Il Next Generation EU (PNRR) sarà il volano dell’economia italiana?
di Simona Maria Frigerio
Partiamo da due semplici considerazioni. Se in linea di principio la digitalizzazione e l’energia verde (ma in questa categoria si ricomprende anche quella nucleare) sono due settori sui quali ogni Stato dovrebbe investire, le peculiarità di ciascuno non andrebbero però sottostimate. In parole povere, se un Paese deve la propria ricchezza, ad esempio, al turismo, alla moda e ai beni di lusso, all’agroalimentare e al patrimonio artistico, quanto potranno incidere, nel prossimo futuro, i miliardi spesi per cappotti di abitazioni private e la digitalizzazione in settori quali la produzione di vini o l’hospitality? La seconda questione è ancora più complessa: chi dovrebbe decidere quali settori sono in difficoltà e come rilanciarli? L’Europa che tutto omologa verso paradigmi economici avulsi dai contesti particolari oppure un gruppo di tecnocrati nominati da un Governo di coalizione che ha cambiato i partiti che lo appoggiano, con l’abilità di un prestigiatore, e da un Premier non eletto?
Teniamo infine conto che l’Italia dovrà far fronte a stipendi della pubblicazione amministrazione, spese sanitarie e scolastiche, pensioni (che non aumentano da anni nonostante le continue promesse di cunei fiscali e altro), interessi sul debito pubblico, oltre a tutto il resto, con la finanziaria da 40 miliardi. Ora, le finanziarie, per farla semplice, contano sulle entrate fiscali che tutti conosciamo – Irpef (secondo L’Avvenire i crediti Irpef nel 2020 superano già i 23 miliardi di euro), Irpeg, Iva eccetera – e sull’emissione di nuovi titoli di Stato (che aumentano ulteriormente il debito pubblico). I recuperi Irpef, i bonus e la crisi economica (che porterà alla chiusura di attività e alla perdita del lavoro) diminuiranno tale gettito e, siccome il Next Generation EU (o PNRR) non è la copertina di Linus, presto vedremo le conseguenze dei continui lockdown. Anche la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti stanno solamente posticipando l’inevitabile.
Il green: illusioni e realtà
Il 3 febbraio 2020 Jacopo Giliberto su IlSole24Ore scriveva: “L’Italia è il Paese che ospita 60 milioni di ecologisti che «dobbiamo usare l’energia del sole», ed è il Paese in cui finora sono stati spesi e dissipati nel nulla investimenti privati pari a 300 milioni di euro spesi per non costruire 14 grandi centrali solari termiche a concentrazione, quelle che nel resto del mondo producono elettricità concentrando con specchi l’energia del sole. Un’invenzione italiana, una tecnologia italiana, ma impianti realizzati in Italia: zero. L’associazione imprenditoriale di categoria, l’Anest (Associazione Nazionale Energia Solare Termodinamica, n.d.g.), giorni fa si è riunita in assemblea e ha deliberato lo scioglimento”. E a proposito vi invitiamo a consultare il documento ufficiale redatto da Anest: https://cdn.qualenergia.it/wp-content/uploads/2019/11/ANEST_il_tramonto_del_sole.pdf (occorre prima scaricarlo e salvarlo sul proprio computer per poterlo leggere).
Un articolo breve, che non ha avuto alcun rimbalzo mediatico e che è passato sotto silenzio. Eppure in quelle poche parole possiamo racchiudere il ritratto impietoso di un’Italia che, come sempre, potrebbe essere punta di diamante della ricerca e si ritrova, al contrario, a essere fanalino di coda delle innovazioni a causa della mancanza di idealità della nostra politica, delle pastoie burocratiche, della miopia dei nostri stessi concittadini (e non stiamo parlando di briciole, dato che Giliberto nel succitato documento parla di ricavi per “un miliardo di euro ogni anno fra tubi, specchi, sensori, ingegneria, montaggi, manutenzioni”. Fa ancora più specie un altro dato (sul quale torneremo), ossia che il termodinamico “per costruire una centrale da 50 MWe servono circa 1.500 persone per tutto il tempo di realizzazione (2-3 anni)” e poi abbisogna di “un centinaio di occupati fissi su tre turni per la gestione quando l’impianto è in funzione (per 25-30 anni)”. Ma non importa, noi buttiamo la spugna e Paesi come la Spagna o la Cina la raccolgono.
