La retorica delle celebrazioni cede il passo all’obnubilamento da Covid
di Simona Maria Frigerio
Mentre le celebrazioni dantesche sono finite in sordina (viste le continue restrizioni soprattutto nel mondo della cultura e dello spettacolo dal vivo) – salvando giusto, per fini biecamente commerciali, eventi come intitolare un vino toscano all’Inferno (dimentichi che esiste già un eccellente Valtellina superiore Inferno Docg, tipicamente lombardo) – e ci si è bellamente scordati di iniziative abbastanza velleitarie quali Una parola di Dante al giorno, dell’Accademia della Crusca (dimentica che le lingue sono vive ed è elitario cercare di reintrodurre termini che non corrispondono più al nostro vivere e sentire – https://www.inthenet.eu/2021/01/22/litaliano-e-figlio-della-commedia/), cerchiamo, invece, di comprendere quali termini – italiani e stranieri – ci abbia regalato la pandemia negli ultimi 18 mesi. Forse riusciremo, proprio attraverso la lingua, a comprendere la logica sottesa alle azioni.
Coprifuoco. Come si può immaginare il termine prevede che si spengano le luci: in epoca medievale per evitare gli incendi – dato che le case erano illuminate e riscaldate da fiamme che, se non controllate, perché ci si addormentava, potevano incendiare interi caseggiati, allora composti in prevalenza di case di legno o paglia. In seguito, soprattutto durante la Seconda guerra mondiale, spegnere le luci (o sbarrare le finestre che le avrebbero fatte filtrare all’esterno) di casa rendeva più difficile all’aviazione nemica individuare e colpire gli abitati. Cosa c’entri questo termine con l’obbligo imposto agli italiani di starsene chiusi in casa per fronteggiare un virus che non circola maggiormente di notte (come, al contrario, la malaria, portato dalle zanzare di genere Anopheles, le cui abitudini sono di muoversi e pungere dopo il tramonto), dandosi a tutti gli sprechi energetici possibili (dal forno a microonde per scaldare cibi precotti, consegnati con motorini a olio lubrificante-carburante, ad apparecchi elettrici di ogni sorta) resta un mistero. Ma l’idea che, forse, si vuole inculcare nella cittadinanza è che la notte sia più pericolosa, ossia che le attività culturali e sociali che, di solito, si svolgono di sera – dopo il lavoro in ufficio o in fabbrica – siano più pericolose di ciò che accade in un allevamento intensivo, un’acciaieria o in una mensa – anche se il green pass in mensa (quando abbiamo scritto questo pezzo il Governo non si era ancora deciso al successivo, in un’escalation di tirannide propria solo del Belpaese e avallata da una popolazione imbelle) farebbe pensare che stare alla scrivania sia più sicuro che stare al tavolo…
Lockdown. Il termine inglese suona meglio della sua traduzione, ossia ‘isolamento, chiusura, blocco d’emergenza’ (come riportato da Treccani). Sorvoliamo su un’emergenza che ormai dura da un anno e mezzo… Da notare che se si fosse scritto che agli italiani era imposto l’isolamento forse a qualcuno sarebbe venuta ansia e i nostri Governi, allegramente succedutisi negli ultimi 18 mesi per gestire in maniera approssimativa la pandemia, grazie anche alla complicità dei mass media, hanno optato per un termine che, in quanto straniero, ha un sapore meno angosciante – evitando di ammettere che, invece di investire in trasporti, medici, infermieri, strutture ospedaliere, scuole e insegnanti, sarebbero ricorsi ‘all’isolamento dei cittadini’. Se solo un politico lo avesse apertamente ammesso…
Jub. Chissà perché a un certo punto invece di parlare di dosi vaccinali o richiami si è cominciato a ventilare che gli italiani avrebbero necessitato di una jab! Se qualche italiano conoscesse meglio l’inglese forse il termine sarebbe parso meno appropriato dell’italiana ‘iniezione’, che a volte può avere anche connotati positivi a livello metaforico: ad esempio, si dice ‘fare un’iniezione di energia’. Al contrario, jab è, sì, iniezione, ma anche colpo, pugnalata, il diretto della boxe, e persino stoccata in senso di frecciatina. Ma si sa che masticare altre lingue non è propriamente in uso nella Patria dei santi, poeti e ‘navigatori’.
Booster. Quello che (Treccani docet) era un: “Nome generico di apparecchio, macchina o motore ausiliario che in taluni impianti o veicoli interviene per sopperire a determinate esigenze di carattere eccezionale oppure per svolgere normalmente particolari funzioni”, negli ultimi anni è diventato un termine ben noto alle consumatrici di creme antirughe. Dopo i filler che non riempiono niente, tranne le tasche delle aziende che li producono, si è passati ai Youth Booster, Booster Jeunesse, che – ‘lo dice il nome’ (affermano le pubblicità in rete) – “amplificano i benefici di creme e sieri”. Ossia, di quegli stessi prodotti che non funzionavano prima con le zampe di gallina ai lato degli occhi, e adesso con l’amplificatore funzioneranno tanto quanto – ma si sa che “chi visse sperando, morì non si può dire” (Litfiba docet).
