Con Marconcini/Daddi, less is always more
di Luciano Uggè
La rassegna Teatri di Confine, promossa da Fondazione Toscana Spettacolo e Associazione Teatrale Pistoiese, conquista il plauso unanime con Minimacbeth di Andrea Taddei, interpretato con maestria da Dario Marconcini (anche regista) e Giovanna Daddi.
Un lungo tavolaccio di legno massiccio che rimanda ai manieri sperduti e sferzati dal vento e dalle intemperie – consunto quanto le vite dei popolani, costretti, nelle lande desolate, a lavorare nei campi per mantenere i propri signori. Tutte le sofferenze patite dai comuni mortali, in un Medioevo che assomiglia stranamente al nostro futuro post-cambiamento climatico (o a questo presente sfregiato dalle violenze neoimperialiste), per permettere guerre di conquista ma, anche, lotte fratricide figlie di un’idea malsana e bramosa di potere. Il potere, l’autentico protagonista di questa stilizzata ma incisiva messa in scena – evocato, osannato, desiderato, vituperato e maledetto.
Una serie di quadri scandiscono lo svolgimento del dramma, accentuandone le parti drammatiche e crudeli. Ma non mancano, in questo Minimacbeth l’ironia sottile, il passaggio dal linguaggio aulico alla battuta scurrile. Quel mix di alto e basso che ha fatto grande Dante – non meno di Shakespeare.
Ogni angolo dello spazio scenico minimale è utilizzato al meglio: sotto e sopra il tavolo si svolgono vicende parallele; a meno di un metro di distanza, Macbeth e sua moglie tramano di fronte agli spettatori, complici inconsapevoli o voluttuosi voyeur.
Lanterne magiche illuminano sinistramente il regicidio. Con il semplice uso della parola, potente e immaginifica, il pubblico si ritrova sperduto negli antri bui di quei castelli, ove muoversi è perdersi nei labirinti della mente e, a ogni rumore, si sobbalza. Ci si nasconde nell’attesa, si striscia sul pavimento e infine si libra il colpo: si realizza la trama, senza esitazioni. E tutto questo, evocato mirabilmente da Daddi e Marconcini, senza bisogno di orpelli né di scenografie magniloquenti. A volte, per fare teatro basta una foglia, spazzata con leggerezza.
E il potere, termine così leggero quando si ordisce il misfatto, diventa macigno insopportabile quando lo si realizza in tutta la sua efferatezza. L’intrigo è delineato con mano sicura e ferma. E gli spettatori si trasformano nei commensali, che assistono impotenti alla presa di potere dei nuovi signori. Ma la notte, al posto della pace, incombe sui sovrani, con i suoi fantasmi persecutori, con i suoi terrori – con il rimorso di Lady e l’accecamento (psicologico) di Macbeth.
Le certezze vacillano e la macchina della congiura riparte. Il fato stregato irride. Un bosco di cavalieri mimetizzati avanza contro un re rimasto solo, abbandonato da tutti, così come avviene quando ogni forma di potere, ormai vecchio, impotente di fronte al cambiamento incessante della storia, è messo in discussione.
Un testo super-concentrato, ma molto credibile, che plasma in modo incisivo i due protagonisti, interpretati con grande maestria. Si passa dalla tragedia all’impudica soddisfazione con una naturalezza talmente disarmante, da rendere semplice ogni singolo passaggio, celando l’elaborazione certosina del vero mestiere. Un teatro quasi artigianale, nel senso migliore del termine, dove ogni singolo oggetto ha una propria storia – non solamente a livello di messinscena ma anche della vita reale e teatrale di Marconcini/Daddi.
Un dramma riassunto nelle parti essenziali, così da renderlo palpabile anche a un pubblico contemporaneo – in tutta la sua assoluta immanenza e profondità.
Pubblicato (con minime modifiche) su Artalks.net, il 24 giugno 2016
In copertina: i protagonisti, Giovanna Daddi e Dario Marconcini (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa di Teatri di Confine).