Facciamo un altro esempio. Andiamo in Canada con il libro di Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà. Il caso trattato coinvolge, ancora una volta, una società italiana, la Silfab S.p.A., che decide di aprire un impianto di produzione di pannelli solari in Ontario, contando sulla Legge sull’energia verde e l’economia verde, che cercava di rivitalizzare “il moribondo settore manufatturiero dell’Ontario” liberando altresì la Provincia dal carbone entro il 2014. Di conseguenza il programma prevedeva che: “la maggior parte dei fornitori di energia doveva garantire che almeno una certa quota della forza lavoro e dei materiali venisse dall’Ontario. E questa soglia minima, di fatto, era piuttosto alta: per almeno il 40-60% dei loro materiali i produttori di energia solare dovevano rifornirsi all’interno della Provincia”. L’Europa, però, e il Giappone fanno ricorso al Wto contro tale legge, in quanto “il requisito secondo cui una percentuale fissa delle apparecchiature per l’energia rinnovabile doveva essere prodotta all’interno della provincia canadese era «discriminatorio nei confronti delle apparecchiature per la produzione di energia rinnovabile fabbricate altrove»”. Ancora una volta è il green italiano a perdere, ma come puntualizza Klein: “Il problema principale (di garanzia del libero mercato, n.d.g.) di tutti questi ragionamenti è il presupposto da cui muovono, ovvero che nel settore energetico ci sia un qualche libero mercato da salvaguardare dalle distorsioni. In realtà, non solo le compagnie dei combustibili fossili ricevono da 775 miliardi a un trilione di dollari in sovvenzioni annuali globali, ma non sborsano un centesimo per il privilegio di trattare la nostra comune atmosfera come una discarica gratuita”.
Nucleare, pannelli e cappotto: parliamone
La policy dell’Enel è chiara: “Nell’ambito delle sue attività nelle tecnologie nucleari, Enel si impegna pubblicamente, in veste di azionista, a garantire che nei propri impianti nucleari sia adottata una chiara politica di sicurezza nucleare e che tali impianti siano gestiti secondo criteri in grado di assicurare assoluta priorità alla sicurezza e alla protezione dei lavoratori, della popolazione e dell’ambiente”. Parole stimabilissime ma che, fuor di retorica, non rispondono a quelle domande che gli italiani si sono sempre posti di fronte al nucleare, bocciando a livello referendario per ben due volte la sua produzione in Italia. Aldilà degli ovvi casi di Černobyl’ e Fukushima Dai-ichi, che ci hanno reso ben consapevoli del pericolo imponderabile sotteso a tale scelta, nessuno ha ancora trovato una soluzione a quanto denuncia, ad esempio, Le Monde, circa le scorie radioattive francesi. Ad Aube (dipartimento francese con capitale Troyes) “sono sepolti i residui di bassa e media attività degli impianti nucleari francesi. Nel gergo dell’industria sono chiamati ‘a vita breve’, ma rimarranno radioattivi per diversi secoli. Tuttavia, qui, così come nel vicino sito di Morvilliers, viene stoccato il 90% delle scorie radioattive prodotte ogni anno in Francia. E ci si avvicina alla saturazione senza ancora una soluzione”.
Eliminando, quindi, dal computo quella nucleare; se per energia green si intende solare eolico e idroelettrico, ha senso che lo Stato italiano invece di puntare su impianti e progetti comunali o regionali, investa i miliardi del Next Generation EU in sgravi Irpef per il privato cittadino? A parte favorire, nel breve periodo, il settore edile nella costruzione dei cappotti (senza tenere conto che gli stessi poi abbisognano di impianti di aerazione che aumentano, per altro verso, il consumano di energia) – illudendo milioni di italiani che hanno bisogno di rifare la facciata o le grondaie o di ridipingere il vano scale o altro, di poter ristrutturare l’intero edificio grazie al 110%, il che è un falso ideologico – non si comprende che non è con le regalie al privato che si riattiva un’economia stagnante, bensì investendo in progetti di largo respiro?
Il termodinamico succitato, ad esempio, che non solamente genererebbe il ricavo summenzionato ma darebbe continuità di lavoro sia nella messa in opera delle centrali sia nella loro manutenzione, rivitalizzando altresì zone dell’Italia abbandonate a se stesse (come emerge anche nel documento che abbiamo segnalato). E poi siamo certi che molti Comuni – sia grandi che piccoli – potrebbero già avere nei loro cassetti progetti green per fornire energia pulita sia agli edifici comunali sia alle attività industriali, commerciali e alle abitazioni private. Ovviamente, in questo caso, si interesserebbe con un solo intervento una massa di popolazione elevata – come sta accadendo, ad esempio, a Lucca con la nuova centrale idroelettrica Pasquinelli che, a fine lavori, non dovrebbe impattare sull’assetto del territorio e dovrebbe fornire energia pulita a 700 famiglie (sebbene occorra aggiungere che al momento non si vede la fine dei lavori, nonostante l’intero iter sia iniziato nel 2011). In Italia si discute sempre, a livello politico, di grandi opere: convertire al green i Comuni italiani non lo sarebbe?
