Loro / gli altri
di Simona Maria Frigerio
Giro la chiave nella toppa e la porta si spalanca sul corridoio vuoto. Entro in cucina e fisso la parete della casa di fronte. Mattoni rossi si aprono su una finestra a metà socchiusa. I bagliori intermittenti mi fanno pensare a un telecomando che saltella tra colori e suoni contrastanti. Immagino l’uomo grasso con la maglietta lisa sul divano che mugugna qualcosa mentre lei ciabatta per la stanza apparecchiando la tavola. Lui si alza e spegne la televisione. Non avrei creduto che potesse farlo. Poi penso che probabilmente hanno un’altra tivù in cucina e sogghigno. Mi allontano dalla finestra e abbasso la tendina: non desidero mi si spii. Alzo lo sguardo verso il bocchettone della doccia e cerco di fissare lo spazio tra le gocce che schizzano, ma l’acqua è più veloce e il mio sguardo si perde nel rivolo di schiuma. Quando esco dal bagno coi capelli avvolti nell’asciugamano lei mi guarda dal mobile dell’entrata dove sta appendendo il giaccone.
Tolgo dalla borsa una mela che ho preso in prestito dal fruttivendolo, mi sfilo le scarpe e annodo i capelli sulla nuca, raccolgo il giornale posato sul tavolino e mi sdraio sul divano coi piedi sullo schienale. La guardo entrare in cucina e riporre la birra in frigorifero. Io preferisco berla che metterla sui capelli.
«Tutto bene in palestra, oggi?»
«Uhm…»
«A quando l’esame?»
«Uhm…»
«Interessante la conversazione stasera…»
Scoppio a ridere mentre lei torna in bagno ad asciugarsi i capelli. Le corro incontro e le cingo la vita tra le braccia e anche lei ride divertita, poi si divincola e punta il dito verso la cucina. Odio il fatto che lei non si scordi mai niente! Entro in cucina e mi guardo intorno: trasformare una serie di sostanze ben definite in un composto dotato di propria autonomia è per me un’impresa paragonabile alla trasformazione di uno zigote e una cellula-uovo in un essere umano: altrettanto improbabile, altamente tossica, possibilmente evitabile: «Non potremmo andare al ristorante cinese?»
«Diventerai un maialino in agrodolce se vai avanti così!», mi urla dal bagno. «E poi» riprende con calma, appoggiata al battente socchiuso: «Perché quando è il mio turno, io cucino, e quando è il tuo, andiamo fuori a cena?»
La sua logica mi fa rabbrividire. Sollevo le spalle e sorrido di proposito. Mi assale l’idea che forse un pezzetto di buccia sia rimasto incastrato tra i denti. Chiudo la bocca e annuisco colpevole, ma dentro di me non riesco a distogliere il pensiero dal pezzetto di mela.
«Lavati i denti e andiamo. Ci rinuncio», lei esce dal bagno e si lascia la porta aperta dietro le spalle. «Per i capelli, è meglio se te li lavi al ritorno. Con tutti quei fritti… forse dovrò replicare anch’io»: la sua logica è sempre impeccabile. Non so perché ma mi viene in mente che forse stasera non riuscirò a salvare neanche un goccio di birra…
*°*°*
La osservo mentre assaggia il pollo alle mandorle e ne valuta la cottura con aria critica. Allontana una ciocca dalla fronte, preoccupata dal calore che le appiccica la pelle. Di sottecchi la vedo squadrarmi con disapprovazione, mentre io la contemplo come una madonna e non riesco a saziarmi del suo ovale pallido tagliato perpendicolarmente da lunghe ciglia nere. Sento che sarei felice se solo potessi rimanere qui a fissarla, per ore, con la guancia appoggiata al pugno, mentre lei sorseggia tè caldo… Mi scuoto: “La birra cinese: salvata in corner!”, penso tra me e me, sorridendo alla cameriera i miei denti freschi di spazzolino.
