Ieri, oggi ma… non domani?
di Simona Maria Frigerio
Premessa. Sono quasi cinquant’anni che si ripete che il teatro è cambiato, si è ‘innovato’, diventando di ricerca, sperimentale, addirittura ‘terzo’ (famosa definizione di Eugenio Barba nel suo ormai vetusto Manifesto del 1976). Un teatro che, nel tempo, ha riempito di sé libri e articoli di critici e accademici, ma ha svuotato progressivamente i teatri.
In quegli anni, comunque, alcuni tentarono la strada di uscire da quegli edifici, come Dario Marconcini e Giovanna Daddi ci raccontarono in un’intensa intervista di qualche tempo fa: «In quel periodo eravamo molto liberi, in un certo senso rivoluzionari. Purtroppo, noi che allora uscimmo dai teatri, siamo poi rientrati nelle istituzioni» (https://teatro.persinsala.it/dario-marconcini-e-giovanna-daddi-quando-lattore-e-un-visionario/33584/). E forse non a caso il 12 marzo, sempre al Teatro Era, sarà proiettato il docu-film, Fuori dai teatri di Rä di Martino che racconta quegli anni, dove la voce di Dario Marconcini – costruttore di universi di senso in scena e fuori dalla scena – sarà ‘re-interpretata’ da Lino Musella.
Ma anche quel cosiddetto ‘nuovo’, invece di dilagare libero e liberato, affermando la vitalità della professione e delle infinite istanze creative, si è incancrenito, è diventato esso stesso parte dell’istituzione e, per di più, adatto solamente alle élite, troppo ricercato per essere compreso dal pubblico, sempre più sclerotizzato nelle categorie accademiche e ministeriali.
I pachidermi degli ex Stabili, al contrario, hanno, più di prima, preso a sciorinare spazzatura borghese – compiaciuta e compiacente – fagocitando le cosiddette avanguardie, relegandole nello spazio che da sempre pensano competa loro – ossia la marginalità – mentre il lavoro dell’attore o dell’autore teatrale, come quello del regista, si è trasformato da mestiere – povero ma dignitoso – in hobby (chi andrebbe da sua madre a dire: «Voglio fare l’attore», come direbbe: «Voglio fare il medico»?). Finché, negli ultimi due anni, il teatro è diventato – diciamocelo: finalmente! – attività ‘inessenziale’. Al pari di quella di noi critici, belle anime nemmeno più retribuite ma in cerca della pacca sulla spalla dell’attore, invece che della dignità da intellettuale scomodo (perché, se funzionale, che intellettuale sarebbe?).
Grazie alla compiacenza dei sindacati ancorati a istanze operaiste dove solo la produzione industriale sarebbe ‘essenziale’, e degli italiani che, a differenza (ad esempio) degli spagnoli, hanno considerato si possa fare a meno della cultura come del ristorante, tanto c’è il take-away anche dell’educazione – che chiamiamo Dad – i teatri sono rimasti chiusi, come i musei, le università, i cinema, i centri sociali, le biblioteche. L’infoedemia da Covid ha ucciso tante cellule cerebrali, ma ce ne renderemo conto solo tra qualche anno, quando ragazzi e ragazze che hanno perso anni di scuola e di crescita come gruppo, di dialogo e confronto, di critica e approfondimento, si troveranno ancora più in balia dei soliti poteri forti.
Scusate lo sfogo, ma nel 2018 scrivevo un pezzo in cui denunciavo che nel famoso (o famigerato?) Codice dello Spettacolo dal vivo non mi tornava, ad esempio, l’accento sull’importanza dell’amatorialità (“ma chi si farebbe operare da un chirurgo amatoriale?”, mi domandavo, e però mi risponderete voi: “quello è un professionista, l’attore no”). Poi ne scrissi altri, di pezzi, in cui mi chiedevo (come nell’intervista all’allora Direttore del Nazionale di Genova, Angelo Pastore) come poteva il teatro italiano, costituzionalmente di giro, diventare stabile – di nome e di fatto. Arrivando persino a premiare con meccanismi cavillosi le repliche in regione affinché ognuno si faccesse il suo ‘teatrino’, come piace tanto alla politica, quando bisognerebbe premiare le tournée nel mondo – o almeno in Europa. E se Davide Enia, in un’intervista mi rispondeva: «Nel momento in cui è entrato il finanziamento pubblico tramite i politici, il teatro è diventato il parcheggio di personaggi di secondo, terzo, quarto piano del mondo della politica», non chiudevo un quadro da Urlo (di Munch)?
Torniamo allo spettacolo
Tutti questi pensieri e molti altri mi si sono affollati nella mente assistendo a Tavola tavola, chiodo chiodo… di e con Lino Musella – e riascoltando le parole di Eduardo.
Un Teatro Nazionale, in un cortocircuito interessante, offre il palco a uno spettacolo che, attraverso la figura di De Filippo, denuncia la morte del teatro stesso, proprio a causa della politica romana (di ieri come di oggi) e delle politiche degli Stabili (oggi è cambiato solamente il nome per definirli). Basta guardare al Teatro Era – nel quale sediamo ammirando palco e platea (e dove eravamo già tornati per l’assolo di danza di Aurélien Bory per Shantala Shivalingappa, aSH, poche settimane fa, proposto però da Fabbrica Europa), con le sue due sale, quelle di prova, il foyer, la foresteria che permetterebbe residenze grazie ai dodici posti letto e alla cucina per gli artisti. Questo sarebbe il Centro di sperimentazione e ricerca teatrale del Teatro Nazionale Toscano: ma come può esserlo quando presenta in Stagione quasi solo spettacoli adatti a un qualunque soporifero teatro borghese privato, con attori famosi più per le loro pubblicità, forse, che non per il loro impegno sulla scena (e, comunque, cinematografica o televisiva, ma non teatrale), se non fosse che sono ormai burocrazia e politica a comandare in teatro e non coloro che lo fanno?