Dopo questa pausa, rieccoci con il booster che equivale a ‘terza dose di vaccino’. Senza equiparare le prime due dosi alle creme antirughe di cui sopra (sia mai!), la domanda che sorge spontanea è: perché se in Israele il ‘richiamo’ va fatto nel giro di 6 mesi, in Italia dopo 12 (dato che la validità del green pass – e, quindi, l’efficacia dei vaccini – solo in Italia, dovrebbe passare da 9 a 12 mesi)? E in Europa restiamo a 9? Abbi dubbi.
Come ha dichiarato Massimo Cacciari: “Avevo inteso che la durata fosse eterna… poi cosa intendono fare, un’altra campagna di vaccinazione obbligatoria per il 90% degli italiani che già era vaccinato? A questo punto, non so, rendiamo obbligatorio anche il vaccino per l’influenza, visto che poi questo virus diventa esattamente come quello dell’influenza, destinato a indebolirsi col passare del tempo” (https://www.adnkronos.com/green-pass-cacciari-valido-un-anno-ormai-siamo-paese-dei-balocchi_5TV6NAp9gAq39FAnFs4FI ).
Green Pass. Il termine composto, ormai sulla bocca di tutti, è davvero la miglior metafora del simbolo di uno Stato di polizia. Partiamo da green che, ovviamente, significa ‘verde’ e rimanda al semaforo verde, ossia al fatto che possedendolo, tutte le strade dovrebbero essere libere perché noi le percorreremmo in sicurezza. Poi uno parte per Hong Kong, per lavoro, e scopre che deve farsi 14 giorni di quarantena, ossia restare rinchiuso, da solo, in una stanza angusta di un hotel, e sottoporsi a una serie di tamponi, come se il completamento del ciclo vaccinale italiano valesse meno di zero. Semaforo rosso anche negli States per gli europei (almeno fino a fine agosto), mentre la lista dei Paesi in cui quel green non equivale a semaforo verde è davvero lunga. A questo punto si potrebbe pensare che green si riferisca ad altri significati: quali “capo d’abbigliamento o accessorio creato per i giovani o comunque informale” (Dizionario d’Italiano del Corriere della Sera) – della serie che fa cool & chic portare la mascherina nera e il pass verde? – oppure “semplice, inesperto, ingenuo” (Garzanti Linguistica) – della serie che siamo una manica d’imbelli e ci stiamo facendo prendere in giro? Ma forse il green vuol rimandare al PNRR e a tutto quel greenwashing che stanno compiendo molte aziende inquinanti, ossia inventarsi un’immagine di facciata eco-friendly, che significa – in italiano – sbandierare un ambientalismo solo esteriore. In ogni caso, il green è di moda e l’Italia, capitale della moda ma soprattutto dell’apparenza, leggerà in quell’aggettivo un significato positivo che va ben aldilà di ciò che il ‘pass’ (ossia il ‘tesserino’) ci dà realmente modo di fare, o delle aree (del mondo) nelle quali ha una qualsiasi validità. Perché se è vero che l’Europa accetta solamente i ‘suoi’ vaccini, è altrettanto vero che così stanno facendo gli altri Stati – e se l’Unione Europea conta meno di 450 milioni di persone, il resto del mondo supera i 7 miliardi: chi vincerà la partita?
Attendiamo ulteriori suggerimenti. Le lingue sono sempre il frutto della società che le coltiva. E il loro uso non è mai scevro di componenti tese a persuadere più che a comunicare onestamente.
Untore. Ci è giunto in redazione tale suggerimento. Leggiamo sul vocabolario di Treccani: “Chi unge, ungitore. In partic. si chiamarono untori coloro che nella peste di Milano del 1630 furono sospettati di diffondere il contagio ungendo persone e cose (per es., le porte delle case, le panche delle chiese) con unguenti malefici; contro di essi si scatenò spesso l’ira popolare, e si dette anche corso a persecuzioni giudiziarie“, come ben rammenta chi, magari al liceo, abbia letto Storia della Colonna infame di Alessandro Manzoni. Nel 2020 tale termine è stato rispolverato da un’Italia sull’orlo di una crisi di nervi per additare coloro che, positivi ma asintomatici, inconsapevolmente diffondevano il virus contagiando colleghi, parenti e amici (per quanto possibile visti i mesi di lockdown). Il suggerimento dell’arguto lettore è di rispolverarlo per i vaccinati che, oggi, grazie appunto al vaccino sviluppano il più delle volte (ma non sempre) forme lievi di Covid e, credendo di essere al sicuro e non pensando che, magari, uno sternuto sia indice di malattia, se ne vanno in giro a contagiare – com’è ormai sfortunatamente provato – colleghi, parenti e amici (magari non sempre gli stessi…).
Venerdì, 17 settembre 2021
In copertina: ‘Cos’è un populista?’ Foto di Gerd Altmann da Pixabay.