Mi domando perché sia voluta venire a mangiare cinese quando odia la cucina cinese… A dirla giusta: lei odia la cucina! Pensa che se Dio ha creato la mela è perché l’uomo mangi la mela… paragone poco azzeccato. Mi volto verso la strada: fuori dalla vetrina i passanti si nascondono sotto ombrelli di fortuna – cappelli calcati sulla fronte, giornali, una borsetta. Uno scroscio di pioggia di fine estate: imprevista, un po’ triste. Tra una settimana partiremo per le vacanze, penso incredula. Sembra così vicino, eppure lontanissimo. Mi stringo nelle spalle e mi lascio avvolgere da una strana malinconia. Lei sorride e mi prende la mano. Ma non so perché. «Ha telefonato tua madre oggi».
«Che voleva?», sbuffa annoiata.
«Sapere come stai, se hai trovato un ragazzo…: le solite cose».
«E tu che le hai detto?»
Mi crogiolo nel mio silenzio. «Potrebbe anche succedere…»: la guardo dolente.
«Perché non la smetti di dire sciocchezze? L’aria da Anna Karenina non ti si addice…».
Scoppio a ridere e scuoto il capo. Con lei non riesco a trattenermi. Anche lei ride e intanto ha smesso di piovere:
«Andiamo a casa, dai, domani è solo giovedì».
*°*°*
Mentre parlo con la segretaria del dipartimento mi rendo conto che qualcosa non va. Uno sfasamento temporale le fa ripetere: «No, non è possibile, lei dovrebbe…», ma io le ho già detto che non posso frequentare perché lavoro e lei si ostina a ripetere: «Ma lei dovrebbe», come se non sentisse, come se stesse rispondendo alla mia prima domanda senza avere ancora ascoltato la risposta, come se addirittura stesse parlando con quella entrata prima di me. Il suo cervello corre più lentamente delle mie parole, mi domando, o sono le parole di lei a scorrere più veloci dei suoi pensieri? Alla fine mi arrendo: forse è quello che voleva… Faccio spallucce ed esco dalla segreteria, corro giù per le scale e lascio l’università. Ogni volta che mi allontano da quel palazzo provo un’enorme sensazione di sollievo, mi sento più leggera di dieci chili: “magari…”. Mi dirigo a passo veloce verso il banchetto della frutta stazionato nel parcheggio, colgo una mela dalla cassetta e lancio una moneta. L’ambulante sorride, come sempre, e fa un cenno col capo. Anch’io lo saluto, con la mela in mano. Ancora non ho capito se mi conviene di più fare così, o sarebbe meglio che mi facessi pesare la mela e pagassi il dovuto. Dato che il fruttivendolo sorride, mi sorge il dubbio.
In Porta Romana la vedo: è così attraente, pare fatta apposta perché l’occhio non riesca a smettere di fissarla e sembra dire: «È te che aspetto!» Non è la pubblicità del reggiseno, è una pasticceria con le vetrine imbandite di torte, vassoi di cioccolatini assortiti, pasticcini mignon e paste alla siciliana, cesti di canditi multicolori e caramelle infiocchettate in carta dorata, e ancora bambolotti di pasta di zucchero e cascate di frutta caramellata. E io mi blocco di fronte alla vetrina e guardo la mia mela e poi ancora la vetrina, e fisso la mela e… entro in pasticceria. La commessa mi si avvicina con bocca da dentista: lei non mangia quella roba, penso. Le sorrido anch’io e iniziamo a scegliere. Mi faccio spiegare il contenuto di un paio di torte: una, alla pasta di mandorle, mi attira con le sue onde delicate innevate di cacao. Ma il pensiero del miscuglio che mi sta descrivendo la commessa, credendo di allettarmi, mi disgusta. Faccio un giro su me stessa e mi allontano a passi veloci e finalmente, quando pensavo che non l’avrei mai trovata, la vedo: una sottile striscia di pasta frolla, un’ostia di crema chantilly e cubetti di frutta di stagione: un puzzle di colori ecstasy che sanno poco di frutta ma attraggono l’occhio. Ho scelto. La commessa che stava già per darmi della rompiscatole, mi sorride felice e si complimenta per l’ottima scelta, come farebbe l’infermiera col padre del nascituro. Pago, ringrazio, infilo il dito nel fiocco ed esco in strada felice. Il sole riscalda senza più soffocare. Una leggera brezza da nord invade il corso. Ho deciso: stasera cucinerò io e lo farò davvero, mi riprometto da brava. Penso al suo volto ovale circondato dalle pesanti ciocche castane e a quella luce che, a volte, al tramonto, le illumina i capelli scaldandoli… e credo che sarà bello vederla addentare la torta colorata e sorridere golosa, meno seria, meno triste, come una bambina.
