La meraviglia è qui
di Simona Maria Frigerio
Piacevolmente ubicato su una collina che domina il fiume Tago e il porto anche turistico, il Museo – su tre piani oltre all’interrato dove si trova la caffetteria – vanta locali ariosi a cui si accede da ampi scaloni, comodi divani che permettono di riposarsi durante la visita e la domenica l’entrata è gratuita per cittadini e residenti portoghesi (e a soli 3 euro per gli over 65, sempre e di qualsiasi nazionalità).
Come consigliato dall’Amica del Museo – una gentile signora poliglotta che fa parte di un’associazione incaricata di accogliere i visitatori – iniziamo la nostra visita dall’ultimo piano, dedicato all’arte antica portoghese.
L’adorazione dei Magi di Domingos António de Sequeira (1828) ci sorride in una mirabile fusione coloristica dove la luce circonfonde le figure in un’atmosfera estatica. Tra il classicismo e il romanticismo, de Sequeira raggiunge qui uno dei vertici della sua pittura in età matura. Vicino, quasi precursore dei Nabis, San Bruno in preghiera (1799/1800), ove lo stesso pittore sperimenta una prospettiva diagonale e fortemente schiacciata che rimanda a Mantegna, mentre l’essenzialità dei tratti e l’uso scultoreo ed emozionale della luce della candela rispecchia quasi la Maddalena di George de la Tour (1640). Mirabile fusione.
Per chi ami il barocco, un’intera sala è dedicata allo stile più flamboyant, che in parte ha interessato anche la veste architettonica della città di Lisbona dopo il terremoto del 1755. Noi passiamo oltre.
In posa di trequarti, irrigidito dalla gorgiera ma espressivo sia nell’occhio attento sia nelle turgide labbra a cuore, il Ritratto del Re Dom Sebastião I del Portogallo, dipinto nel 1570/75 da Cristóvão de Morais, che ci introduce in un’altra epoca. Evidente l’influenza ritrattistica manierista, propria del periodo, di cui resta maestro il Tiziano (i cui ritratti, però, vantavano una maggiore naturalezza ed espressività).
In una sala adiacente, si nota il Cortege delle reliquie di Santa Auta (1522/25), di autore sconosciuto. Vi si respira l’aura di un Gentile Bellini e il suo amore per la cura nella trattazione delle vesti, gli ovali delicati dei volti, il tentativo di ricreare scenari naturali e di sovrapporre più piani in cui si svolgono le azioni – ovviamente non con il medesimo risultato estetico. Presenti anche altri Altari sempre del Cinquecento, tra i quali quello imponente dedicato alla Vergine, di Jorje Alfonso (del 1515), dove i tratti dei pastori si distinguono per una certa ruvidezza popolana, molto veristica. Elaborato anche l’Altare proveniente dalla Chiesa di San Francesco a Évora, di Francisco Henriques (1508/11), con tavole che ritraggono vari momenti della vita di Cristo e di alcuni santi. Pregevole, al piano, anche la collezione scultorea.
Scendendo, si entra nella stanza dedicata all’oreficeria sacra. La magnificenza degli ori portoghesi è dispiegata in una serie di sale perfettamente illuminate. La perizia di un’arte antica si sposa con la raffinatezza di un gusto mai opulento sebbene ricco.
Da notare, tra i tanti, il cofanetto indo-portoghese del XVI secolo in filigrana con chiusura a forma di lucertola. Una custodia per calice dello stesso periodo, dorata, con vetri colorati e quarzi. Semplici e raffinate, le due corone del secolo XVI e XVII ingentilite dalle perle e da alcune pietre preziose di taglio piccolo e medio. In esposizione anche la Custodia di Belém di Gil Vicente, del 1506, la più “famosa opera d’arte orafa portoghese, realizzata per volontà del Re Dom Manuel I”, che serviva per esporre le ostie consacrate ai fedeli. Realizzata in oro e smalti policromi rappresenta “le tre personificazioni della Santissima Trinità, il Nuovo e l’Antico Testamento”. In mostra, curiosamente, anche tre aureole in argento dorato con smalti e pietre del XVI e XVII secolo. Delizioso il modellino di vascello in argento del XVII secolo; ricchissima la Custodia Bemposta del 1777, in argento dorato, diamanti, rubini, smeraldi, zaffiri, ametiste, crisoberilli e topazi, attribuita a Mateus Vicente de Oliveira e sicuramente di Adão Gottlieb Pollet. Da notare, oltre all’importanza delle pietre, le tre figurazioni nei ‘camei’ centrali.
Ampio spazio anche alle porcellane (si vedano i bruciatori di profumi), e alle terraglie. Vari oggetti in vetro (curiose le doppie ampolle), un acquario in maiolica e vetro, un po’ macabro il piatto da portata con dipinta la ghigliottina e l’esecuzione di Luigi XVI di Francia. Unico, il violino in maiolica del boemo Venceslau Cifka, con i ritratti di Corelli e Scarlatti.
