Sei anni fa ci lasciava un’icona del rock, un racconto per David Bowie
di Simona Maria Frigerio
Era la metà degli anni Ottanta. Era finito il tempo in cui si rivendicava l’immaginazione al potere. Ma era finito anche il tempo delle mele. Era il tempo che Ken Loach avrebbe raccontato in Riff Raff: falliti gli scioperi, il capitalismo sfrenato della Lady di ferro procedeva spedito, mietendo minatori e operai, carbone e acciaio, in favore di quella City volatile e volubile – che avrebbe bruciato sogni e risparmi. L’Inghilterra si risvegliava tra squatter e vetrine infrante, hooligan e precariato.
Eppure, camminando per le vie di Londra, per la prima volta lontana da casa, da sola, mi sentivo finalmente bene. Finalmente me stessa. Finalmente donna, nel senso di essere umano pensante che si assume le proprie responsabilità. Potevo decidere se alzarmi o restare a letto, se uscire di casa o pigrare sdraiata, se giocarmi la vita o lasciarla scorrere, se scrivere o vivere.
Cambridge scorreva lenta sul Cam. Le guglie del King’s College si arrossavano in quel tramonto di fine autunno, mentre qualche grassa foglia ingiallita si dondolava, ritardataria, su un ramo. Ma il weekend era Oxford Street, le vie frenetiche dello shopping – da Harrods alla piccola bottega del tè, dove si sceglievano le foglie sminuzzate, che riposavano in barattoli di latta. Aprirli era un piacere olfattivo raro perché l’aria si riempiva dei profumi di spezie lontane: la vaniglia e la rosa canina, il cocco e l’arancia – fragranza mediterranea che, nelle brume londinesi, sapeva di esotico quanto e più del kiwi del Commonwealth.
Avere meno di vent’anni e possedere la propria vita, sentirla scorrere nelle proprie mani con le infinite possibilità di un’immaginazione che pensava ancora di assurgere al potere – forse non più collettivo, ma almeno personale. Lasciarsi trasportare dalla corrente umana della rush hour, sapendo che non si appartiene a quelle rive lontane, che non vi è una casa ad attenderci, che quel navigare a vista è l’unica esistenza possibile.
La solitudine che si mischia alla nostalgia, l’eccitazione della scoperta di sé, delle proprie finite o infinite possibilità di venire a patti con il mondo, i suoi piccoli inconvenienti, le sue cocenti delusioni, quella serie di inevitabili patti continui con i propri sogni, che sono sconfitte lancinanti eppure indispensabili nel processo di crescita. E, nonostante, tutto accorgersi che la speranza rinasce ogni mattina, inguaribile come i propri vent’anni.
Dietro l’angolo, a ogni strada, con la stessa certezza della continua, sicura sconfitta, lui poteva apparire. Il Duca Bianco – ormai dimentico di Ziggy, venduta l’anima per una China Girl – sarebbe potuto passare, in auto, e fermarsi, abbassare un finestrino, salutare, e invitarmi a salire per un giro che non avrei mai dimenticato.
We can be heroes, just for one day. E quel giorno è esattamente quello che stai vivendo. Non esiste un domani. Ma l’indomani penserai che sarà quello il giorno fatidico. Perché a vent’anni il treno deve passare e deve essere il tuo.
Poi, gli anni trascorrono. Torni a casa e scopri che non è più la tua. Ti senti farang ovunque. Straniera. Fuori posto e fuori tempo. Aliena o disadattata, migrante o apolide a seconda di quanti soldi ti ritrovi in tasca. Sempre sbagliata. In qualche stazione, il treno della tua esistenza è passato senza fermarsi e tu sei rimasta sospesa su una banchina abbandonata, di fronte a un binario morto, persa ad ascoltare Space Oddity. Perché la sua voce, in sottofondo, ti ha sempre accompagnato, ovunque. Come quella sua immagine talmente familiare eppure sfuggente. Come un vecchio amico che sai già che non rivedrai più – eppure continua a essere presente nella tua vita e, per questo, solo per questo, ti senti meno sola, meno vecchia, meno stanca.
Dimmi Major Tom: Planet Earth is still blue?
Pubblicato la prima volta su Artalks.net, il 28 gennaio 2016 – Venerdì, 21 gennaio 2022
In copertina: Foto di Cristian Ferronato da Pixabay.