*°*°*
Cammino tra i palazzi che affondano nel celeste e il cielo sembra troppo lontano. I tetti si toccano in punta di dita con la delicatezza di un minuetto. Io mi stringo nella giacca di cotone e affondo le mani nelle tasche. Tra due giorni saremo di nuovo a Edimburgo. Sfioro il marciapiede leggera e sorrido tra me. «Prendi il pane prima di salire, me lo sono scordata!»: lei sporge il capo dalla finestra della cucina e mi fa grandi cenni con le braccia. Annuisco e torno sui miei passi. Strano non finire dal cinese anche stasera… a meno che non pensi a un paio di panini.
«Due francesini e un filoncino, per favore». Il dubbio mi assale, meglio abbondare: «Faccia tre». La fornaia bofonchia qualcosa contro quelli che non si decidono mai. Poi, mentre afferra le banconote e se le infila in tasca, diventa amichevole: «E sua sorella come sta?»
«Scusi?»
«La ragazza coi capelli rossi sempre in tuta. Non è sua sorella?» E mi squadra mentre, con la mano destra, rigira i soldi nella tasca del grembiule.
«No. Chi le ha detto che è mia sorella?»: non posso credere che lei abbia messo in giro quella voce.
«Ma… la gente. Sa, vi vediamo sempre insieme…».
Afferro il sacchetto di carta e chiedo, con aria noncurante: «E lo scontrino?»
La fornaia si affretta a dirmi che stava proprio per farmelo: «Cielo, non si possono nemmeno scambiare due chiacchiere!» e batte i tasti con aria inferocita.
«Grazie» e faccio per voltarmi.
«Dovrebbe cercarsi un fidanzato» mormora sottovoce, pensando che non la senta o che, anche se la sentissi, non risponderei. Ma oggi qualcosa mi spinge a fare la cosa sbagliata, quella evitabile se non si vogliono guai e, proprio come il bambino che smette di mentire per affermare se stesso, almeno in un’occasione, anch’io mi volto e con aria innocente affermo: «Il fidanzato ce l’ho già, signora» e, mentre quella mi guarda a bocca aperta perché ho rotto i meccanismi del vivere civile, non mi trattengo, sciupando forse la vittoria momentanea: «è la ragazza dai capelli rossi», ed esco dalla panetteria con passo tranquillo. In strada mi guardo intorno. Per un attimo mi sembra che tutti sappiano. Sento le guance scottare, probabilmente sono rossa. Il pensiero di essere arrossita davanti alla fornaia mi mortifica. Ma poi, d’un tratto, mentre alzo lo sguardo verso il cielo che si va imbrunendo e inspiro aria fresca di pioggia, provo un’indicibile soddisfazione. Mi sento finalmente sollevata: adesso sto proprio bene “e forse potrei anche scendere a un compromesso e cucinare io: mi è venuto un appetito come se avessi corso la maratona…”. Quando apro la porta, però, resto sbalordita: dalla cucina proviene un buon odore di cibo caldo (e questo è più di quanto potessi aspettarmi), la tavola è apparecchiata con cura, un Traminer riposa nel portabottiglie, nella stanza si diffonde Mahler e sul tavolino, accanto al telefono, una confezione di pasticceria mi ammicca invitante: “Forse sono in paradiso… non svegliatemi, per favore, oggi me lo sono meritata!”
