È il medium a determinare il contenuto
di Simona Maria Frigerio
Nell’arte (figurativa) contemporanea non è il soggetto a essere centrale, bensì la forma. In parole povere, non apprezzeremo un quadro perché contiene un girasole che ricalca fedelmente l’originale ma ‘un Van Gogh’ che, quando dipinge il ‘suo’ girasole, esprime nello stesso l’originalità della sua pennellata, della sua trasposizione artistica (o sublimazione) del reale. E se lo farà con un girasole, un iris o un campo di grano avrà il medesimo valore (artistico e pecuniario).
Allo stesso modo il cinema abbisogna, da un lato, di mezzi di ripresa quali la cinepresa; e, dall’altro, di mezzi di riproduzione, quali il grande schermo o il Dolby surround – sistemati in un luogo che garantisca una fruizione continua, visivamente e acusticamente ottimale, per il tempo necessario. Alla fine, ciò che determinerà che il prodotto filmato e trasmesso sia riconosciuto come film – a livello sociale e culturale – sarà la capacità del regista di dare un’impronta propria a quella ripresa e alla sequenza di immagini – coadiuvato da almeno altri tre tecnici/artisti basilari, quali il direttore della fotografia, lo sceneggiatore e il montatore.
In questo periodo, però, di sospensione delle attività performative dal vivo e, sebbene il Governo per riattivarle avesse imposto criteri rigidi sia a livello produttivo che di fruizione (costati soldi dei contribuenti, dato che i teatri sono finanziati da Stato, regioni e comuni, e per le cui spese dovrebbe rispondere a chi paga le tasse) salvo poi cambiare idea richiudendo tutto, il mondo del teatro come ha reagito? Qualcuno, conscio di non avere in proprio i mezzi adeguati e di non voler presentare al pubblico un prodotto scadente, ha dato – con classe – forfait. Qualcun altro, nel secondo periodo di lockdown, si è chiuso in teatro e si è concentrato sul lavoro produttivo o sull’offerta di residenze a compagnie prive di sedi, sperando in un futuro prossimo di essere pronto per la messinscena di fronte agli spettatori – dato che, senza lo spettatore, il teatro non ha uno tra i suoi elementi costitutivi. E infine, un certo numero di professionisti del settore ha optato per forme varie di teatro online. È su questi ultimi che ci concentreremo.
Di cosa parliamo quando parliamo…
Premessa. Online, multimedialità e intermedialità sono termini che definiscono mezzi di produzione e/o fruizione diversi. La multimedialità (ossia l’uso, ad esempio, del recente face mapping o del vetusto video in uno spettacolo dal vivo) è entrata stabilmente nel mondo del teatro almeno dagli anni 90 (come dimostra anche la recente riproposizione della Medea di Luca Ronconi con Franco Branciaroli, prodotta nel lontano ‘96). La multimedialità teatrale potrebbe essere intesa come una tra le molteplici forme espressive applicate dell’intermedialità, concetto artistico che risale al 1966 e al manifesto di Dick Higgins e si caratterizza quale utopia creativa tesa a ideare ‘prodotti’ artistici fluidi, che intersecano linguaggi e tecniche differenti – dalla musica elettronica alla videoarte – per ottenere esperienze multisensoriali che si fruiscono in maniere diverse. In questa visione possiamo far confluire, nel contenitore, dal libro digitale corredato sia di foto che di video all’esperienza kitsch di Disneyland, fino a opere artistiche pregevoli e originali quali Partiture Spaziali di Lino Strangis (che in Italia è tra i suoi esponenti più interessanti) e la celeberrima musica visuale di John Cage.
L’online, al contrario dei termini di cui sopra, è inteso, innanzi tutto, come un mezzo di fruizione e non un concetto creativo. Un medium che cerca il proprio contenuto, e non una poetica espressiva che abbisogna di linguaggi propri per concretizzarsi e rendersi fruibile. Online significa una connessione in rete e un cellulare, un tablet o un computer; non comporta necessariamente la compresenza di creatore e fruitore; il prodotto deve avere un formato che si adatti ai tre mezzi tecnologici succitati (come, ad esempio, accade a un giornale online sviluppato su WordPress, che dovrà mostrare un’impaginazione diversa dei contenuti a seconda che sia letto su pc o sull’app dello smartphone); e deve, sempre a livello di prodotto, sottostare a tempi e spazi limitati – banalmente, lo schermo di un cellulare è più piccolo di quello di un tablet e imparagonabile a una tivù e il tempo in cui ci si riesce a concentrare, a casa o su un mezzo pubblico o ovunque si utilizzi un cellulare, è ridotto sia per esigenze pratiche che psicologiche. Non è un caso che si sia diventati social-addicted, ossia usi a una comunicazione stringata sviluppata ai tempi dell’sms con un botta e risposta che non implica dialogo bensì contrapposizione di affermazioni.
La tivù come alternativa fattibile?
