Shakespeare incontra l’inconscio collettivo junghiano
di Luciano Uggè e Simona Maria Frigerio
Affascinante lo spunto che ha mosso Angela Dematté e Carmelo Rifici per questa rilettura di una tra le tragedie più nere del Bardo: intessere collegamenti profondi – e non meramente aneddotici – tra il testo drammaturgico che attingeva indubbiamente al ciclo arturiano del Re pescatore (o re ferito) e le reminiscenze infantili, i riti tradizionali di una Sicilia ancestrale e i desideri degli attori in scena.
Di impianto decisamente metateatrale, soprattutto nella prima parte, lo spettacolo si giova di un eccellente sound design (che avvolge scena e spettatori) e di un altrettanto preciso e suggestivo disegno luci. Pregnante anche la scelta dell’acqua come elemento dominante, che purifica (pensiamo alla famosa scena di Lady Macbeth che non riesce a lavare il sangue dalle sue mani) ma che è, altresì, vitale in ogni senso – sia per dissetare l’essere umano sia per proteggerlo (il liquido amniotico) quando in grembo. Meno convincente il video, troppo ronconiano e anni 90 (vedasi anche Medea riproposta da Daniele Salvo).
Su queste basi veniamo allo spettacolo in sé. Alle sue molteplici luci ma anche ad alcune scelte non del tutto convincenti.
La tessitura testuale, in effetti, funziona laddove interviene Tindaro Granata, in grado di circonfondere l’atmosfera magicamente medievale del Macbeth (ambientato nella Scozia del Basso Medioevo) dei riti della sua terra d’origine – la Sicilia – altrettanto suggestivi e misteriosi. Una rilettura, questa, vicina a quella del Macbettu rigorosamente sardo di Alessandro Serra. Funziona meno quando le considerazioni personali di attori e attrici (soprattutto nella parte iniziale) si perdono, non legandosi direttamente all’azione teatrale. Ma non solo, come potrebbe un attore o un’attrice prestarsi veramente a un’operazione di denudamento del proprio sé su un palco? Sarebbe corretto? Il pudore dell’essere umano ovviamente ha la meglio sull’istrionismo attorale e, in ogni caso, l’attore dà fin troppo di sé nelle sue interpretazioni – sarebbe lecito chiedergli di più? Sarebbe ancora teatro laddove non vi sia un altrettanto forte intervento personale dello spettatore?
Pensiamo ad Alfonso De Vreese quando esprime la propria insoddisfazione perché costretto a prendersi cura del padre e poi si trasforma in Macbeth, assassino di Duncan (per lui come un padre): anche se la liaison è tenue, esiste e si trasla e sublima nell’azione drammaturgica successiva. Altrove, come nel caso di Maria Pilar Pérez Aspa, sebbene le considerazioni sulla violenza e sull’accettazione di quella violenza siano in sé pregnanti, restano purtroppo lettera morta e si dimenticano nel corso degli eventi. Va altresì notato che il linguaggio shakespeariano e quello colloquiale o professionale – dello psicoanalista e di Angela Dematté – stridono; così come stride il discorso di un’attrice che ha scelto di non avere figli e si chiede ogni giorno se è ciò che vuole (se se lo chiede non c’è bisogno dello psicoanalista per comprendere che non ha fatto alcuna scelta) con gli abissi di abnegazione verso il marito/figlio/amante/signore di una Lady Macbeth. E tornando al De Vreese, come potremmo immaginarci nelle sue parole la medesima carica di eros/thanatos del Macbeth parricida o di un Jim Morrison che cantava “Father, yes son? I want to kill you. Mother, I want to fuck you all the night long”?
Esteticamente molto bello il finale. Dall’omicidio della moglie e del figlio di Macduff, passando per la macellazione del maiale e a un ritorno all’età dell’oro, i riferimenti iconografici, rituali e testuali trovano un delicato equilibrio che stende un velo buddhista di eterno ritorno più che sul Macbeth sulla storia dell’intero genere umano.
Il migliore in scena Alessandro Bandini, dall’incipit con le sue acute riflessioni su una gioventù che, invece di agire attende (e in tempo di Covid e cambiamento climatico questa osservazione pare quanto mai pregnante), alle ultime parole che stillano come perle di profonda saggezza.
Difficile apprezzare completamente uno spettacolo se per il 30% si è vista la schiena di Dematté e per un altro 20% lo schienale della sedia. Ora, questo elemento scenico o si posiziona più lateralmente o non si fanno accomodare gli spettatori dove sia loro preclusa la visuale.
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Metastasio
via Benedetto Cairoli, 59 – Prato
giovedì 2 dicembre 2021, ore 20.45
Macbeth le cose nascoste
di Angela Dematté e Carmelo Rifici
tratto dall’opera di William Shakespeare
dramaturg Simona Gonella
progetto e regia Carmelo Rifici
équipe scientifica Dottore Psicoanalista Giuseppe Lombardi e Luciana Vigato, esperta di comunicazione non verbale e stili relazionali
con (in ordine alfabetico) Alessandro Bandini, Alfonso De Vreese, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Leda Kreider, Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini
e con (in alternanza) Angela Dematté e Simona Gonella
scene Paolo Di Benedetto
costumi Margherita Baldoni
musiche Zeno Gabaglio
disegno luci Gianni Staropoli
video Piritta Martikainen
assistente alla regia Ugo Fiore
scene realizzate dal Laboratorio di Scenografia Bruno Colombo e Leonardo Ricchelli del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
costumi realizzati presso Laboratorio di Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
corone Alessandro De Marchi
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, ERT – Teatro Nazionale
in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina
partner di ricerca Clinica Luganese Moncucco
venerdì, 17 dicembre 2021
In copertina: Macbeth le cose nascoste. Foto LAC Studio Pagi (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Metastasio di Prato).