontologica dei rapporti di forza (e del nostro essere nel mondo) quando, non ammettendo rivoluzione, nega intrinsecamente la possibilità di cambiamenti (su questo torneremo alla fine del pezzo).
La dimensione religiosa di Pasolini rientra sempre in qualunque suo discorso (filosofico, politico o artistico). E non poteva mancare in Orgia, che si svolge nella notte di Pasqua. Mentre il divin marchese fa discendere dalla religione la possibilità della trasgressione (come comportamento che si oppone a una norma) e, quindi, la blasfemia si trasforma in piacere nel boudoir; la carica pessimista e cristologica di Pasolini ha altre valenze e parte da ben altre pulsioni anche biografiche (si veda Katsantonis). Come scriviamo in un altro articolo pubblicato oggi, Pasolini affermò non a caso: “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere”.
Ma lo scandalo che per De Sade va tenuto nascosto nell’intimo protetto del boudoir, per il drammaturgo e intellettuale bolognese deve essere “esposto sul palcoscenico della modernità” (sempre Katsantonis). La vocazione a immolarsi di Pasolini (e la sua fine tragica sul palcoscenico della storia sembra far coincidere la sua autobiografia con il suo opus poetico), a immedesimarsi nel Cristo e, nel contempo, a essere affascinati eroticamente dalla sua immagine ‘nuda e cruda’ di morte (si legga, sempre nel volume, il Pasolini dei Quaderni Rossi: “Quel corpo nudo coperto appena da una strana benda sui fianchi […] mi suscitava pensieri non apertamente illeciti” e più oltre: “nelle mie fantasie affiorava espressamente il desiderio di imitare Gesù. […]. I miei fianchi erano succintamente avvolti da quel lembo leggero e un’immensa folla mi guardava. Quel mio pubblico martirio finì col diventare un’immagine voluttuosa”), non è solamente frutto della “fantasia esibizionistica dello scrittore” ma altresì “dissacrazione del mondo e dell’individuo” (in una società mercificata) e, soprattutto, autentica pulsione di morte. Il Thanatos freudiano di Pasolini – il tutto/nulla – coincide, per un certo periodo di tempo, con la sicurezza del grembo materno così come con la condizione pre-industriale, ma alla fine si tradurrà in un’enorme bocca fagocitante, nel Cronos/Padre che, secondo noi, aldilà di essere il simbolo della moderna società consumistica, si tingerà delle note edipiche proprie di Pasolini uomo che, a differenza di Jim Morrison, non riuscirà mai a scrivere ciò che lui osò urlare: “Father? Yes son? I want to kill you / Mother I want to… fuck you” (The Doors, The End).
Da Orgia a Porcile – dal corpo umano al corpo animalizzato
Molti temi già trattati nel primo essai tornano nel secondo, dedicato a Porcile, e, non volendo essere pedanti, vi accenneremo solamente nel caso di palesi e/involuzioni. In quest’opera il contenuto dialogico è, in realtà – come afferma Katsantonis – un giustapporsi di monologhi che rimandano al “parlare vuoto dei borghesi”, ma che potremmo altresì ricollegare, più profondamente, a un’incomunicabilità che rimandi, prima delle opere bergmaniane, soprattutto a Harold Pinter. Detto questo va precisato che Porcile è un dramma epico, in quanto necessita dello straniamento, “non della compartecipazione emotiva degli spettatori con i carnefici”. Come scrivevamo in occasione dello spettacolo omonimo diretto da Valerio Binasco (che, purtroppo, metteva in scena “una famiglia borghese con forti problemi psicologici”, come lui stesso affermava, travisando completamente il portato dell’opera): “In questo porcile/mondo, dove il capitalismo razzola e l’ingordigia sbrana il debole, fagocita i non ubbidienti, i dissenzienti, i diversi, anche solo gli inetti, non c’è più spazio per l’umanità. La zooerastia del protagonista o l’omosessualità di Pasolini non c’entra niente – e non hanno nemmeno a che fare l’una con l’altra. […]. Qui si tratta di teatro concettuale non di realismo borghese”[2]. Qui, come afferma anche Katsantonis, si è di fronte a un’insanabile scissione in cui riverbera il grido di Rimbaud: “Je est un autre”.
I temi del linguaggio e del corpo tornano. Ma è l’afasia a prevalere e la tragedia è, come afferma lo studioso, “la rappresentazione di ciò che non si deve dire”. E come la tragedia si compie sempre al di fuori della scena, anche in questo teatro/mondo non è necessario assistere allo sbranamento di Julian a opera dei porci, bensì all’affermazione che di lui non è rimasto nulla – perché – in senso politico e filosofico, il non ubbidiente non può trovare posto nella nuova società fascio-tecnocratica.