*°*°*
Mi guardo intorno e mi chiedo come abbiano fatto a convincermi: “Va bene lettere antiche… ma almeno un po’ d’inglese…” e ho ceduto. Adesso mi ritrovo in questo sputo sperduto tra la pioggia e i campi aperti, in una palazzina a un piano dipinta di bianco senza riscaldamento, in uno stanzone soffocante di studenti imbacuccati che parlano tutte le lingue di Babele, ma nessuno l’inglese. Affondo nella sciarpa e mi abbandono alla malinconia; di sottecchi cerco un banco, magari in fondo, dove nascondere la solitudine, ma la marea di cappotti parlanti mi spinge verso una finestra accanto alla cattedra e io mi perdo guardando i prati di intenso smeraldo e il cielo grigio che stende pesanti ombre sulla terra tumida. Sento gli occhi annacquarsi, quando la vedo entrare. Portava i capelli scalati, allora alla moda, e solo pantaloni di velluto a coste. Con un filo di voce, fermo, deciso, musicale, chiede silenzio e la stanza ammutolisce. Resto incantata dal suo controllo. Penso che non avrà mai bisogno di alzare la voce e che non vorrei mai che lo facesse con me. Mi guardo intorno: un’altra sessione, altri studenti, le solite domande, accenti disparati e stridenti. Vorrei chiudere gli occhi e cancellare questi volti, volti altri, ma mi arrendo e mi sforzo di credere che con loro sarà diverso, che scoprirò finalmente qualcosa sotto sciarpe e maglioni pesanti.
*°*°*
Percorro in bicicletta l’ultimo tratto di strada che mi separa da Cambridge. Alla mia destra prati verdi prima dei capannoni che si distinguono in lontananza, avvicinandosi alla città. L’asfalto comincia a imbiancarsi di ghiaccio e, tra qualche giorno, so che non potrò più muovermi in bici. Affondo ancora di più le orecchie nel bavero del cappotto. Ho deciso io di uscire e trascorrere questo pomeriggio di sabato in giro per negozi, ma d’improvviso mi pento: fa freddo e mi sento sola, persa in questo cielo cangiante che mi sovrasta come una cupola invalicabile. Eppure, a ovest, mentre il sole tramonta, nel silenzio della campagna, rotto solo a brevi tratti da qualche auto di passaggio, provo per istanti fuggevoli una sensazione di pienezza e indipendenza, come se appartenere a me stessa mi bastasse. Perché si muore soli e quindi è soli che si vive: ognuno con le proprie esperienze. Mondi a parte.
