Un racconto alla settimana…
di Simona Maria Frigerio
Esce nella pioggia che crea pozzanghere profonde nell’asfalto ondulato. Nuvole di fumo si sollevano dal suolo a celare le caviglie. Il cielo plumbeo appare basso e incombente. I tram navigano lentamente, sulla fronte fasci di luce forano la notte precoce. Per un attimo anche lei si sente in miniera e crede ancora che, alla fine della notte, uscirà dalla galleria e vedrà la luna. Un’auto schizza veloce fango sugli abiti. L’ombrello le ripara gli occhiali. Il tram arriva ciondolante. Ciondolante riparte. Laura guarda con angoscia il suo ombrello appoggiato alla gamba della sconosciuta seduta di fronte. Incantata segue i rivoli veloci che colano pesantemente in gocce grasse e copiose sulle caviglie scoperte della donna, assorbita nella sua rivista “femminile”. Sorride compassione. Scende dal tram che sta spiovendo, guarda il cielo e il miglioramento la infastidisce: non coincide col suo umore. In metropolitana la fretta dei passanti la sconcerta, sente la distanza che la separa da coloro che la circondano rincorrendo futilità quotidiane, vuote monotonie che assicurano la continuità, la condivisa sensazione di eterno nel gesto reiterato. Per un attimo Laura si sente fuori dal cerchio: sciolta la corda che la legava, scivola solitaria alla deriva. Gli altoparlanti annunciano il prossimo treno: un gracchiare sordo che per un istante sovrasta il vociare incoerente. Guarda il tabellone delle partenze poi scuote il capo e torna sui suoi passi. Scende velocemente le scale della stazione e raggiunge il pullman. Non sa dove fare il biglietto. Con gli occhi cerca l’autista, poi si spazientisce e avvicina un altro passeggero, ma anche lui si sta ponendo la stessa domanda. Scuote nuovamente il capo, più furiosa di prima. Sbuffa. Poi si rassegna e si mette in coda per un taxi.
«Dove vuole andare?»
«Malpensa.»
«Terminal 1 o 2?»
“E chi se lo ricorda?” Sta quasi per arrendersi ma il tassista ci tiene troppo alla corsa e le viene in aiuto, con la coda dell’occhio le fa un cenno di comprensione: «La scarico all’1 poi si arrangia lei, va bene?»
“Qualunque cosa va bene”. Accenna di sì col capo, poi si sposta per non essere vista dallo specchietto: odia quella violazione dell’intimità del sedile posteriore. L’auto scorre veloce lungo la linea bianca tratteggiata di fresco. Gli alberi costeggiano la corsia e una luce grigiastra si diffonde all’orizzonte: la notte rischiarerà. In aeroporto tutti sanno dove andare o almeno fingono di saperlo. Lei si guarda intorno e si chiede quale volo scegliere. Testa o croce o qualche altro giochino del genere potrebbero aiutarla, ma il Sud America sembra la mèta più ovvia. Si avvia verso le biglietterie e rispetta la coda con zelo britannico. La hostess di terra è gentile: «C’è posto, nessun problema, ha scelto bene, staccare e partire è salutare…». “Chissà per chi?” Laura sorride, porge la carta di credito e incassa il biglietto. L’azione la rende euforica: tutto le sembra facile oggi… Documenti, metal-detector, la solita procedura e il benestare finale. Le pare che tutti siano particolarmente gentili: si sente buona e, quindi, se lo merita. Appena sale sull’aeroplano la hostess storce il naso vedendo la sua borsa e le chiede se non sarebbe stato meglio metterla nella stiva. «Bagaglio a mano», spiega Laura stringendosi nelle spalle, e si dirige verso il posto indicatole da uno steward gentile e con un filo di barba del giorno prima. Appena seduta, si allaccia la cintura di sicurezza, quasi che l’azione possa velocizzare la partenza. Sospira e guarda fuori dall’oblò. Dopo qualche minuto lento – o troppo veloce – l’aereo inizia il decollo. Sente lo stomaco salirle in gola e ridiscendere pian piano, mentre l’orizzonte si raddrizza. Una piacevole sensazione di vuoto liberatorio fuoriesce unisona col fiato dei passeggeri per caso. Laura si guarda intorno e si sente finalmente partecipe. Dopo un pisolo, si sveglia sentendosi sottosopra. Si scopre in volo: fuori dall’oblò le nuvole vanno diradandosi. Ha tempo per immaginarsi la giornata di domani: soleggiata novembrina. Si rende conto di non rammentare esattamente cosa sia successo. O meglio, non afferra distintamente la realtà dell’accaduto, che impallidisce privo di emozione. Le è già successo, con fatti insignificanti, come l’avere o meno comperato un detersivo o incontrato una persona. Forse è realmente accaduto, qualche giorno prima, o alcuni mesi o anni. Forse no. A volte la infastidisce non riuscire a distinguere un’immagine del suo passato da un sogno. Un sogno d’alba, di quelli che rimangono in bocca e al risveglio lasciano un sapore inconfondibile, che lentamente, con l’avanzare del giorno, si affievolisce fino a spegnersi; per poi riaffiorare, inaspettatamente, riportando a galla il ricordo, distinto, lancinante… mentre la coscienza della sua realtà giace altrove. Osservando l’Italia allontanarsi al di sotto delle ultime nubi si domanda, per un attimo, se avrebbe potuto fare altrimenti; mentre l’eccitazione del nuovo e inaspettato la cattura: gesti altri da inventarsi e apprendere, nuovi legami da stringere – tutte certezze mortifere per esorcizzare la morte – una, sua, forse propria.
