Crudeltà, ironia, realismo tra Lemmings, Cornellà e Flaubert
di Alessandro Alfieri
È impossibile comprendere il cinismo indipendentemente dall’autoconsapevolezza della verità; conoscendo la nuda realtà delle cose, l’atteggiamento può essere di sfruttamento della menzogna feticistica, che occulta questa verità (ma che, come è evidente, per occultarla necessita di una presa di coscienza lucida), oppure di sfrontata messa in evidenza della stessa, in tutto il suo crudo carico di angoscia. Per questo, il discorso del cinismo è legato direttamente alla consapevolezza della morte e del dolore: la verità che la vita sia sofferenza e morte non può venire accettata facilmente come un dato di fatto, si può reagire ad essa attraverso la mistificazione e la fantasmagoria, oppure si può ridere di essa in maniera amorale e perturbante.
La produzione di merci non è, da questo punto di vista, che un surrogato dell’edificio apollineo che la cultura ha eretto successivamente ai tentativi dell’arte e della religione, per acquietare l’uomo; l’acrobazia dell’immaginario, però, in tempi recenti non si è limitata a velare la verità tragica dell’esistenza, ma ha deciso di sfruttarne il carico di fascinazione riproponendola nel suo linguaggio e nelle sue tecniche di seduzione, disinnescandone il portato destabilizzante. Negli anni Novanta, un videogioco spopolò in ogni parte del mondo; si tratta di Lemmings, una sorta di rompicapo che vedeva protagonisti i piccoli mammiferi, celebri per essere caratterizzati da una perversa tendenza al suicidio. Il ruolo del giocatore era quello di permettere ai piccoli animaletti (che nel gioco avevano aspetto antropomorfo) di “non morire”, ovvero di uscire dal quadro senza che finissero bruciati vivi, scuoiati, affogati e quant’altro. In pochi minuti il quadro si riempiva di piccoli esserini che si accatastavano nei vari angoli dello schermo: se non si era particolarmente bravi, in poco tempo si assisteva a una sorta di olocausto terribile. Era un gioco senza ombra di dubbio cinico, ma ben armonizzato con la sensibilità degli anni Novanta: c’era la perversione di vedere morire quegli esserini, perciò il gusto catartico di vedere suicidarsi quelle entità digitali, ma il dovere del giocatore restava comunque quello di preservarli, di scongiurare la loro tragica condanna. Era cinico il piano complessivo del gioco, ma l’interazione del giocatore era salvifica, seppur costui ricevesse un appagamento in caso di sconfitta nella visione della morte crudele.
Altro discorso deve essere fatto per il successo (avvenuto soprattutto attraverso la diffusione sul web, tramite i social network) dell’arte del vignettista e disegnatore Joan Cornellà: il cinismo a questo punto ha rotto gli argini e ci troviamo su un piano ironico, che può diventare tale (ovvero divertente) solo arrivando al suo punto estremo. Le vignette di Cornellà, in poche immagini, raccontano storie aberranti, di madri che sorridono dinanzi alla morte dei propri figli neonati, invalidi investiti da auto, arti mozzati, o persino malformazioni che vengono ridicolizzate senza pietà alcuna. La stilizzazione dei personaggi redime l’ilarità: Cornellà strappa definitivamente il velo delle convenzioni per ridere di ciò di cui ci è imposto di non ridere, e il suo successo è la controprova del valore che il cinismo ha assunto oggi, a ben trent’anni di distanza da Critica della ragion cinica di Sloterdijk.
Pensiamo anche alla produzione filmica di registi quali Lars Von Trier, ma non solo: mettere ordine tra i fenomeni di massa degli ultimi anni è cosa complicata, perché le due facce del cinismo non si fossilizzano mai in uno dei due poli della dialettica, ma invertono continuamente il loro significato. Perciò, la stessa immagine, lo stesso prodotto, lo stesso slogan può apparire kinico e un momento dopo cinico in senso reazionario: la tecnica promozionale sfrutta la perversione spostando sempre più l’asticella, raggiungendo di volta in volta il territorio dell’abiezione, della volgarità, del “senza peli sulla lingua”, in altre parole della verità. Questo cinismo, che contamina anche la politica, la storia, i valori che garantiscono la convivenza civile e la sopravvivenza delle istituzioni, opera paradossalmente in nome della verità: sono cinici e veri i libri di Giampaolo Pansa, sono ciniche e vere molte dichiarazioni di determinati leader politici e movimenti, ma in questo quadro il rapporto tra cinismo e verità è palesemente sfruttato per il successo, ovvero nuovamente per ritagliarsi un posto all’interno del mercato (mercato culturale, politico o artistico che sia).