Parcheggio la bici appoggiandola al muro e blocco i pedali con la catena: non saremo in Italia, però… Entro nel tea-shop facendo suonare una vecchia campana di ottone e la prima sensazione è quella di un piacevole, caldo torpore. A occhi chiusi le mie narici rinvengono, sollecitate dagli aromi di vaniglia… rosa canina… arancia… pesca… mentre, aprendoli, resto incantata di fronte ai grandi barattoli di latta posizionati a diversi livelli, su ampi scaffali, su un bancone largo cosparso di trucioli colorati, in vetrinette angolari di noce con tendine di pizzo bianco che li lasciano intravedere. L’aria è satura di aromi e mi fa quasi girare la testa. Mi allontano la sciarpa dal collo e apro un paio di bottoni del cappotto. Lentamente, come il prete di fronte all’altare, mi ritrovo a mescere tè nei barattoli per inalare più a fondo il retrogusto dolciastro della vaniglia o quello pungente della rosa canina e mi scopro ad apprezzare questa terra, che non conosco eppure sa essere accogliente, a volte, e intensa, di colori e profumi, come Taormina in fiore…
*°*°*
Accendo il registratore e scelgo una vecchia cassetta di Duke Ellington, mi appoggio con la schiena al divano imbottito e spero proprio che non m’interrompano. Devo correggere ventuno noiosissimi tentativi di racconto. Sfoglio le pagine brontolando ai primi errori, sbuffo insoddisfazione per le frasi interminabili: gli italiani non capiranno mai che l’inglese è una lingua essenziale – soggetto, verbo e complemento oggetto. Traduzioni baroccheggianti di pensieri in un’altra lingua: sospiro sconforto. Scuoto il capo all’idea che, oltre tutto, soffro tanto per una lingua che non è nemmeno la mia. Io sono scozzese, cosa ci faccio con in mano quaderni di italiani spagnoli giapponesi che si sforzano di scrivere in inglese? Quando sto quasi per arrendermi e alzarmi per andare a prendere una tazza di tè, mi ritrovo in mano il suo racconto, quello della ragazza dai capelli rossi e le guance di pesca. Mi accomodo meglio sui cuscini e comincio a leggere. Mi piace quello che leggo: è scorrevole, veloce, ma anche interessante. Un racconto su una casa, dentro la quale, di stanza in stanza, si scoprono oggetti legati a fatti e persone e i fatti e le persone costruiscono una trama che conduce, come un filo di Arianna, all’ultima camera, all’oggetto impensato, al ricordo sbiadito di un finale che non è che un ulteriore tassello e poi nulla. Come un’esperienza bella che non lascia strascichi, una strada sbagliata che si ripercorre senza perdere l’appuntamento, un tentativo a vuoto che sarebbe anche potuto andare bene. Sorrido contenta. Guardo fuori dalla finestra e mi accorgo che è quasi buio. Devo parlare con la ragazza dai capelli rossi, dirle di continuare a scrivere. Mi scopro a stringere quel quaderno tra le braccia e a dondolare il corpo sulle ginocchia incrociate in uno stato di incantata immobilità.
«Perché non accendi la luce? Non si vede niente!». Mi volto: Ann è appena tornata dal lavoro. Fra meno di un minuto sentirò la doccia scrosciare in bagno, il frigorifero aprirsi e richiudersi, due o tre chiacchiere sulle banalità quotidiane e poi, tra morsi di pane e formaggio, la vedrò uscire coi capelli ancora umidi per qualche appuntamento dell’ultimo minuto: una riunione a scuola, un cinema con qualche amica, il suo nuovo ragazzo, chiunque sia in questo momento, e: «Buonanotte. Mi raccomando: fai la brava», ovvero: “Cercati un ragazzo”. La guardo uscire di corsa incespicando sui gradini sdrucciolevoli. È ricominciato a piovere, considero: l’ultima volta che ho guardato dalla finestra il sole stava tramontando sereno in un cielo cobalto. Scuoto il capo sorridendo: le variazioni climatiche qui sono la norma… ricordo un cielo di Creta sempre azzurro per trenta giorni di fila e mi domando come sia stato possibile sopportarlo. Poi, mentre rientro, vedo la ragazza dai capelli rossi camminare sotto i cornicioni cercando di mantenere in equilibrio la bicicletta con una mano e, contemporaneamente, reggendo una grossa busta di carta, in pericolo di inzuppamento, con l’altra: «Vuoi entrare a ripararti un po’?». Ho parlato senza pensarci. Lei alza il volto e forse stenta a capire da dove provenga la voce. Quando mi riconosce scuote il capo con fretta eccessiva, quasi imbarazzata: «No, grazie, è meglio che mi sbrighi se non voglio pedalare al buio». Monta in sella e si allontana velocemente. Chiudo la porta provando uno strano senso di vuoto, forse avrei dovuto trattenerla, almeno un attimo…
“Perché sono scappata via come una ladra?”, mi rimprovero mentre la pioggia mi schizza i pantaloni e gli occhiali si appannano. La strada è diventata particolarmente scivolosa: avrei fatto maglio ad accettare. Se solamente avessi dato retta al buon senso…, ma era lei a invitarmi e, non so perché, qualcosa mi spinge a fuggirla. Eppure farei di tutto per poterla toccare, una sola volta: sfiorarle la guancia con la mano e accarezzarle i capelli e il collo e, mentre penso a lei, a quanto sarebbe dolce prenderla fra le braccia, arrivo a casa senza accorgermene e solo quando guardo i manici del sacchetto di carta che ancora mi pendono dal polso mi rendo conto che il tè è volato via, il sacchetto di carta si è sciolto in una poltiglia verde/arancio e io sospiro cercando di mandare indietro le lacrime ma non so perché sto piangendo, non lo so davvero.