Tornando a quanto si scriveva più sopra, in tempi di pandemia, per le motivazioni più diverse – dal non voler farsi dimenticare dai propri spettatori, soprattutto se abbonati, al temere di perdere i fondi pubblici in caso di inattività, fino al più nobile obiettivo di tentare nuove strade artistico-espressive in tempi in cui la compresenza è vietata – molti teatranti hanno saggiato la via della messa in scena di spettacoli teatrali su varie piattaforme, così da permettere allo spettatore di fruirne dal cellulare come da un tablet. Questo perché – elemento che non va sottaciuto – la televisione non potrebbe mai tradursi nel medium teatrale.
Aldilà di ovvie motivazioni estetiche – dal fatto che l’occhio del pubblico, frontale a una tivù, non è altrettanto libero di quello dello spettatore verso i 180° del palcoscenico; al rischio di scimmiottare il gusto cinematografico o televisivo; fino ai limiti delle riprese e del montaggio per l’espressività e il gesto attorali rispetto alla libertà del recitare su un palco – mettere in onda l’intero, complesso ed effervescente mondo teatrale (dalla prosa alla lirica passando per la danza) sarebbe pura fantascienza. Sia perché non si può trasmettere per 48 ore al giorno in un mondo organizzato su 24; e sia perché i mezzi e i tecnici per riprese video di qualità comporterebbero costi elevatissimi e intere squadre di professionisti che dovrebbero coprire l’intero territorio nazionale. Fermo restando che, anche se fosse effettivamente possibile ed economicamente sostenibile riprendere e mandare in onda almeno un decimo di quanto si produce e si mette in scena, lo spettatore finirebbe per avere un’offerta alquanto limitata – subordinata alle decisioni dei dirigenti della tivù di Stato, probabilmente molto commerciale (vista l’importanza dello share per i guadagni pubblicitari) e poco attenta a compagnie e artisti di innovazione e ricerca, più giovani o meno noti, di fruizione più complessa, o semplicemente con sede in paesini sperduti (il che non si pensi sia l’eccezione, basti nominare tra i molti il Teatro delle Ariette in quel della Valsamoggia).
Teatro online? No, grazie
Alcuni teatri, negli ultimi mesi, hanno aperto i loro archivi e permesso al pubblico da casa di rivedere spettacoli di repertorio preregistrati. Scelta da applaudire, soprattutto durante il primo lockdown, perché ha permesso agli studiosi di vedere, magari per la prima volta, chicche da cultori e a milioni di potenziali neofiti di avvicinarsi a ottimi spettacoli della storia del teatro (sebbene, a volte, vetusti) così da trascorrere qualche ora lontani da meme terrorizzanti e serial-spazzatura statunitensi.
Alcuni teatranti più arditi hanno però pensato al teatro online come a una forma a sé stante, un ibrido artistico che potesse avere un contenuto e un contenitore conformi, traducendo con velleità artistiche e piattaforme le più varie (da Zoom a Tik Tok fino al quasi obsoleto YouTube) una forma performativa dal vivo, tridimensionale, caratterizzata da un tempo e uno spazio propri, con ritmi e linguaggi decodificati, in un precotto da microonde che dovrebbe andare bene sul palcoscenico così come nell’universo bidimensionale, sclerotizzato e veloce dell’online.
Pensiamo, al contrario, alla serie Green Porno, e soprattutto alla sua prima stagione, che vedeva una geniale Isabella Rossellini dietro la macchina da presa, girare e montare mini-video per il Sundance Channel di Robert Redford – ponendosi già domande sui tempi di fruizione, sui soggetti da filmare (i minuscoli invertebrati scelti anche perché adatti al formato dello schermo utilizzato dal fruitore) e sulle storie da raccontare, che dovevano per forza essere brevi (per cui scelse i rituali di accoppiamento). Era il 2008 e, ovviamente, si trattava di ideare ex novo riprese documentaristiche e un montaggio adatti per una narrazione ironico-scanzonata e un medium, in ogni caso, pseudo-cinematografico.
I nostri teatranti – poco avvezzi a guardare oltre frontiera o ad altri medium fino a pochi mesi fa – non si sono posti, a differenza della Rossellini, alcuna domanda; né tanto meno hanno pensato di dover imparare a usare una telecamera; studiare come si fa un’inquadratura; passare giorni a scegliere il materiale da montare perché il tempo e il ritmo corrispondano alle obiettive possibilità di fruizione; scrivere un plot ad hoc che funzioni; costruire un sound design adeguato al mezzo; verificare che le immagini su un cellulare abbiano la medesima qualità e comprensibilità che su un computer, e così via.
Quando il drammaturgo Samuel Beckett scrisse per la tivù, creò Quad. Quando si cimentò con la radio, Embers. Entrambi capolavori. Erano gli anni tra i 60 e gli 80, ma il premio Nobel per la letteratura quando si confrontò con un medium diverso dal teatro, costruì prodotti artistici originali per quel medium, non cercò di riadattare per lo schermo una tragedia greca.
E qui sta il vulnus. Pensare di usare un mezzo per un altro inficia la specificità del prodotto artistico creato, minandone le basi ma non restituendo al fruitore/spettatore un nuovo prodotto altrettanto valido.
Venerdì, 11 dicembre 2020
In copertina: Foto di Noé Calderón da Pixabay.
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