In questo saggio si pone in rapporto dialettico l’opera pasoliniana con la filosofia di Spinoza anche perché quest’ultimo è personaggio presente nel dramma teatrale (mentre, nel film, la storia di Julian, il zooerasta sbranato dai porci, scorre parallelamente a quella del cannibale, interpretato da Pierre Clémenti). La critica a Spinoza risiederebbe nel fatto che il filosofo ha posto la ragione a base dell’etica e, in questo modo, ha ricondotto Dio (simbolo del sacro) nelle strettoie della razionalità o della ragionevolezza umane. La politica (o la polis) affonderebbe le proprie radici in questa pratica dialogante – che non ammetterebbe, diremmo noi, assoluti. La relativizzazione della verità, o del senso di ciò che è giusto e sbagliato, potremmo considerarli come elementi a corollario. Ma, come affermerebbe Murri – citato nel libro – “dal dominio totalitario della ragione tecnocratica ci si libera solo attraverso il recupero del sacro, dell’altro”.
Centrale il tema dell’animalità. Come in Brecht (padre del dramma epico), anche Pasolini sembra creare parallelismi tra macellazione e società capitalistica, che tutto e tutti fagocita. In questo senso i porci ne sono l’espressione paradigmatica e sbranando Julian – il non ubbidiente – ristabiliscono l’ordine della società capitalistico-consumistica. Contemporaneamente, gli stessi sarebbero espressione di una realtà pre-logica, arcaica e mitica. In questa seconda analisi di Katsantonis troviamo solo un passaggio che lascia dubbiosi, quando afferma che “l’aspetto che più affascina del mondo arcaico è l’assenza di una precisa morale e la possibilità della trasgressione continua” (pag. 170), ma – ritornando all’essai su Orgia – la trasgressione non è possibile solamente ove esista la norma?
Tornano, inoltre, i temi del piacere erotico di immolarsi e il desiderio di parricidio nell’episodio del cannibale con l’escalation del piacere di uccidere e fagocitare – che si ritrova, ad esempio, in Il signore delle mosche, il romanzo di William Golding del 1958. Per quanto riguarda il godimento di Julian con i porci, è chiaro che in Pasolini lo stesso sia un piacere esclusivo, onanistico e, quindi, una narcisistica ricerca del benessere – propria della società consumistica e similare a quella descritta da Lacan (sempre dall’analisi di Katsantonis).
La conclusione di Pasolini è pessimista: nessuna ribellione pare ormai possibile se non quella di soggiacere al capitalismo fagocitante o essere rivoluzionari/intellettuali organici che, ribellandosi/denunciando, legittimano in quanto – destinati a perdere – rafforzano l’intangibilità dello status quo.
Calderón – da La vida es sueño a Est drömspel, il sogno come volatilizzazione del corpo
Nell’ultimo essai sembra che Katsantonis arrivi alla negazione dell’assunto iniziale. Pasolini smonta il corpo, frammentandolo. L’unica realtà esperienziale e resistenziale ereditata da una società arcaica, mitica o pre-industriale appare ormai intangibile nella società degli esseri/oggetto. Mentre in Orgia, la morte ha fissato un io unico a cui ogni azione o parola può essere ricondotto; in Calderón il sogno permette una frantumazione dell’io e delle tre unità aristoteliche – che porta alla conseguenza di una ontologica estraneità a se stessi, degradati a merci.
Il sogno è altresì metafora di tutte le istituzioni totali – dal manicomio al convento – che Katsantonis rimanda alle intuizioni del sociologo Erving Goffman: le gabbie nelle quali ci rinchiude il potere coercitivo di stampo capitalistico. Attraverso i successivi risvegli, Rosaura (protagonista dell’opera di Pasolini e non di quella di de la Barca) vede continuamente frustrati i propri desideri di ricomposizione platonica del proprio io integrale – attraverso il ricongiungimento con la propria metà. A impedire il dispiegamento dell’eros sarebbe l’incestuosità del rapporto che ella insegue (prima col padre e poi col figlio). Pasolini ‘scandaloso’ e ‘impudico’ non riuscì mai, egli stesso, a superare tale tabù risolvendo definitivamente il rapporto con la madre. Tanto è vero che anche in Calderón ci pare arrivi a un punto di non ritorno rispetto alla figura genitoriale del padre ma mai a quella della donna che resta invischiata nell’immagine, in qualche sorta sacrale, della madre.
Torna l’afasia della donna borghese che parla la lingua dell’omologazione. E così pure l’immagine della donna/vittima par excellence. Vittorioso è il padre/Cronos che incarna il capitalismo/consumistico al quale la novella Rosaura non può più sottrarsi – sia essa nobile o puttana, borghese o internata in un lager. E anzi, è proprio quest’ultima che forse incarna – ombra di se stessa, in un campo di concentramento che si estende da Salò al mondo che ci circonda – tutti i multiformi ruoli che la donna può tentare di ricoprire per evadere dalla propria esistenza, senza mai riuscirvi.