*°*°*
«Oggi pomeriggio vieni anche tu al cinema?»
«A vedere cosa?»
«The colour purple»: Federica affetta una pronuncia perfetta. Secondo me, si è preparata un’ora per riuscire a dirlo.
«Può darsi.»
«Viene anche Jane», fa scivolare a caso.
«E allora?», mi volto affettando noncuranza ma ho già deciso, a chi voglio darla a bere?
«Niente, era solo per dire», mi volta le spalle e se ne va.
Torno alle mie cuffie e al registratore, ma la testa è altrove. Spengo e appoggio il mento alla mano: il cielo è tornato sereno, solo ogni tanto una nuvola di passaggio imbianca l’angolo della finestra. Mi preparo in tutta fretta ed esco.
Quando arrivo di fronte al cinema, mi guardo intorno: gli studenti sono sempre in ritardo, scuoto il capo con disappunto ma poi la vedo. Sta tentando di rovinarsi un piede, infilando la punta della scarpa in una mattonella di porfido mentre si stringe nel cappotto troppo leggero. Sono contenta che sia venuta.
Alzo lo sguardo mentre si avvicina. Mi fa un effetto strano vederla qui, in mezzo alla strada: lontano da scuola sembra un’altra, una ragazza normale, avvicinabile quasi. “Ma che diavolo mi sta succedendo?”, ho il tempo di domandarmi prima che mi raggiunga. “E adesso che faccio? Che le dico?”. Affondo ancora di più le mani nelle tasche e mi ciondolo osservando la punta della scarpa infangata. D’un tratto mi sento buffa, mi raddrizzo e la guardo negli occhi: «Cosa ascolti?», accenno alle cuffiette del walkman.
«Cure, li conosci?»
«Pornography?». Sembra una conversazione in gergo e sembra così facile parlarle… Arrivano anche gli altri: posso vederli con la coda dell’occhio dietro le sue spalle. Per un attimo ho sperato… mi do della stupida e faccio un cenno della mano per attirare la loro attenzione.
“Perché l’avrà fatto?”. Mi volto verso gli studenti e fingo indifferenza: il messaggio è chiaro.
Siamo capitate una accanto all’altra. Al buio posso sfiorare la sua mano senza farmi accorgere. Sento il suo profumo di sandalo e il leggero pizzicare della lana dell’onnipresente maglione rosso. Guardo lo schermo ma non riesco a concentrarmi sulle immagini. Nessuno sa ciò che provo e questo mi rassicura: posso godermi il suo calore e la sua vicinanza per un’ora, forse due, un tempo interminabile che mi sembra non potrò dimenticare mai.
*°*°*
Mi sveglio per i geloni. Ho fatto un sogno: lei mi teneva fra le braccia e mi baciava. Sono consapevole, come non mi era mai capitato, di cosa provo. Il desiderio è palpabile e doloroso. E non posso dirglielo, non posso dirlo a nessuno. Eppure non riesco a negarlo. Ho sempre intuito che fosse possibile, ma non ho mai avuto la coscienza di avere fatto una scelta: io non ho scelto, mi sono semplicemente innamorata di lei.