E così sono partita dalla fine dello spettacolo, da quella lettera veemente e accorata che scrisse Eduardo De Filippo all’allora Ministro del Turismo e dello Spettacolo (anche sugli attributi di tale ministero ci sarebbe da scrivere un poema…) e che denunciava come una politica che non vuole contraddittorio debba controllare, prima di tutto, la capacità di pensiero e critica del popolo e come un teatro ‘compiaciuto e compiacente’ (parole mie, ma che rendono bene quanto scrisse Eduardo) è, sì, morto – ma è l’unico gradito. Ecco perché i baracconi degli Stabili (o ex) che soffocano il confronto con la contemporaneità, sono servi fedeli. Allora, come oggi, quanta drammaturgia si produce in Italia? Siamo tutti qui a rincorrere Shakespeare senza renderci conto che il Bardo scriveva dei suoi tempi, traduceva sulla scena conflitti di potere, denunce corrosive e sberleffi – mascherandoli appena, per salvarsi dalla forca, come sa fare qualsiasi scrittore persino dei giorni nostri, con ambientazioni trasposte nel tempo e/o nello spazio. Ma il teatro per essere vivo deve confrontarsi con il qui e ora.
Musella, sul palco, è insieme Eduardo che cerca di racimolare i soldi per ricostruire il San Ferdinando di Napoli e – nel medesimo istante, per magia teatrale – Lucariello che costruisce il presepe: personaggio e interprete, autore e attore, se stesso e il suo immaginario. Ma è anche Tommasino nel Natale in Casa Cupiello di Latella (l’unico credibile in scena e non una parodia mal riuscita figlia di quel teatro asfittico ed elitario che Eduardo detestava, lui che pretendeva che attore, regista e drammaturgo si facessero ognuno un po’ da parte – ma Latella probabilmente non l’ha mai saputo), che recita: «Cara Madre, tanti auguri per il Santo Natale» e, in una sovrapposizione di rimandi ognuno più pregnante dell’altro, Musella è se stesso, uomo e attore, che ci invita sul palco – noi, con la nostra mascherina – per ricostruire insieme il nostro teatro.
Ogni gesto, in scena, ha un suo motivo, nessun orpello o fronzolo. L’artigianalità del fare teatro trova la propria immagine metaforica in quell’inchiodare due cantinelle di legno per reggere un faro teatrale che servirà a illuminare Musella nell’azione successiva. Le sbarre che fissa possono reggere i ceri o le stelline di Natale in Casa Cupiello ma sono anche quelle delle celle, dietro cui languono quei giovani (allora forse soprattutto italiani, oggi anche migranti), invischiati in storie di camorra o semplicemente in quella micro-criminalità che serve per sbarcare il lunario quando latitano scuola e istituzioni (e non vogliamo nemmeno immaginare come è stata ed è ancora gestita la Dad in ampie zone d’Italia e in molte, troppe famiglie). Il baule è quello dell’attore di giro, ma anche di Sik Sik, l’artefice magico. E così via, la consonanza e pregnanza di ogni oggetto e azione (scena di Paola Castrignanò), rimando testuale e battuta, ha una precisione che si sposa perfettamente con i climax e anti-climax. Musiche puntuali (il bravo Marco Vidino dal vivo). Valido il disegno luci di Pietro Sperduti. Dizione perfetta, respirazione perfetta, pause perfette. Una napoletanità mai di maniera, mai esacerbata per scadere nella macchietta. Ma si sa, l’attore non è mica un professionista…
La conclusione mi ha ricordato ancora una volta un mio pezzo (scusate l’autoreferenzialità), forse perché anch’io sono cresciuta con Eduardo De Filippo, con le sue tragicommedie che riempivano la mia casa, quando il nonno costruiva per giorni quel presepe incollando le assi delle cassette di legno che recuperava al mercato rionale, tra i rimbrotti della moglie e delle figlie.
“Ha da passà ‘a nuttata”, scrivevo nel marzo 2020 (in https://www.inthenet.eu/2020/03/13/eretici-in-tempo-di-coronavirus/).
Ma è ora di svegliarsi!
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Era
via Indipendenza – Pontedera (PI)
domenica 12 dicembre 2021, ore 17.00
Tavola tavola, chiodo chiodo…
tratto da appunti, articoli, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo
un progetto di Lino Musella e Tommaso De Filippo
uno spettacolo di e con Lino Musella
musiche dal vivo Marco Vidino
scena Paola Castrignanò
disegno luci Pietro Sperduti
suono Marco D’Ambrosio
ricerca storica Maria Procino
collaborazione alla drammaturgia Antonio Piccolo
assistente alla regia Melissa Di Genova
costumi Sara Marino
fotografie Mario Spada
produzione Elledieffe, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
venerdì, 31 dicembre 2021
In copertina: Lino Musella e Marco Vidino in Tavola tavola, chiodo chiodo…, foto di Mario Spada (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Teatro della Toscana).