Quando “il vuoto del vedere” si riempie di colore
di Daniele Rizzo
La storia dell’Occidente coincide in gran parte con un assunto che, pur essendo stato oggetto di discussione da oltre un secolo, continua a percorrere invasivamente l’immaginario di massa. Si tratta di uno specifico modo di concepire la conoscenza in termini logico-scientifici, una sorta di ansia alla matematizzazione che, nella sua impostazione rigida e totalizzante, ha conseguenze particolarmente drammatiche per come inficia alle fondamenta la possibilità di impattare con consapevole efficacia sul mutare di per sé imprevedibile degli eventi.
Infatti, quanto successo in questi anni di pandemia – con governi, autorità di vario genere e “opinione pubblica completamente esposti agli umori del momento e incapaci di organizzare una visione organica del ‘presente prossimo’ – sembra drammaticamente testimoniare come la necessità di ampliare i margini della concezione della ‘comprensione del mondo’ dalla ragione calcolante a quelli dell’ʻagire e sentire dell’essere umano’” in un’ecologia anche della percezione non sia un vezzo da filosofi, ma un’urgenza che riguarda l’esistenza stessa del genere umano su questa Terra.
L’arte è, o potrebbe/dovrebbe essere, uno degli ambiti privilegiati di scardinamento di questa miope, monolitica e perversa visione del mondo. La produzione creativa umana – e parliamo di produzione perché sarebbe ingenuo e ipocrita svincolare l’arte dallo sviluppo di sempre nuovi strumenti tecnologici e dalla necessità di confrontarsi con il mercato – risente spesso di atteggiamenti paralizzanti che, senza soluzione di continuità, si manifestano in una sorta di nostalgia per un passato mitizzato, nell’esaltazione di un presente ridotto a esperienza diretta e irripetibile o di perenne attesa per un futuro sicuramente migliore.
Tuttavia, esistono delle eccezioni rispetto alle tinte fosche del panorama appena tratteggiato, artisti che hanno saputo intercettare contenuti antropologici in forme nuove, magari andando a svantaggio della chiarezza speculativa e del principio della verità astratta, ma la cui riflessione concettuale non ha sacrificato il ruolo essenziale dell’esperienza sensibile e corporea. Questi artisti hanno accolto la fine delle fragili sicurezze del sapere ‘cartesiano’ e hanno promosso un’indagine probabilmente ‘non appagante’ rispetto al principio di oggettività, ma che, in questa sottrazione dal ‘chiaro e distinto’, ha saputo restituire senso alla contingenza e al perpetuo divenire in cui l’essere umano e il mondo sono immersi.
Derek Jarman appartiene senza alcun dubbio al novero di questi artisti ‘eccentrici’, personalità in cui l’essere hic et nunc della scrittura autobiografica ha saputo dispiegarsi nell’incontro con l’alterità e rompere con l’autoreferenzialità, così aprendo nell’arte i margini operativi di un discorso che ancora oggi continua a parlarci.
La costruzione dell’immaginario di Jarman è infatti un esempio clamoroso di come l’auto-narrazione dell’artista abbia saputo sposare le istanze proprie di un’intera epoca, assumere un potere comunicativo intersoggettivo e farsi indistinguibile da una visione concreta del mondo e dell’agire umano al suo interno.
Punto di riferimento imprescindibile per la cinematografia contemporanea, autore di corti e lungometraggi, opere sperimentali e videoclip, Jarman fu una figura poliedrica nel variegato mondo dell’arte, una delle figure più rilevanti della cultura inglese degli anni Ottanta e Novanta, anni in cui nel Regno Unito, in particolare a Londra, operava un brulicare di culture underground – in particolare punk e glam, ma anche transgender – che si situavano in opposizione frontale all’aggressività della politica conservatrice, bigotta e repressiva delle diversità della Primo ministro Thatcher. All’interno del corpus jarmaniano, contenuti, materiali e tematiche venivano assunti in codici formali ‘ibridi’ e restituiti in creazioni apparentemente più tradizionali o assolutamente visionarie: il suo linguaggio era caratterizzato da una estrema libertà che però poggiava su alcuni tratti caratteristici di persistenza che diede sostanza a un rinnovamento radicale del linguaggio – soprattutto cinematografico – ormai lontano da qualsiasi idea di corrispondenza mimetica.
