Basta coi sensi di colpa, siamo padrone della nostra esistenza!
di Simona Maria Frigerio
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, vi proponiamo un racconto breve – perché la vita è una, e giocarsela può essere uno scherzo molto serio.
In home page ripubblichiamo anche la doppia inchiesta dedicata al femminicidio, ma anche al ruolo che le donne ricoprono nel nostro immaginario sociale:
https://www.inthenet.eu/2021/01/29/le-donne-non-solo-vittime/
e
https://www.inthenet.eu/2021/03/29/si-puo-ricominciare
Buona lettura a tutte e tutti!
Quando lasci il tuo amore alla stazione di servizio
Still crazy after all these years.
Preparo i bagagli con la solita solerzia da massaia frustrata, da apina operaia pronta per andare in ferie. Ho sempre il timore di scordare qualcosa anche se, a essere obiettivi, non vedo perché averne paura: andiamo sempre nella stessa località balneare, a duecentocinquantasette chilometri da casa, non attraversiamo frontiere né giungle tropicali: solito ombrellone a strisce e lettino (che costa quanto un bungalow alle Maldive); sulla solita spiaggia di sabbia riportata, lambita dalle alghe di un mare morto; per le solite due settimane di vacanze agostane, torride di carne umana che ti preme da ogni dove; nel solito albergo due stelle che costa quanto uno di lusso nel resto del mondo.
Ma si sa: a te le ferie le danno solo nelle settimane centrali di agosto, non ami guidare (quando non lavori), vuoi goderti il riposo – come se il resto dell’anno facessi un granché, a parte sederti sulla poltrona dell’ufficio e poi trasportare lo stesso corpo stanco su quella di casa, davanti alla tv. L’onnipresente finestra sul resto del mondo, nella quale ti illudi di vedere tutto quello che potresti vedere con i tuoi occhi dal vero, ma che preferisci ti sia impartito, con la scodella dei popcorn, da chi sceglie sempre per te. E così puoi rispondermi che non abbiamo bisogno di andare fino in Africa per ammirare un leone nella savana, ci basta andare a Cesenatico e accendere la tv su Discovery Channel.
Ti guardo, cerco di fissare la mia attenzione su di te, proprio in questo momento – mentre infilo in valigia un paio di borse di tessuto per la biancheria sporca – evitando di scrutarti dentro. Non voglio abbandonare la consapevolezza della tua carne flaccida e sudaticcia mentre ti passi un fazzoletto sotto il naso e ti lamenti perché ho già spento il condizionatore quando ci vorrà almeno un’altra ora perché finisca i bagagli (“aiutarmi, no?”). Voglio riuscire a fissare la mia attenzione sulle pieghe delle tue palpebre, leggermente appesantite dagli anni, che un tempo avrei fatto di tutto perché restassero sempre aperte per riflettermi nel tuo sguardo; sulle tue labbra che, in un qualche remoto passato, devo avere desiderato e che, adesso, mi risultano estranee eppure escrescenze del mio stesso corpo – da baciare come se fossero un ferro da stiro o il mio ginocchio.
Noi, la coppia perfetta, invidiata, con una bella casa e un’auto nuova ogni due o tre anni (perché tu odi buttare via tempo dal meccanico, come se in quel tempo recuperato facessimo chissà che). Con i cellulari – oggetti di culto della società che ambisce alla mancanza di contatto diretto – sempre all’ultima moda, e la tua mania per le montature degli occhiali che vorresti cambiare per intonarle ai calzini e alla cravatta – come un tempo si faceva coi gemelli e come tu mi rimproveri di non fare con le borse. Invidiabili con la nostra sicumera ignorante che ci porta a una cieca adesione all’opinione di massa: sembriamo così felici, riconciliati, soddisfatti. Quando mi sono accorta che siamo sopravvissuti a noi stessi? Che la nostra immagine pubblica è uno specchietto per le allodole che, per anni, mi ha consolata dei miei fallimenti lavorativi, ma che era vuota come una canna vuota?
Chiudo anche l’ultima valigia e ti vedo sospirare soddisfazione mentre la carichi nell’ascensore. Speri di arrivare in albergo in tempo per una doccia prima di cena e mi solleciti di sbrigarmi. Io controllo tutto con la matematica precisione di mio padre: il gas della cucina (forse per la terza volta), il rubinetto dell’acqua centrale (seconda), tolgo le spine dell’antenna dalle tv perché ho sentito che un fulmine potrebbe seguire il cavo e farle esplodere (e poi mi blocco, con la spina in mano, e la riattacco all’apparecchio della sala perché, mi chiedo, me ne importerebbe qualcosa se saltasse in aria con l’intero appartamento?).
