Le domande fioccano e le certezze latitano: chi sa rispondere?
di Simona Maria Frigerio
Ci abbiamo provato. Abbiamo contattato medici, virologie e immunologi per avere, a oltre un anno dallo scoppio della pandemia, alcune risposte finalmente chiare su questioni come la scelta del Piemonte di usare l’idrossiclorochina; le divergenze di opinioni tra il Governo norvegese e l’Ema riguardo alle possibili connessioni tra vaccino AstraZeneca e trombosi; le varianti del Covid-19 e la loro pericolosità o meno; ma anche il costo dei vaccini e la loro penuria nei Paesi più poveri a fronte dei miliardi di dosi opzionate in Occidente; o i finanziamenti dell’Ema da parte delle aziende farmaceutiche.
Abbiamo chiesto, ma nessuno ha voluto rispondere. Forse perché non siamo la televisione, che può offrire un salotto nel quale accomodarsi per dissertare. Forse perché le domande erano un po’ troppo precise e non era facile edulcorarle. Forse perché in gioco non c’è solamente la salute fisica, ma anche psicologica e la sicurezza economica dell’intero pianeta – fattori forse meno considerati, nell’agitazione parossistica del momento, eppure basilari per una società fondata sul rispetto dei diritti dei cittadini, quali la libertà di scelta terapeutica e il consenso informato.
Ecco perché abbiamo deciso di fare le nostre domande pubblicamente, sperando che medici, virologi e immunologi ci scrivano, in redazione, per darci risposte che, nel caso, pubblicheremo prontamente.
Dopo che il Consiglio di Stato ha consentito la prescrizione, sotto responsabilità e dietro controllo del medico, il Piemonte ha introdotto l’utilizzo dell’idrossiclorochina nella fase precoce della malattia da Covid-19, insieme a farmaci antinfiammatori non steroidei e a vitamina D. Inoltre, la Regione ha deciso di puntare sulla medicina territoriale – di cui molto si è discusso ma poco si è fatto nell’ultimo anno. Qualcuno può spiegarci questa serie di scelte – mediche ma anche logistiche – forse unica in Italia?
Si parla molto di varianti. All’inizio dell’epidemia sembravano escluse: quando alcuni virologi ventilavano che, come l’influenza A, anche il Covid-19 si sarebbe potuto modificare e forse avrebbe perso virulenza, altri escludevano la possibilità di modifiche. Poi le varianti sono diventate un dato di fatto e, a metà febbraio, il professor Roberto Burioni affermava: “La nuova moda è ‘terrorizzare con la variante’” e aggiungeva: “Vorrei farvi notare che varianti virali emergono continuamente e, fino a prova contraria, non rappresentano un pericolo”. E ancora: non ci sarebbero elementi per credere “che quelle già individuate sfuggano ai vaccini più potenti. Non è detto che una variante resistente al vaccino possa comparire, pensate solo al morbillo che replica il suo genoma introducendo più mutazioni del Coronavirus e contro il quale il vaccino (anni 60) è ancora efficace come il primo giorno”. A cosa deve credere un comune cittadino?
Nonostante non sia trascorso un tempo adeguato, tutti azzardano previsioni sulla durata dell’immunizzazione di chi ha contratto il virus ed è guarito – prima non erano immunizzati, poi lo sarebbero stati per tre mesi, adesso si è arrivati a sei. Nature, a proposito, ha appena pubblicato uno studio cinese che proverebbe che nel caso il sistema immunitario produca anticorpi, gli stessi durerebbero almeno nove mesi dopo l’infezione – data limite dello studio. Come si può essere certi senza far passare un tempo adeguato e fare esami per accertare la presenza degli anticorpi? Allo stesso modo, si è passati dall’idea di due inoculazioni di vaccino a tre, con la terza a distanza di sei mesi. Perché continuare a comprare vaccini ormai obsoleti, quando ne esistono di nuovi, efficaci con una sola dose?