*°*°*
«E tu quando parti?»
«Domenica», valuto la domanda in silenzio.
«Allora vieni alla festa domani sera?» Federica, sulla porta, sgrana perline d’informazione con una flemma da lady annoiata.
«Quale festa?»
«Quella a casa di Jane e Ann»: mi guarda affettando sorpresa, o è sincera?
«Non ne sapevo nulla», rispondo sentendomi offesa, ma fingo disinteresse.
Federica sorride e forse è davvero sincera: «È una cosa talmente risaputa da tutti che probabilmente pensavano ti avesse avvertito qualcun altro».
“Ha senso quello che ha detto?”: sorvolo sulla retorica e le volto le spalle. Sto quasi per chiudere la porta, ma Federica mi blocca, posandomi una mano sulla spalla: «Allora vieni?». Ma che c’entra lei? Perché le importa tanto? Sento l’impulso di negarmi, vorrei dirle che ho altro da fare, magari passare la serata a casa con la landlady – che è stata così gentile con me. La mia autocommiserazione si allarga come un pozzo nero nel quale affondo con disgusto. Indugio immaginandomi a mangiare l’ultima fetta di torta di mele sul divano, di fronte alla televisione, mentre la vecchia signora mi chiede se voglio ancora una tazza di tè e mi spiega i passaggi che mi sfuggono dello sceneggiato, una specie di Dallas all’inglese senza petrolieri ma con i soliti figli illegittimi eccetera eccetera. Sono a un passo dal cedere e fare la cosa giusta. Ma poi, sorprendondo me stessa, scuoto il capo e bofonchio: «Passi a prendermi tu?». In fondo me ne sto andando, cos’ho da perdere? Tra meno di una settimana sarò di nuovo a Milano, tra le vecchie mura ammuffite dell’università e i libri in greco antico: così rassicuranti nella loro lontananza dal qui e ora.
«Alle otto», puntualizza Federica e sorride soddisfatta come se avesse portato a termine una missione, mentre si allontana calandosi il cappello sulle orecchie e strofinandosi le dita nei guanti. Mi chiedo il perché di tanta baldanza. Mi stringo nelle spalle e chiudo la porta. “Non mi ero ripromessa di smetterla di compiacermi della mia solitudine tapina?”, mi rimprovero e intanto mi assale un’improvvisa eccitazione che non so spiegarmi e mi mette il pepe nelle gambe e una gran voglia di frugare nell’armadio in cerca di qualcosa di carino da indossare. Mi sento sciocca. Forse lo sono. Torna a folate la paura. Mi chiedo cosa spero che accada. Una vocina che conosco bene mi dice di non contarci, meglio lasciar perdere e passare la serata al sicuro con la torta di mele e lo sceneggiato. Eppure no, non posso rinunciare proprio adesso. Anche se non accadrà niente e io ne rimarrò delusa. La ragione mi suggerisce di vivermi l’esperienza per quella che è: un’ultima goliardica serata horror di fine corso. Studenti tartine liquori e forse un po’ d’erba, e i soliti baci e abbracci e ci sentiamo e keep in touch ed eccetera eccetera. “Sì, andrà proprio così”, mi arrendo. Ma dentro di me non riesco a non essere eccitata mentre le dita scivolano veloci lungo le stoffe, tra i colori dei rimmel e, d’un tratto, quando le dita sfiorano l’immagine di me riflessa nello specchio, le mie labbra, autonome, irresistibilmente attratte, sfiorano quell’immagine lasciando tracce di fiato e lucidalabbra sul vetro impolverato.