Afferro la borsa e mi accorgo che è proprio di una tinta che cozza con i pantaloni che mi sono infilata per comodità. Faccio spallucce e prendo la chiave dell’auto. Non l’hai dimenticata: è il messaggio ben poco subliminale che mi stai mandando – non hai voglia di guidare, le tue ferie sono iniziate ieri.
Scendo a piedi le scale per prendere tempo: l’idea di restare chiusa in auto con te anche solo per un paio d’ore mi assale come un incubo notturno. Gli estranei non dovrebbero mai condividere uno spazio così intimo come un ascensore o l’abitacolo di una vettura. Fatico a respirare mentre apro la porta e l’afa mi assale. Ma non è il caldo.
Tu mi guardi già seduto, rimproverandomi per aver perso tempo inutilmente. Ma so che godi a potermi rimproverare. Il tuo io si crogiola beatamente quando puoi zittirmi davanti agli amici perché, secondo te, parlo troppo e dovrei imparare a contenere le mie piccole: velleitarie idee pseudo-rivoluzionarie. E in fondo, hai ragione: si fa presto a sentirsi compassionevoli, come dici tu, quando è un altro a portare a casa lo stipendio, a uscire all’alba per vendere fumo, con quel tuo bigliettino da visita pateticamente in inglese perché la traduzione in italiano di ciò che fai sarebbe impoetica, come la frase di una canzone pop.
Siamo in auto, pronti ad affrontare duecentocinquantasette chilometri di viaggio insieme, su un’autostrada italiana intasata di partenze come cinquant’anni fa. Perché sembra che l’italiano goda a stare in coda, adirandosi per la coda e ripromettendosi che l’anno successivo mai, e poi mai, farà nuovamente lo stesso errore di calcolo (salvo scordarsene al momento di prenotare le ferie).
Ti lamenti per l’aria condizionata che non funziona, mentre io mi congelo i piedi. Al casello accendi la radio, ti accomodi meglio sul sedile e sprofondi quasi subito in un sonno profondo: russi perfino, con un borbottio sordo che, a ondate, si fa sempre più insistente. Per un attimo ti svegli, di soprassalto, mi guardi incerto su dove ti trovi, e riaffondi nel limbo.
Io mi perdo nel ricordo di lui – l’altro. Quello entrato per caso nella mia vita quando ormai pensavo di aver tirato i remi in barca per sempre, di potermi sedere anch’io sulla poltrona accanto a te per assopire la mente definitivamente. E invece compare lui, a un corso – uno dei tanti che a volte seguo per noia, come diresti tu; per imparare qualcosa di nuovo, per sentirmi utile o creativa o semplicemente viva, ti risponderei io. E quando meno te lo aspetti comincia a importarti il taglio dei capelli, la ruga che si va approfondendo all’angolo degli occhi, che le scarpe si intonino al vestito, di sapere di fresco, di sembrare intelligente e arguta, di essere informata, di rispondere alla domanda – a qualunque domanda. E lui ti parla in maniera così intima che sembra conoscerti da sempre. E anche tu lo riconosci. Perché l’attrazione è questo: il narcisistico rispecchiarsi in noi stessi. Il primo approccio è identitario: si riconosce a pelle l’appartenenza, il sentire comune, l’affinità elettiva – o semplicemente l’attrazione fisica. La scoperta dell’altro, come altro da sé, è una fase successiva. Quando mi sono accorta che lui mi piaceva, prima di Natale, ho deciso di allontanarmi, smettendo di frequentare il corso. Ero spaventata. Durante le vacanze mi sono quasi convinta che era meglio così: immergermi in un bagno di realtà e smetterla di trastullarmi con sogni impossibili. Mi sono detta che mi stavo illudendo e che era ora di crescere: è prerogativa maschile incorrere nel complesso di Peter Pan – non femminile. Anche l’amica del cuore mi ha detto, tagliando corto, di “non far cazzate”. E quando sono tornata a lezione, decisa a lasciare, mi sono scoperta fredda nei suoi confronti. Non provavo più nulla – o così mi sembrava. Pensavo di essermi illusa, di essermi creata un avatar di passione solo per riempire i vuoti che stavano diventando voragini, per evitarmi di precipitare nel nulla – in quell’assenza affettiva che ti accompagna alla morte. Ma poi è tornato a infestare i miei pensieri, i sogni del dormiveglia, i desideri notturni.