Si discute molto di anticorpi monoclonali dopo che l’ex Presidente Trump è stato curato proprio con il cocktail dei due anticorpi monoclonali di Regeneron. Come sta andando la ricerca italiana nel campo, che pareva ben avviata già un anno fa?
Il Fatto Quotidiano ha titolato: “Ai ricchi il 52% di dosi. E ai Paesi più poveri tocca pagare anche di più: l’Ue spende due dollari [a] fiala, l’Uganda 17”. Anche l’Italia ha opzionato oltre 200 milioni di dosi nonostante gli abitanti dei Paesi più ricchi, rispetto alla popolazione globale, siano una minoranza (il 16% contro l’84%). Che senso ha vaccinare persone giovani e sane in Occidente e lasciare senza immunizzazione gli anziani, gli operatori sanitari e le categorie a rischio nei Paesi più poveri?
Il Presidente dell’Aifa (ora anche membro del CTS), Giorgio Palù, ai primi di marzo, ha ribadito che lo Sputnik V funziona e non ha effetti collaterali. Le domande che sorgono sono due. L’Aifa non potrebbe approvarlo per l’Italia, indipendentemente dalle decisioni dell’Ema? E la seconda, perché in Europa ci si oppone a questo vaccino: ragioni politiche o ragioni mediche? Tenendo anche conto che la Russia si è resa disponibile a far produrre il vaccino negli Stati dove sarà distribuito, riducendo quindi anche i costi a dose.
Secondo un articolo di Nicoletta Dentico (al quale rimandiamo per completezza: https://www.repubblica.it/solidarieta/equo-e-solidale/2021/01/25/news/disuguaglianze-284103926/) che si rifà a quanto “documentato da Bloomberg e Kaiser Health News, l’università [di Oxford, che ‘visto il robusto finanziamento pubblico ricevuto per il suo progetto di ricerca (finanziato tutto dai governi), aveva opzionato l’idea di una piattaforma di accesso al suo vaccino aperta, così da rendere liberamente disponibile la conoscenza scientifica per eventuali produttori nel mondo’], sarebbe stata messa alle strette da [Bill Gates], preoccupato evidentemente da un precedente di questa natura, e indotta ad abbandonare la strategia di apertura a vantaggio di una licenza esclusiva per la produzione in scala del vaccino controllata da AstraZeneca, facilitata dalla alleanza fra l’azienda e la Fondazione Gates, che ha fornito infine l’impianto dell’iniziativa Access to Covid-19 Tools (ACT) Accelerator lanciata ad aprile dalla comunità internazionale come unica rotta di collaborazione multilaterale per velocizzare sviluppo, produzione e accesso dei nuovi rimedi anti-Covid”. La notizia sembrerebbe indicare che la filantropia ha fini economici e che gli Stati finiscono per finanziare la ricerca più a favore degli interessi dei privati che non della propria popolazione. Esistono alternative?
Secondo un articolo di Avvenire.it del 12 marzo: “India e Sudafrica, nell’ambito delle discussioni del Consiglio per il Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (Trips), tenutosi a Ginevra, hanno avanzato un’iniziativa, sostenuto da oltre 100 Paesi in via di sviluppo, per una sospensione temporanea dei brevetti, iniziativa però già bloccata. A non accogliere la proposta, secondo indiscrezioni, una serie di Paesi «ad alto reddito più il Brasile». Secondo questi Paesi, i brevetti sarebbero importanti incentivi all’innovazione”. Ma se la ricerca è finanziata dallo Stato, com’è accaduto per molti vaccini, che senso ha parlare di innovazione come se fosse figlia della competizione?
Nel nostro Paese vige il ‘consenso informato’ in campo medico. Ossia la legge prevede che l’autorizzazione espressa da un paziente in merito a un qualunque trattamento sanitario debba essere preceduta dalle necessarie informazioni da parte del personale sanitario. Ora, quanto è rispettato questo paradigma nel momento che non si fa chiarezza sugli effetti collaterali di un vaccino e non si lascia libera scelta al paziente su quale vaccino utilizzare?