*°*°*
Quante volte l’ha già visto? Prende in mano il taccuino e trascrive, meccanicamente, poeticamente: “Entrando dall’ingresso la sala di fronte sembra buia ma le finestre, sulla parete opposta, sono illuminate dal riflesso dei lampioni di strada. La pioggia batte attutita. Il vento va spegnendosi. È il silenzio. La prima porta che si apre sul corridoio è proprio quella della sala: una camera rettangolare con un tavolo ovale al centro dell’ambiente spoglio. Qualche libro, appoggiato sulla scrivania d’angolo, accanto a una delle due finestre, suggerisce l’uso della luce naturale per letture tardive. Scatoloni ancora pieni restano, posati in un angolo. Un filo sottile di polvere ricopre cartoni e contenuto. Sulla destra si apre la porta scorrevole che conduce alla cucina: piatti sporchi giacciono nel lavandino. Un gocciolio costante insudicia di schizzi rossastri le piastrelle. Un pentolino di latte rappreso attende. L’odore di sporco respinge. Tornando in sala, sulla sinistra, si nota una piccola camera vuota. La libreria, ancora smontata, rimane a terra tra pezzi sparsi. Nella stanza non vi sono né finestre né lucernari, parrebbe uno sgabuzzino largo, una stanza guardaroba posizionata nella parte sbagliata dell’appartamento. Un paio di riviste, impilate in cima a una serie di cuscini, torreggiano, intatte, in precario equilibrio. Percorrendo il corridoio per intero si giunge al bagno, angusto, con una sola finestra: alta, piccola e allungata in verticale. Col loro peso, spazzolino e dentifricio hanno rovesciato a terra il bicchiere. La schiuma da barba insudicia il tappo della bomboletta. Il rasoio, appoggiato al lavabo, è impregnato di schiuma e peli corti, di un rosso scuro, quasi vermiglio. La salvietta, in un angolo, porta una piccola macchia circolare, incrostata, di color mattone e consistenza densa e pastosa. La radio sintonizzata su una stazione a onde medie schizza a intermittenza musica e parole in una miscellanea di tentativi abortiti. Tornando ancora una volta indietro, nel corridoio, si nota un’ultima porta, sulla destra, che giace socchiusa e si apre su una piccola stanza squadrata. La luce dell’abat-jour rischiara uno spazio angusto tra letto e comodino. Le coperte nascondono la copertina sgualcita di un vecchio libro. Un armadio laccato di nero vacilla sui suoi piedini sottili. L’aria sembra impregnata di sogni e respiri. La notte si sta infiltrando nella stanza, lentamente, ravvivando l’unica luce accesa che, a misura, si fa più e più brillante. Dalla strada il suono di un sassofono sale languidamente e ritmato, come il fumo dell’ultima sigaretta. Tra qualche minuto la vicina del piano di sotto si sporgerà dalla finestra e imprecherà contro il gestore del bar perché abbassi il volume, che non riesce a sentire il suo programma delle sette: ogni sera è facile immaginare il ripetersi della stessa scena; ma, intanto, per qualche istante ancora, il suono lambisce le pareti e accarezza le tende stropicciate. Al di là del letto, in un angolo, giace il corpo”.
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
venerdì, 15 aprile 2022
In copertina: Aeroporto di Bangkok, 2012. Fotografia di Simona M. Frigerio (vietata la riproduzione).