Katie Mitchell nel multiverso e Thomas Ostermeier negli anni Novanta
di Anna Maria Monteverdi
In una Berlino in pieno clima elettorale, alla ricerca di una guida che sostituisca la Merkel, e in un settembre che sembra pieno agosto, i teatri inaugurano la stagione con ricchissime programmazioni; in generale la proposta culturale per abitanti e turisti, sembra portarci al di là del Covid. Dalla prenotazione on line dall’Italia per i due debutti allo Schaubuhne di Katie Mitchell e di Thomas Ostermeier (padrone di casa dal 1999) all’arrivo in Germania c’è di mezzo un nuovo protocollo che ha permesso di aumentare la capienza al 100% dei teatri. La qual cosa ha consentito prevedibili sold out, quanto mai benefici in questo periodo.
Berlino ci accoglie nella sua veste migliore: moltissimi eventi e iniziative per i visitatori pur con la difficoltà di prenotazione per i Musei dovuta alla richiesta aumentata esponenzialmente in breve tempo.
Quando arriviamo, in tutta la città è in corso la XVII edizione del Festival di luci che dalle ore 20 illumina monumenti storici della città (70 location) con videomapping e altri effetti straordinari. Edifici emblematici come la Cattedrale, la Torre della Tv, la Porta di Brandeburgo, le Stazioni ma anche strutture che hanno voluto ʻesserci’ in questa vetrina di luce: le Ambasciate e persino l’edificio Pfizer in Potsdamer Platz. La folla gigantesca, itinerante a piedi o con gli autobus panoramici, ha così visto la città con occhi diversi. Peccato che gli effetti di videomapping – tranne alcune eccezioni – fossero davvero banali e già visti! Un’operazione commerciale che dà sicuramente i suoi frutti in termini di presenza di pubblico, ma che non sembra giustificata dalla qualità dei contenuti, nonostante il tema fosse interessante: la creazione di domani tra ecologia e sostenibilità. Forse proprio le proiezioni sulla Torre della Tv, sulla Cattedrale e sulla Porta di Brandeburgo sembravano quelle più intriganti, le altre proponevano il consueto tema della storia dell’edificio raccontata in animazione grafica per lo più in 2D in sequenze di cinque minuti.
In ore diurne visitiamo l’enorme spazio culturale Humboldt Forum, all’Isola dei Musei, appena inaugurato (almeno una parte), che accoglie nel grande cortile e nel ‘corridoio’, o ai diversi piani, musei, installazioni e ristoranti, negozi e spazi di incontro. È l’architetto italiano Franco Stella ad aver creato la veste moderna dell’architettura, che si sovrappone e si affianca all’antico edificio barocco già dimora dei sovrani prussiani e degli imperatori tedeschi, con una storia molto controversa fino alla caduta della DDR.
Al primo piano Berlin global è la novità. Si tratta della mostra interattiva super sensoriale (con ogni tipo di tecnologia e ogni genere di materiale artistico sulla città: da toccare, guardare, ascoltare…), che si sviluppa su 4.000 metri quadrati (servono almeno due ore per visitarla tutta) e raffigura come la città e i suoi abitanti siano collegati al resto del mondo. Tra immagini di una Berlino storica, con ricordi della guerra inframmezzati alla musica e alla moda, la mostra è in linea con le proposte di esposizioni ‘emozionali’ interattive che hanno invaso le città in questi ultimi anni.
Al Teatro Schaubühne, collocato nell’elegante Kurfürstendamm, in pieno Festival della Drammaturgia (Internationale Neue Dramatik) con un focus per questa XX edizione su Angelica Liddell, vengono proposte ben tre nuove produzioni del suo direttore, Thomas Ostermeier: una aveva appena debuttato ad Epidauro (Edipo) e una alla Biennale (Qui a tué mon père). Qua a Berlino ha la prima, invece, La vita del Vernon Subutex dal testo originale di Virginie Despentes con la regia di Thomas Ostermeier. Ma lo Schaubühne non è solo Ostermeier; nel 2021-2022 ospita Milo Rau, Katie Mitchell, Simon McBurney, Marius von Mayenburg.