Ti do uno strattone per svegliarti. Scuoti la testa pensando che si sia già arrivati. Ti sorrido e ti dico che no, che ho bisogno di un caffè e se vuoi seguirmi al bar. Tu scuoti la testa mezzo assonnato. Non hai voglia di uscire dall’abitacolo: l’aria condizionata ha finalmente scacciato l’afa (e i miei piedi lo provano: sono due ghiaccioli che fatico ad appoggiare a terra).
Entro nella stazione di servizio e guardo il cellulare mentre mi metto in fila alla cassa. Code, file: sospiro e mi rassegno. C’è un suo sms: “Molla tutto. Prendi il treno e raggiungimi. Sai dove sono”. Dopo settimane che non ci vediamo, cosa gli passa per la testa? Non sono un pacchetto da scartare o abbandonare sulla tavola, a piacimento. E poi come ha fatto a capire che continuo a desiderarlo? Sono settimane che mi impedisco di scrivergli o di chiamarlo. Ma il corpo, forse, lo sguardo, quell’affrettarsi o trattenersi di un respiro, quella tensione sessuale che si fatica a reprimere e finisce per elettrizzare anche l’ambiente che ci circonda, possono essere più espliciti di tutte le frasette dei Baci Perugina. Il suo messaggio è chiaro. Adesso sono io quella che deve scegliere. Continuare il viaggio verso Cesenatico, condito con la compagnia di amici che frequentiamo da vent’anni, il ristorante in riva al mare per la sera di ferragosto, la sicurezza di una stabilità che è talmente difficile da raggiungere in questa nostra Italia sempre più in crisi, sempre più dimentica, sempre più egoista. Tenendo presente che ho quarant’anni – un’età in cui si deve pensare alla vecchiaia, procurarsi delle garanzie, delle sicurezze. Oppure, cosa? Il vuoto, il non sapere cosa accadrà, l’incertezza dei vent’anni che sembra dischiudere possibilità infinite – e a quaranta è il baratro. Per un attimo, mentre bevo il caffè (freddo e lungo come una brodaglia), penso di cancellare il messaggio: farò la brava, mi ripeto – come da bambina.
E, come da bambina, esco dalla stazione di servizio e mi guardo intorno. Una mamma giovane tenta disperatamente di fare entrare la figlia in auto. L’aiuto a convincerla che la Coca-Cola gelata non è un’idea geniale con il caldo torrido che ci sta togliendo il respiro. E poi uso un diversivo: il mio portachiavi. Le piace: ha la forma di un rospo con la corona. Ride. Il trucco funziona sempre. Adesso vuole il portachiavi. La mamma è imbarazzata: abbiamo sostituito un capriccio con un altro? E allora invento: le chiedo se mi darebbe un passaggio fino alla prima uscita perché la mia auto non funziona e non sono socia Aci e la mia assicurazione non copre il carro attrezzi in autostrada, ma nel primo paesino vive un amico iscritto all’Aci che potrebbe chiamare. Mi domando come sia riuscita a inventarmi una frottola tanto complicata e assurda. Ma la bambina è contenta: tiene il mio portachiavi in mano e non vuole lasciarlo andare. La mamma mi squadra da capo a piedi: accenna di sì col capo, si fida. E partiamo. Per un attimo guardo nello specchietto retrovisore: ti scorgo che stai ancora dormendo. Quando ti accorgerai che non ci sono più? Forse quando l’effetto dell’aria condizionata scomparirà del tutto e ti ritroverai fradicio e sonnolento? Per un attimo penso di chiamarti, ma poi ricordo che ho raccontato quella frottola alla donna e mi contraddirei. Potrei mandarti un sms: non vorrei che chiamassi la polizia per farmi cercare. Ma poi sospiro e mi dico che no, che ci sarà tempo per fare tutto: adesso devo solo raggiungere una stazione ferroviaria.
Tratto da Vagabondaggi, ©Simona Maria Frigerio, 2017 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
Venerdì, 26 novembre 2021
In copertina: Foto di Free-Photos da Pixabay.