Science Norway il 22 marzo (https://sciencenorway.no/covid19-vaccines/this-is-why-norway-is-still-saying-no-to-the-astrazeneca-vaccine/1832874) scriveva: “Norwegian experts are confident that the rare blood clot condition is a side effect of the AstraZeneca vaccine” (gli esperti norvegesi sono sicuri che i rari casi di trombosi siano un effetto collaterale del vaccino AstraZeneca, t.d.g.). Anche uno studio tedesco dell’ospedale universitario di Greifswald, in Germania, aveva confermato tale ipotesi. L’Italia e l’Ema per settimane hanno dichiarato una mancanza di correlazione e, poi, hanno liquidato l’effetto collaterale con la frase: “i benefici sono superiori ai rischi”. Dopodiché, AZ cambia nome e diventa Vaxzevria modificando il bugiardino che conferma, in rari casi, la trombosi tra gli effetti collaterali – e tale vaccino viene sospeso per persone sotto una certa età, o per tutti, in sempre più Paesi europei (dall’Olanda alla Germania fino alla Francia e alla Norvegia). L’Italia invece continua imperterrita con il suo uso. Poi cambia idea – sulla scia dell’Ema che lascia libero ogni Stato di comportarsi come crede – e consiglia la somministrazione ai soli over 60 (come se il cittadino avesse più scelte quando si iscrive alle liste vaccinali). Le perplessità sono molte. Se si tratta di persone giovani e sane è davvero meglio rischiare una trombosi che non un’influenza – domanda che è risuonata per oltre un mese prima delle ultime decisioni? Se non si fossero opzionati vaccini a iosa persino prima della loro messa in produzione, ci ritroveremmo a dover per forza utilizzarli? Non sarebbe bastato opzionare un minimo di dosi per le persone a rischio e più anziane, producendo in proprio o acquistando via via i vaccini più efficaci per il resto della popolazione?
Ulteriori dubbi sorgono leggendo l’Atto n. 4-03855, pubblicato il 16 luglio 2020, relativo alla seduta n. 241 (http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=18&id=1160813), firmato da Lannutti, Croatti, Presutto, Ferrara, Montevecchi, Pesco, Trentacoste e indirizzato ai Ministri della salute e dello sviluppo economico e che nelle premesse puntualizza che: “‘Big Pharma’ è il termine usato per indicare il cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, tra cui figurano anche aziende italiane. Cartello che esercita pressioni sulla politica nazionale e internazionale grazie a potentissime lobby; come si legge sul libro, appena uscito, dal titolo ‘Protocollo contagio’ (autore il giornalista Franco Fracassi): «La maggior parte del bilancio dell’Ema (l’Agenzia europea del farmaco) è coperto dai contributi versati dalle case farmaceutiche per l’esame delle richieste d’autorizzazione al commercio dei nuovi medicinali [come precisa la stessa EMA: https://www.ema.europa.eu/en/about-us/how-we-work/governance-documents/funding, n.d.g.]. Il suo bilancio finanziario dipende per l’ottantatré per cento dal versamento dei contributi di Big Pharma. È una lobby così potente da avere la possibilità di scegliere uno dei due relatori incaricati di valutare la richiesta di approvazione di un nuovo farmaco. E perfino il consiglio di amministrazione dell’Ema ha un quarto dei suoi membri che ha dichiarato interessi nell’industria farmaceutica»” e ancora: “sul British Medical Journal si è potuto leggere: «La giurisdizione dell’industria sull’Ema è uno dei più grandi conflitti di interessi che si possano immaginare. In questo modo, l’industria regola l’autorizzazione dei suoi stessi prodotti»”. In questo momento non occorrerebbe la massima trasparenza e il controllore non dovrebbe essere completamente indipendente dai controllati?
Domande… A chi di competenza le risposte. Ai cittadini, i dubbi.
Venerdì, 9 aprile 2021
In copertina: Foto di Cromaconceptovisual da Pixabay.