Sul trasporto pubblico quali investimenti?
Nel convegno annuale di Kyoto Club (l’organizzazione non profit creata nel 1999 da imprese, enti, associazioni e amministrazioni locali per il “raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas-serra assunti con il Protocollo di Kyoto”), tenutosi a dicembre 2020, si è ricordato all’Unione Europea di “puntare su mobilità urbana e regionale, elettrificazione dei trasporti e transizione ecologica dell’industria automotive”. Sempre secondo Kyoto Club, il Pnrr italiano (ossia il Piano nazionale di ripresa e resilienza) sarebbe “troppo sbilanciato sulle grandi opere” (effettivamente pare concentrarsi solamente sull’alta velocità al Sud e sui porti di Trieste e Genova).
Al contrario del settore della produzione energetica (esaminato brevemente più sopra che mira al bonus fiscale per i singoli), sul fronte dei trasporti pare manchino idee e progetti rivolti alla cittadinanza. In primis, non si contempla il fattore pendolarismo che coinvolge milioni di italiani, i quali non hanno bisogno dell’alta velocità, bensì di mezzi pubblici efficienti, anche in orari diversi da quelli canonici, elettrificati, veloci, che consentano non solamente di andare al lavoro e tornare a casa senza utilizzare il proprio autoveicolo ma altresì di recarsi a un cinema o a un teatro, la sera, sempre fidando sul trasporto pubblico.
Alcuni esempi tra i molti. La linea ferroviaria Firenze/Bologna coprirebbe il tragitto in circa mezz’ora permettendo ai cittadini dei due capoluoghi di spostarsi tra gli stessi per fruire di un evento, far visita ad amici o altro. Ma è davvero così? Venerdì 8 gennaio, ad esempio, ci sarebbe un treno che parte da Firenze alle 21.10 (e arriva a Bologna alle 21.48), dopodiché il vuoto. L’intercity notte è all’1.23 e arriva alle 3.28. Per il rientro avremmo un treno da Bologna alle 22.03 (che però arriva alle 23.50) e poi più nulla fino alle 5.33. Diventa, quindi, impossibile utilizzare il trasporto pubblico. Non ha senso parlare di alta velocità se poi non ci sono nemmeno i treni.
Al contrario, la Lucca/Firenze con i suoi bei treni nuovi dai nomi esotici continua imperterrita a funzionare al passo della lumaca: occorre circa un’ora e mezza per percorrere i 60 km che separano le due stazioni cittadine, quando saranno almeno vent’anni che da Lecco a Milano, coi diretti, si coprono 50 km in 40 minuti e l’ultimo treno da Milano parte almeno alle 23.22 (non è il massimo, ma ci avviciniamo a parametri più accettabili). Se per una disamina approfondita delle infrastrutture della Toscana possiamo rimandarvi all’articolo del collega Ettore Vittorini, https://www.theblackcoffee.eu/le-infrastrutture-della-toscana/, basti aggiungere che gli italiani, se fossero un po’ meno razzisti, si sarebbero accorti che non esiste solamente la Salerno-Reggio Calabria: il prolungamento di due sole fermate della metropolitana milanese da Sesto San Giovanni a Monza, previsto tra i progetti per l’Expo 2015, dopo 9 anni è ancora un work in progress di cui non si vede la fine.
In città va meglio? Facciamo sempre qualche esempio concreto. A parte il discorso di introdurre in tutta Italia mezzi elettrici al posto dei vecchi bus a gasolio, l’efficiente rete di trasporti urbana milanese ha un solo bus che copre il percorso Rogoredo (dove arriva la metropolitana) / Viale Ungheria (popoloso quartiere della periferia). Il bus funziona, inoltre, solamente fino alle 21.46, ivi compreso nei giorni di venerdì e sabato quando le persone potrebbero voler uscire per farsi un giro in centro, andare a cena fuori, assistere a uno spettacolo teatrale. Se le varie linee della metropolitana nella capitale, in settimana, hanno l’ultima corsa intorno alle 23.30, a Milano l’unico mezzo che ancora oggi (nel 2021) sembra funzionare continuativamente, 24 ore al giorno, nella cosiddetta ‘capitale morale d’Italia’ è la linea della circonvallazione esterna, ossia la 90/91.
Non vi preoccupate. Andremo comunque lontano: noi regaliamo bonus per i monopattini elettrici…
Venerdì, 15 gennaio 2021
In copertina: Foto di DavidRockDesign da Pixabay.