Esposti anche alcuni pregevoli pezzi di porcellana cinese, in particolare delle dinastie Ming e Qing. Dal Giappone ampi paraventi di legno, carta, pittura a tempera policroma, seta, foglia d’oro, rame e lacca con scene di vita, viaggi per mari ed esplorazioni (Scuola di Kano, XVI/XVII secolo).
Da non perdere, la teca che contiene scatole e necessaire da scrittura in avorio provenienti da Ceylon, del XVI e XVII secolo; una tazza in corno di rinoceronte, oro e rubini, originaria dell’India portoghese – XVIII secolo; una scatola in guscio di tartaruga con chiusura in argento, lavorata in maniera talmente fine da risultare semi-trasparente, sempre dell’India portoghese (XVI secolo). Tavoli, cabinet, scatole e scrittoi di identica provenienza, del XVII secolo, in ebano, teak e avorio, occupano un’intera sala mostrando gusto e perizia. Accanto, alcuni corni da caccia africani del XVI secolo scolpiti nell’avorio (di cui uno policromo).
Dopo una pausa in caffetteria (si consiglia, se il tempo lo permette, di consumare nel giardino, affacciato sul fiume), al piano terra, si entra nella sontuosa Sala Patiño, ricostruzione di quella originale con arredamenti del 1769. Più oltre, alcuni oggetti di arredamento, tra i quali spiccano in particolare i due cabinet con dipinti, il primo di Peter I Kasteels e il secondo attribuito (a livello pittorico) a Franz Wouters – entrambi del XVII secolo – oltre allo scrigno veneziano del 1600 c.a. in cristallo di rocca e argento dorato o ramato. Due vasi in vetro, uno dei Paesi Bassi e l’altro tedesco, entrambi del XVI secolo, potrebbero essere prodotti, oggi, a Murano grazie al loro design essenziale.
Veniamo infine alla pittura europea dove si nota, innanzi tutto, un Courbet, Paesaggio invernale, del 1868, nel quale realismo e trattazione materica si sposano in un bianco acquietante. Nella stessa sala, una piccola Danaide di Rodin (1893) che pare, insieme, lottare contro e abbandonarsi alla materia. A seguire, alcuni Tiepolo (spicca La fuga in Egitto) e un leone scolpito di epoca tolemaica in basalto nero, disteso tra i romantici ruderi settecenteschi dipinti da Panini e Creti. La luce della bottega di José de Ribera (1588/1656) taglia diagonalmente la figura pronta al martirio di San Sebastiano, e il suo sguardo è già rivolto verso l’alto e l’oltre (come quello, più avanti, di San Paolo l’Eremita di Mattia Preti, del 1675). Un pezzetto di Toscana a Lisbona ci sorride grazie alla bottega delle ceramiche Della Robbia, prima di osservare un Pieter Brueghel il Giovine, ossia Opere di Misericordia (1600/50) – che raccoglie, in un fazzoletto di tela, tutto quell’universo profondamente umano, prediletto dalla scuola fiamminga. Soave Il matrimonio mistico di Santa Caterina del Murillo (1660) accanto all’opulenza turgida e coloristicamente pregnante di due nature morte coeve di Antonio Pereda y Salgado. Nella stessa sala, un’altra pregevolissima Natura morta è firmata da Jan Fyt, nel 1642, ove la lepre si carica quasi di un Memento Mori, di una morte ancora più atroce quando affiancata alla vitalità naturalistica dei grappoli maturi e delle pere succose.
Oltrepassata la sala dedicata agli Apostoli (di bottega Zurbarán), ecco Il riposo durante la fuga in Egitto del Bronzino (1602) ove la Sacra Famiglia si tinge di note domestiche: Giuseppe ha sembianze mature ma non canute e uno sguardo affettuoso da padre, mentre Maria, vezzosa, appare molto femminile nel profilo affinato e nel seno turgido sfiorato dalla mano del bambino. Le trine degli abiti e il cibo avanzato nei piatti aggiungono un ulteriore elemento familiare, mentre lo scorcio paesaggistico aumenta la visione raccolta dei tre, protetti dalla parete di una sorta di grotta.
Una sala a parte, la meritano Hans Holbein il Vecchio, con la sua Vergine col bambino e santi (1519), dove predominano i panneggi delle vesti decorate e il gusto manierista per architetture e prospettive; e uno tra i capolavori di Hieronymus Bosch, il Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio – nel quale, come sempre, è il particolare a catturare l’occhio e la mente dell’osservatore tra fascinazione macabra e perturbante. Un divanetto permette di sedersi e dedicare il giusto tempo a uno tra i pittori meno concilianti e più disturbanti della storia dell’arte.
Ovviamente la visita non finisce qui. A ogni visitatore scoprire propri percorsi estetici e di senso. Noi abbiamo voluto solo suggerirvi qualche opera e artista che ci ha particolarmente colpiti, lasciandovi con quello che è forse il capolavoro presente nel Museo, col maestro dell’inconscio, con Hieronymus Bosch.
Venerdì, 25 febbraio 2022
In copertina: Hieronymus Bosch, il Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio (MNAA, Sala 61. ©MNAA e Paulo Alexandrino, foto gentilmente fornita dal Museo di Arte Antica di Lisbona, tutti i diritti riservati).