Se da un lato cinismo e realismo sono due facce della stessa medaglia, dall’altro però è evidente che “sfruttare” cinicamente il realismo è una pratica specifica di chi persegue il successo: dire a tutti i costi la verità, senza filtri o mediazioni, non è sempre la soluzione morale più auspicabile. E d’altro canto è impossibile definire in maniera ufficiale e chiara il punto di rottura dopo il quale il kinismo si rovescia in cinismo.
Il legame di sangue di cinismo e realismo emerge già in maniera forte nel XIX secolo, in epoca di letteratura realista; leggiamo queste righe tratte dall’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert:
Madame comparve quasi subito. Era una bruna alta sui quarant’anni, con la vita sottile, gli occhi belli, un fare mondano e disinvolto. Annunciò a Federico il felice esito del parto e lo fece salire nella camera della madre. Rosanette lo accolse con ineffabili sorrisi; e a voce bassa, come soffocata da una piena d’affetto, gli disse: “E’ un maschio; là, là, guarda!”. E indicava, vicino al suo letto, un lettino da neonato. Federico scostò il velo e vide fra le lenzuola qualcosa di rosso e di giallastro, incredibilmente pieno di rughe, che mandava cattivo odore e vagiva debolmente. “Su, dagli un bacio!”. Cercando di nascondere la sua ripugnanza, rispose: “Ma ho paura di fargli male…”. “No, no”. Allora a fior di labbra, diede un bacio a suo figlio.
Lo stile narrativo flaubertiano come nessun altro nella storia fa dell’adesione al vero e alla realtà il proprio principio; leggendo questa tagliente descrizione, saremmo però al contempo portati a sottolineare il cinismo dello scrittore, che poi è il cinismo dello stesso protagonista del romanzo. Ma d’altronde, possiamo negare che la descrizione del neonato non aderisca al vero, priva com’è di qualsiasi fascino romantico? È vero che è Federico a vedere nel suo figlio neonato qualcosa di rosso e di giallastro, pieno di rughe e puzzolente, e questo perché la descrizione è mediata dal sentimento e dallo stato d’animo del protagonista, ma qualcuno potrebbe affermare che la descrizione sia fuorviante? Non potremmo sostenere che un neonato è una cosa gialla, maleodorante, piena di rughe, e che tutto il resto non è che poesia? E saremmo cinici se ci pronunciassimo in questi termini?
In Flaubert, tanto nell’Educazione sentimentale quanto in Madame Bovary, la triangolazione di cinismo, desiderio e destino si esprime in maniera lucida ed efficace: i personaggi flaubertiani sono sempre sospinti dal desiderio, e spesso pur di seguire le proprie ambizioni essi sono cinici nei confronti delle persone che gli sono accanto, e questo cinismo si riflette nel cinismo dello stile dello scrittore. Ma il cinismo dello scrittore esorbita il cinismo dei suoi personaggi: la disillusione alla quale questi ultimi sono condannati, e alla quale li condanna l’autore, coincide con la vanificazione dei loro sogni e ambizioni. Per quanto essi desiderino, il loro destino è segnato già da sempre, e il cinismo del loro creatore consiste nella realizzazione di quello spazio narrativo che alimenta la ricerca ma la indirizza verso il niente. Il destino è il desiderio mai compensato e la scrittura realista che racconta questa ricerca è kinica, perché a noi esseri umani è concesso di godere unicamente della ricerca inappagata ed eternamente frustrata.
È impossibile risolvere la dialettica, decidere dove finisca il cinismo nichilista e dove inizi il cinismo libertario; l’unico modo per tutelarsi e salvarsi l’anima per non degenerare in un bestiale amoralismo sembra essere quello di seguire fino in fondo la spirale del cinismo, fino a diventare cinici nei confronti dei cinici stessi; solo portando il cinismo all’autoironia, possiamo sfuggire alla condanna cinico-nichilista che caratterizza Rust Cohle, il protagonista principale della serie True detective, che non a caso afferma: “Io mi considero una persona realista, ma in termini filosofici sono quello che definiresti un pessimista”. Solo chi è disposto a percorrere fino in fondo questa spirale, solo chi sa rivolgere come Diogene l’irrisione verso se stessi, può salvarsi oggi, e così facendo illuminare della giusta luce quanto lo circonda.
Estratto dal volume di Alessandro Alfieri, Il cinismo dei media. Desiderio, destino e religione dalla pubblicità alle serie tv, Villaggio Maori 2018 (tutti i diritti riservati).
Venerdì, 6 agosto 2021
In copertina: Due tavole di Joan Cornellà, illustratore e fumettista spagnolo.