Nessuna fine del mondo di Chris Bush con la regia dell’inglese Katie Mitchell, regista residente al National Theatre ma che spesso crea spettacoli in produzione con lo Schaubühne, è una proposta originale. Innanzitutto il titolo è scritto proprio così, con l’aggettivo indefinito barrato che dà due versioni: la fine del mondo ci sarà, oppure non ci sarà alcuna fine del mondo. È una specie di proposta teatrale del ‘multiverso’ in versione ecologica; non saprei infatti come definire la prima mezz’ora dello spettacolo in cui un evento apparentemente normale (un colloquio per una borsa di postdottorato di scienze ambientali della giovane Anna Vogel con la famosa ricercatrice climatica Prof. Uta Oberdorf) diventa l’occasione per proporre le infinite varianti, le mille possibili e sottili differenze con cui una situazione può risolversi, andando in una direzione o in un’altra. Il colloquio è breve, oppure è lungo, la ricercatrice arriva presto oppure è in ritardo, è ben disposta al colloquio oppure non ne vuole sapere perché ha pregiudizi, e così via. Un tempo si chiamavano ‘universi paralleli’, oggi si parla di multiverso, anche e soprattutto grazie agli studi di Stephen Hawkins. Il fisico ipotizzava l’esistenza di numerosi universi esistenti oltre al nostro, che non sono a noi visibili. La teoria del multiverso determina universi identici non comunicanti, anche se potenzialmente potrebbero esercitare un’azione reciproca. Come tradurre teatralmente tutto questo? Se il nostro Pianeta sta subendo le conseguenze dell’azione dell’uomo (l’Antropocene) forse sarebbe possibile trovare un altro universo parallelo in cui questo non è accaduto? Ci sono mille modi per raccontare una storia, e ogni variazione diventa una possibilità, una chance anche per il Pianeta. Comunque nello spettacolo non si sa se davvero all’orizzonte ci sia la fine del mondo: dipenderà da noi, da chi lo ‘usa’, da come ci comporteremo. Il tema del riscaldamento globale, della deforestazione, della sparizione dei ghiacci antartici: c’è in questi grandi temi una nostra incapacità di comprensione delle cause. La crisi climatica, dice la regista, è quell’‘iperoggetto’, troppo grande per essere completamente catturato ma che si intreccia con ogni aspetto della nostra vita. Cosa può fare il teatro per mettere in atto realmente una vera pratica ecologista? Mentre si parla di neve rosa, di sparizione di specie protette, tutta l’energia dello spettacolo è prodotta da due cicliste che pedalano ininterrottamente per produrre i kilowatt per la luce e per l’audio. Ci informano che la potenza muscolare genera 120 watt per bicicletta. Per quanto il testo possa essere intrigante, la soluzione scenica, però, non appare ancora risolta, addirittura sembra priva di una vera regia nonostante questa porti la firma niente meno che di Katie Mitchell, non nuova a operazioni di questo tipo. Infatti con la scenografa Chloe Lamford aveva diretto Atmen (o Lungs in inglese) sempre in coproduzione con lo Schaubühne (2019), in cui al centro c’era la riflessione sull’aumento della popolazione e sul cambio climatico dovuto all’inquinamento, per il quale occorre un impegno attivo. Un contatore sopra il palcoscenico mostrava in tempo reale l’aumento progressivo della popolazione mondiale e due atleti generavano con le biciclette l’energia necessaria.
Decisamente di altro genere è lo spettacolo di Ostermeier, La vita di Vernon Subutex previsto come debutto a maggio 2020, poi posticipato a novembre 2020… infine a settembre 2021: il Covid ha causato questa lunga attesa. Anche in questo caso la drammaturgia è al femminile (Virginie Despentes): un giovane appassionato di musica ha un negozio di vinili a Parigi; frequenta la scena musicale degli anni Novanta, è attorniato e idolatrato dalle groupies femminili con le quali apre e chiude storie. Ma questo è il passato. Oggi è in totale crisi, Napster e i vari programmi on line di file sharing hanno fatto capire la fragilità di quel mercato: la riproduzione della musica col digitale porta alla chiusura di molti esercizi commerciali. Lui non vuole riconvertirsi o tentare nuovi lavori e pian piano tocca il fondo. L’amico ed ex compagno di band diventato leggendario, il cantante Alex Bleach, muore; abbandonato, diventa un couch-surf senza fissa dimora, fa esperienza della disuguaglianza, dell’abbandono sociale, gira i vari circuiti di amici e di amiche per avere una stanza e si riaccendono ricordi. Ha una sola speranza, due ore di girato inedito in vhs di Alex – che è la sua ricchezza. Ogni casa che gira è una storia da raccontare con le parole e con la musica: storie al limite, storie di disperazioni e di fallimenti. Quanti musicisti sono in questa condizione con il Covid, dice Ostermeier in un’intervista: senzatetto, senza reddito, con i palchi chiusi a tempo indefinito: l’emergenza sanitaria ha esacerbato le differenze sociali.
Sul palco c’è un gruppo rock che suona Sonic Youth, Dead Kennedys, Gang of Four o altre colonne sonore di un’epoca che non c’è più; la scena girevole – come un Lp – è ricca di monitor anni Novanta con i videoclip di The Cure o Siouxsie and the banshees. Impossibile raccontare tutte le sfumature e trovate sceniche e narrative anche molto divertenti che raccontano i personaggi. È una galleria straordinaria che va da uno sceneggiatore sfigato a un ex punk convertito alla destra estrema, un musulmano liberale con una figlia fondamentalista, una ex-pornostar femminista che scrive racconti per bambini. Il finale, completamente inaspettato è assolutamente filosofico e persino spirituale. In una totale degradazione della sua vita, Vernon sembra avviarsi per un cammino di non ritorno. Invece, un monologo riabilita la sua figura che conserva dentro di sé l’impronta di tutti quelli che hanno vissuto con lui, le loro identità, la loro sensibilità, le loro utopie, i loro sogni di una società diversa. Lui è ciascuno di loro, libero sia dal male che dal bene senza più alcuna distinzione tra sé e gli altri. Davvero ben organizzato scenicamente e ben amalgamato, lo spettacolo ha un protagonista davvero eccezionale, un attore che non ha reso il personaggio una macchietta, ridotta sul lastrico dalla globalizzazione e dalle economie digitali, vittima come tanti del neoliberismo. Ne ha invece estratto un ritratto generazionale profondo e commuovente che il pubblico ha apprezzato moltissimo.
venerdì, 24 settembre 2021
In copertina: Il Festival of Lights ha illuminato Berlino dal 3 al 12 settembre 2021. Foto stock di Michael Kauer da Pixabay.