Jarman fu dunque artista per eccellenza (direttore della fotografia, giardiniere, montatore, regista, sceneggiatore, scenografo, scrittore, pittore e video-maker) e la sua vicenda rappresenta un esempio tra i più sconcertanti della capacità di pochi artisti di far ‘coincidere’ vicenda individuale e tempo storico. Nel 1984, a Jarman venne diagnosticato l’Hiv e questa scoperta segnò, per lui che era omosessuale, un punto di non ritorno: la sua arte divenne opera non solo di resistenza e contestazione, ma anche di confronto e attivismo contro un male che allora soffriva di una condizione esplicitamente discriminatoria, anche in termini prettamente legislativi. Val la pena far notare alcuni tratti di una delle più ‘trascurate’ pandemie della storia recente, il cui inizio viene datato convenzionalmente al 1981 e la cui diagnosi significava morte nella quasi totalità dei casi. Se alle origini la sua diffusione era associata alle comunità gay degli Stati Uniti (tra gli appellativi, tra i più ricorrenti, ‘cancro dei gay’), oggi lo scenario appare decisamente cambiato e la sua permeabilità non è più una ‘prerogativa’ dei confini europei e nordamericani e la sua incidenza non è più considerata relativa all’uso degli stupefacenti e alla promiscuità sessuale. La situazione attuale restituisce una folgorante manifestazione plastica dell’ineguaglianza dei processi di globalizzazione della seconda metà del XX secolo: se è drasticamente calata la mortalità dei Paesi sviluppati, dove oggi è ‘solo’ endemica, pur rimanendo molto diffusa (non più negli ambienti LGTB+, ma eterosessuali), la sindrome continua ad avere un preoccupante tasso di mortalità in Africa e Asia.
Dal momento della diagnosi, la questione personale divenne centrale per Jarman, ma mai venne confinata alla propria dimensione biografia. Un esempio, forse il più eclatante di questo connubio, tra trasfigurazione artistica e attivismo, è Blue, film testamento di oltre un’ora senza immagini, schermo occupato dall’elemento blu, voci fuori campo (John Quentin, Nigel Terry, Derek Jarman, Tilda Swinton) e sonorizzazione musicale (Simon Fisher-Turner), che l’artista britannico realizzò in un momento in cui le complicanze determinate dalla propria condizione ne avevano portato lo spettro visivo a ridursi alle sole tonalità del blu (e poi alla morte nel 1994).
Se perdere la vista potrebbe/dovrebbe condurre all’epilogo la carriera di un artista visuale, in Jarman il vuoto del vedere venne invece riempito dal colore. La risposta dell’arte alla domanda del commento sonoro di Blue («If I loose my sight will my vision be halved?») diventa un lavoro che, con la vita personale, incorpora importanti questioni da porre alla società che vorremmo («What need of so much news from abroad while all that concerns either life or death is all transacting and at work within me»).
Se la visione dell’International Blue Klein e l’ascolto di estratti dai diari di Jarman avvicinano empaticamente al vuoto vissuto da un’esistenza ormai prossima alla scomparsa, la prospettiva più intima dell’artista diventa un’ eredità donata ai posteri, una sua convincente interpretazione è Thinking Blind, il lavoro della Compagnia (S)Blocco5, centro di ricerca, formazione e produzione teatrale fondato e diretto dalla regista e attrice Ivonne Capece, affiancata dalla scenografa e costumista Micol Vighi, andato in scena nell’ultima giornata di Colpi di Scena – Sguardo nel Contemporaneo, vetrina per operatori del settore teatrale organizzata da Accademia Perduta Romagna Teatri, e già finalista alla Biennale College Teatro 2021 di Venezia, Sezione performance internazionale Under40.
Thinking Blind si inscrive nell’ottica di una estetica performativa, in cui la nuda parola perde ogni protagonismo e la costruzione scenica si struttura post-drammaticamente attraverso l’ibridazione di elementi visivi, coreografici, musicali e drammaturgici. Thinking Blind ‘contestualizza’ Blue di Jarman nel momento in cui ribadisce la condizione tragica dell’essere umano, la cui sopravvivenza si scopre minacciata dalla stessa venuta al mondo. Il linguaggio non mostra alcun cedimento al didascalico, le figure sono metaforiche e i codici scenici plasticamente allusivi di una età dell’innocenza che, più che essere perduta, probabilmente non è mai esistita. Così come Jarman aveva ‘sconfessato’ il logocentrismo («Blue walks into the labyrinth. Absolute silence is demanded to all its visitors, so their presence does not disturb the poets who are directing the excavations. Digging can only proceed on the calmest of days as rain and wind destroy the finds»), il lavoro di (S)blocco5 trae paradossalmente ‘linfa’ vitale dall’abisso del nulla parafrasando uno tra gli stralci testuali più poetici della pellicola:
«Blue protects white from innocence
Blue drags black with it
Blue is darkness made visible
Blue protects white from innocence
Blue drags black with it
Blue is darkness made visible»
Di fronte alla consapevolezza che il vivere non è eterno e che la nostra esistenza impatta su quella di tutte le generazioni a venire, non a caso il finale vede il ‘protagonista’ cospargersi di blu: «For Blue there are no boundaries or solutions […] fight the fear that engenders the beginning, the middle and the end».
Le citazioni tra caporali sono tratte da Blue, di Derek Jarman.
Recensione dello spettacolo: https://teatro.persinsala.it/everything-and-nothing-colpi-di-scena-sguardo-nel-contemporaneo/62804/
Venerdì, 26 novembre 2021
In copertina: Thinking Blind della Compagnia (S)Blocco5.