Giovanna Daddi e Dario Marconcini incorniciano Handke
di Luciano Uggè
Al Francesco di Bartolo di Buti debutta il reading scenico di Daddi/Marconcini tratto dal testo ʻirrappresentabile’ di Peter Handke – dedicato alla moglie Sophie Semin.
L’esile figura di una donna, a passeggio in un giardino, che si staglia sul sipario, quasi Uno studio di figura all’aperto di Claude Monet (1886), accompagnata dalle note di A day in the life dei Beatles, ci lascia morbidamente per rivelare un interno/esterno caldo come i colori che Van Gogh aveva utilizzato quale sfondo per i suoi celeberrimi Iris (maggio 1890) o nella Natura morta con mele cotogne e limoni (dell’inverno 1887/88). Mele presenti, peraltro, sulla tavola quasi cezanniana al centro del palcoscenico – a rappresentare la natura evocata nel confronto serrato tra i due personaggi in scena.
In una giornata estiva, degna de Le Méridienne (sempre di Van Gogh), è proprio la natura a irrompere, grazie alla trama rumoristica, nei racconti e negli incisi di Dario Marconcini -insieme interlocutore interessato, amico, forse amante della donna, interpretata da Giovanna Daddi, della quale tenta di scandagliare sempre più a fondo la vita per condividere, forse, con lei quei momenti.
Un racconto sollecitato, quindi, indagato, interrotto, punzecchiato, quello di Daddi, che sviscera emozioni, ricordi, passioni, e prese di coscienza interiori eppure correlate con il mondo esterno e i suoi cambiamenti epocali. Un arco di tempo che va, approssimativamente, dagli anni 60, con la messa in discussione del ruolo della donna, ai tragici eventi della ex Yugoslavia e l’intervento unilaterale della Nato che portò al bombardamento massiccio di strutture sia militari che civili. Mentre le certezze dell’interlocutore (impersonato da Marconcini) crollano anch’esse, come quelle di un’Europa Felix, di fronte alla cruda realtà di una bambina violata.
Ma non è un racconto drammatico, quello che si srotola di fronte agli occhi della nostra mente, bensì un fluire trasfigurato reso quasi evanescente dall’impostazione registica – eppure incisivo di fronte ai grandi temi del Novecento.
Immagini di conoscenze fuggevoli e incontri amorosi sono evocati – quasi schizzati – con dolcezza, così come i luoghi nei quali avvennero. I rapporti paiono sublimati (quale quello consumato in treno) da metafore insieme curiose e trasparenti.
Ma gli avvenimenti esterni incalzano, precipitano, il rombo dei bombardamenti raggiunge la coppia/non coppia nel suo idilliaco ritiro, così come accade ai civili nel corso delle varie guerre che distruggono e compromettono il destino di uomini e donne, colpiti da invisibili ma concreti bombardieri. L’unica speranza è che l’ambulanza arrivi e passi, che sia per altri e non per loro (o noi).
Una lettura scenica che è già spettacolo con la sua capacità di catturare l’attenzione, suscitare la voglia di conoscere come si concluderà l’incontro e quali strade prenderanno i due protagonisti. Nessuna risposta certa e univoca ci/li attende. Solo il tempo, che peraltro continua a scorrere, sarà in grado di dipanare il mistero. Molti spunti per la lettura di un periodo storico relativamente lungo, ricco di processi culturali ma, anche, di drammatiche involuzioni.
Le luci (accese e iperrealiste di Riccardo Gargiulo) si affievoliscono e la scena sembra un quadro che, piano piano, si dissolve sino a scomparire così come i suoni di quella campagna che ci hanno accompagnato in modo tangibile per l’intera pièce. Un vago senso di sorpresa accompagna il finale, di uno spettacolo che riesce a coinvolgere il pubblico nonostante la staticità degli attori in scena.
Pubblicato (con modifiche) su Artalks.net, il 28 aprile 2017
In copertina: Giovanna Daddi e Dario Marconcini in scena (foto gentilmente fornita dal Teatro di Buti).