Una vita e Martin Eden: perché Svevo non ha la freschezza di London
di Simona Maria Frigerio
Come Buck, il cane protagonista de Il richiamo della foresta, anche Martin Eden (personaggio in parte autobiografico che ritrae alcune caratteristiche dello stesso Jack London, dalle traversie per pubblicare e mantenersi all’amore per una giovane altolocata) sceglie di sfuggire alla civiltà. E se il primo lo fa tornando nel branco, tra i lupi, nella natura. Il secondo decide di suicidarsi in mare – grembo, culla, origine e fine dell’essere umano e della parabola esperienziale di Eden.
Ma non è il paragone tra due opere di London ciò che ci interessa. Bensì, quello tra due romanzi quasi coevi: Martin Eden esce a puntate tra il 1908 e il 1909 (e in volume nello stesso anno); Una vita di Italo Svevo nel 1892. Entrambi raccontano la storia di un ‘giovane Holden’ ante litteram, di un’educazione sentimentale, con un narratore onnisciente che restituisce al lettore la precisa visione del mondo del protagonista (per Svevo, Alfonso Nitti). Martin e Alfonso si ritrovano a ricoprire il ruolo dell’intellettuale (o del presunto tale) che si scontra con la grettezza, la superficialità ammantata di civetteria (nelle donne) e benpensante (negli uomini), e la mediocrità borghese da salotto fin de siècle (o di inizio Novecento). Entrambi si innamorano di ‘sciacquette’ di rango superiore: Alfonso per calcolo e una certa sensualità ossessivo-morbosa, Martin per un’idea romantica e fanciullesca dell’amore. Entrambi invisi al parentado della ‘concupita’ (per ovvie ragioni economiche), poveri (anche se Alfonso con la garanzia di un salario minimo), e ‘innamorati’ di donne snobisticamente erudite ma realmente piatte e conformiste nella loro condiscendente accettazione dell’idea imperante – che non può che essere quella borghese di figlie (entrambe) di banchieri.
I romanzi si spingono persino oltre nelle similitudini perché ben scandagliano il monologo interiore dei due protagonisti (ma entrambi gli autori non osano immedesimarsi nel protagonista e, forse, nel caso di London rema contro una dose di autobiografismo), così come i moventi psicologici che li animano; mentre la società che li circonda è ritratta con un realismo che restituisce il clima e la temperie socio-culturale di una Trieste di fine Ottocento e della West Coast di inizio Novecento. E infine, il suicidio di entrambi i personaggi parrebbe quasi unire sotto un unico cappello due romanzi che ebbero diversa fortuna, come i loro autori: London, infatti, fu scrittore prolifero (con una cinquantina di libri nel bagaglio), quotato e amato in vita, mentre Svevo tutto il contrario (sebbene ottenesse l’ammirazione di James Joyce); ma laddove London è stato poi dimenticato o ‘relegato’ nella letteratura per ragazzi, Svevo ha trovato un suo posto nella storia della letteratura italiana – leggasi soprattutto a livello liceale (nonostante abbia prodotto solo Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno e poco altro).
Perché Svevo allontana e London cattura
Non possiamo non riconoscere a Italo Svevo il merito di aver creato un personaggio, in Una Vita, di perfetto inetto. E in parte di nevrotico, incapace di assumere il distacco ironico di Zeno Cosini (personaggio dell’indubbio unico capolavoro di Svevo), e che quindi si dibatte tra tentativi continuamente abortiti di adeguarsi alla mentalità e vita borghesi (che, in ogni caso, agogna e concupisce con maggior brama della ‘fanciulla in fiore’) e aspirazioni a una gloria altrettanto sfuggente perché – e il paragone parrà blasfemo – ‘se si vuol vincere alla lotteria almeno bisogna comprare il biglietto’, mentre il nostro Alfonso desidera scrivere ma poi non va oltre la prefazione.
Il distacco psicologico o la mancanza di empatia del nostro gli fanno vedere il mondo come un qualcosa di distante e il dissidio tra un sé che, in fondo, sopravvaluta, e un universo che non è in grado di analizzare più o meglio della succitata sciacquetta – intrisa di luoghi comuni da salotto borghese – lo portano a un suicidio-fuga che è la parte migliore del libro, in quanto tranchant dopo decine di pagine ripetitive in un italiano tanto forbito quanto cavilloso e involuto, dove abbondano gli avverbi, gli aggettivi e i verbi pronominali desueti (quali grandemente, aggradevole, disaggradevole, mostrarsene, chiedergliene, e così via, in uno scioglilingua che stanca la mente). Una montagna russa leggere quelle frasi dalla costruzione proustiana ma senza la verve o la capacità di restituire con freschezza e/o poesia dell’autore francese, che descrivono un universo-mondo e moti dell’anima talmente distanti da parere fotocopie mal riuscite di una telenovela messicana degli anni Settanta.
Per Martin Eden e Jack London il discorso è completamente diverso. Quella sua prosa limpida, criticata dai seguaci del Modernismo, come appare vibrante di energie, autentica nei moti dell’anima e negli impeti delle passioni, in grado di narrare senza mai scadere nel romanzesco, da un lato, o nel letterario dall’altro. E qui ci torna in mente l’Eco di Numero Zero, quando il suo protagonista spiega perché non era diventato scrittore: “mi sono accorto che per descrivere qualcuno o qualcosa rinviavo a situazioni letterarie: non ero capace di dire che un tale passeggiava in un pomeriggio terso e chiaro, ma dicevo che andava «sotto un cielo da Canaletto»”. London aveva già imparato la lezione, dando fuoco alle polveri della narrativa marinaresca e d’avventura (come fece Joseph Conrad in Gran Bretagna qualche anno prima), alle corrispondenze di guerra autorali, all’on the road ben prima che i Kerouac e i Salinger vagissero ed Ernest Hemingway iniziasse ad andare a scuola.
A Martin Eden si rimprovera l’individualismo come a London un socialismo da superuomo machista. Eppure leggiamo qualche passaggio, nella traduzione di Gian Dàuli per New Compton Editori. A pagina 97, il paragone tra la mente della sua amata: “come ce n’è tante; di quelle menti persuase che le loro credenze, i loro sentimenti e le loro opinioni siano le sole buone, e che la gente che pensa diversamente è della povera gente da compiangere” e “quella che produce oggi il missionario” è folgorante e lungimirante, concludendo il ragionamento che quest’ultimo è colui “che se ne va in capo al mondo per sostituire il suo Dio agli altri dei di cui un’infinità di brava gente si contenta molto bene”. Forse oggi nessuno scrittore, e tanto meno per ‘ragazzi’, oserebbe affermare altrettanto.
Stupisce non riconoscere la sua modernità in tempi in cui si rivaluta l’importanza della natura e stupisce ancor più leggere di quegli operai, portuali, sindacalisti, di quel proletariato incolto della West Coast che London racconta avere consapevolezza e conoscenza, ben più e meglio dei ricchi borghesi, delle idee politiche e sociali ma anche di G. B. Shaw o Henry James. La classe operaia non è mai andata in paradiso ma sicuramente a furia di reality, tivu spazzatura e informazione omologata, è difficile immaginarsela più consapevole di quella di inizio Novecento negli slum di Frisco.
Vibrante, appassionato, nostro contemporaneo: Jack London va riletto – da adulti e non solo da ragazzi.
Venerdì, 13 agosto 2021
In copertina: Foto di Comfreak da Pixabay.