*°*°*
La osservo mentre esce dalla porta e va a sedersi sui gradini con lo sguardo perso tra i passanti e il marciapiede. Una sottile pioggia solleva nuvole di calore dai tombini. I ritardatari scacciati dai pub corrono verso l’ultima Pizza Land ancora aperta nella zona. Tra due settimane sarà Natale. Sta per partire. Lei e gli altri. Frammenti di pensieri si accavallano confusamente, apparentemente slegati fra loro. Solamente di lei m’importa: ne sono consapevole, e anche un po’ spaventata. Esco anch’io, chiudendo la porta sul frastuono del registratore e le risate senza accento. La seguo e mi siedo alle sue spalle sulla scala di pietra umida. Un brivido mi corre lungo la spina dorsale e io mi stringo nel leggero girocollo rosso. Si sta slabbrando, rifletto sovrappensiero. Poi alzo lo sguardo e mi rammento dove sono. M’incanto sulla sottile V che disegna l’attaccatura dei suoi capelli sulla nuca scoperta. Vorrei allungare il dito e sfiorare quella pelle, ma mi trattengo. Mi guardo intorno imbarazzata: «Che ci fai qui fuori, con questo freddo?», “Sembro mia madre e ho solo ventotto anni!”. Fingo indifferenza, ma non sono sicura di essere stata io a parlare.
Mi ha colta di sorpresa. Forse desideravo che lei mi seguisse, ma non credevo che l’avrebbe fatto, non davvero. Affondo le mani nelle tasche perché non so che dire. Dovrei semplicemente rispondere. «Sono solo un po’ triste. Parto» e faccio spallucce.
«Ma tornerai», mi consolo fingendo di consolare lei.
«Forse…». Avrei voglia di voltarmi ma temo mi si rompa la voce.
Vorrei guardarla in viso, ma forse non vuole compagnia. Mi rimprovero l’imprudenza e sto per allontanarmi ma le gambe scivolano di un gradino e la mia anca sfiora la sua. Il corpo agisce di sua volontà e io sorrido imbarazzata.
Mi ha toccata. Sento i suoi pantaloni di velluto sfiorarmi la calzamaglia. Mi volto appena.
La prendo fra le braccia e la coccolo come una bimba, ma non è una bimba. Non fraintenderà, spero. Mi confondo.
Sembra incredibile ma non sento nulla, come quando si dà l’ultimo esame all’università o si legge l’ultima riga della Recherche o si arriva al traguardo dopo una maratona: si pensava di essere felici e invece ci si sente vuoti, le energie ci abbandonano e non rimane più nulla da desiderare, nulla è rimasto al di fuori di sé e di una tranquillità asciutta e dolorosa. Forse la felicità sta nell’attesa, l’appagamento non è umano. Mi volto verso di lei, dovrei ringraziarla per questo suo gesto d’affetto. La mia guancia sfiora involontariamente le sue labbra.
Non vorrei che pensasse che l’ho baciata. Forse non ha capito. Mi illudo per una frazione di secondo che non sia successo, poi le mie labbra cercano le sue. “E se mi respingesse?”, il pensiero mi squarcia la mente mentre il torpore appesantisce le labbra. Avverto il suo fiato caldo che sa di caramello.
L’aroma di whiskey e caffè mi penetra le narici con l’intensità dolce dei suoi racconti di Edimburgo e io stento a crederci, ma è vero. Mentre ci baciamo sotto le ultime gocce di pioggia appese al cornicione, sento in sottofondo rumore di voci e piatti e un motivo che non riesco a ricordare e la mia mente è straordinariamente lucida e lontana mentre scruta affascinata le mani che le circondano le spalle e le labbra che corrono umide lungo le guance e il collo infreddoliti.
Mi scopro a tremare, ma le sue mani sono calde e il suo seno è morbido e accogliente e nei suoi occhi, in quell’attimo di quiete, mi specchio, finalmente tranquilla.
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
Venerdì, 29 aprile 2022
In copertina: Cambridge, foto di Summer Kwak da Pixabay.