Se il sogno in Calderón de la Barca è mezzo per comprendere la provvisorietà del reale, la sua fragilità, la caducità della bellezza e l’importanza di preservare e proteggere affetti e relazioni, polis e Stato – a garanzia degli stessi; per Pasolini la società sarebbe “un’istituzione totalizzante” nella quale (sempre da Katsantonis) gli esseri umani sono “esposti a un processo di istituzionalizzazione”. E qui lo studioso fa un parallelo quanto mai ficcante con la situazione attuale – dal lockdown al green pass – in cui precisa che la spersonalizzazione operata dalle istituzioni totali di Goffman o dalla società consumistico-edonista di Pasolini, passa da “una serie di perdite che mortificano l’identità dell’individuo fino a cancellarla”. E più oltre descrive questo potere onnipresente e le sue divinità tecnocratiche, denunciando il loro “intento alla trasformazione antropologica di ogni individuo in un magmatico uomo-massa”.
Nessuna Armata Rossa salverà la Rosaura pasoliniana da questa novella Auschwitz, da questo “dominio disciplinare repressivo” da – aggiungeremmo, attualizzando l’immagine – ‘lasciapassare verde’ o crediti sociali. L’universo degli ‘utili idioti’ rende impossibile la rivoluzione che, generata all’interno del medesimo impianto borghese e coercitivo, non è che illusione – molto più del sogno calderoniano (ancora investito, sì, dei limiti che ogni classe impone a chi vi appartenga, ma certo dell’ordine quando garantito da alcune regole superiori).
Torna anche l’immagine del teatro/mondo ove l’uomo è però ridotto a marionetta della mise en abîme non solamente dal Narratore/Autore (come in precedenti lavori pasoliniani) ma dal suo essere parte dell’attuale apocalissi, abortita dalla fine della dialettica fra le classi, omologate nell’indistinto magma borghese.
E terminiamo con il discorso edipico sia verso il padre sia verso la madre – imprescindibile nei lavori pasoliniani. Più che in de la Barca, è in August Strindberg e nel suo Ett drömspel (comunemente tradotto con Il sogno), che si ritrovano i parallelismi con quel campo di battaglia che è, per lo scrittore svedese, il matrimonio. Per entrambi questo mondo è un inferno ma per Agnes (protagonista de Il sogno) vi è ancora la possibilità di evadere, tornando presso il padre, il dio Indra; mentre alla Rosaura pasoliniana non resta che questo inferno dal quale può fuggire solamente attraverso il sogno che è, esso stesso, forma di reclusione (e non di illusione, come in La vida es sueño). Un inferno che, come scrive Katsantonis, prevede “norme e pratiche adottate dal sistema con il fine di regolare la vita biologica degli individui nelle sue diverse fasi e nei suoi molteplici aspetti: sessualità, salute, riproduzione, e, addirittura, morte” (e qui il rimando al recente rifiuto della Corte Costituzionale di permettere un referendum sull’eutanasia appare quanto mai puntuale). Tutto è ormai preordinato e imposto da una società di san(t)i, a cui i non adattati non sentiranno di appartenere ma alla quale non potranno sfuggire, in quanto non esiste nulla all’infuori del tutto. E se per Strindberg, il dolore ha ancora il valore di possibile redenzione e la morte è una liberazione; se in de la Barca si respira la relativizzazione di gioie e sofferenze; il messaggio pasoliniano resta il più pessimista in quanto non lascia speranze neanche per il futuro.
Pasolini non crede più – a livello storicistico – nella possibilità di abbattere l’ordine costituito; non è capace di “uccidere il Padre” – in senso psicologico e poetico – convinto che, poi, diventerebbe come lui; rifiuta lo “schema repressivo della liberazione/restaurazione” che pone il suo pensiero in una dimensione anti-storicistica e non accetta, d’altronde, risposte escatologiche precostituite; e infine rifiuta la nascita del figlio in quanto “promessa di immortalità e al contempo di morte per i genitori”. L’impasse di Pasolini, uomo che non riesce a farsi padre della generazione dei sessantottini, si tramuta in quella dell’autore che abbandona Rosaura nel suo lager – ammutolita e impotente, incapace di uniformarsi ma impossibilitata a evadere – in eterno.
Se si può trovare un’unica pecca a questo volume denso di significati e ricco di spunti, è quello di non aver tradotto i passi tratti dalla Philosophie dans le boudoir – il che priva il lettore di metà del piacere, nel caso non si padroneggi il francese.
[1] https://teatro.persinsala.it/i-dialoghi-del-cuscino-jan-fabre/54671/
[2] https://www.rumorscena.com/11/11/2015/porcile-secondo-binasco-quello-che-manca-a-pasolini
SPECIALE – sabato, 5 marzo 2022
In copertina: Un particolare della copertina del libro Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo di Georgios Katsantonis. 2021, Metauro Edizioni.