Al Ravenna Festival il primo quadro del trittico che le Albe dedicheranno alla Divina Commedia
di Luciano Uggè
La cittadinanza accorre per un Dante che non è mai apparso così attuale: la pacifica città romagnola riecheggia dei versi del poema medievale, mentre il Teatro Rasi si trasforma nei gironi infermali dell’Alighieri. Seguiteci in questa esperienza immersiva nel teatro di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari.
Il primo step è alla Tomba di Dante. Sorprende subito la partecipazione dei presenti a quello che si pensava fosse una semplice introduzione, da parte di Martinelli e Montanari – guide di un percorso laico attraverso la città di Ravenna, per incontrare Beatrice, la donna angelicata che li e ci rassicurerà e inciterà, come fece con Dante, a proseguire il percorso.
Sulla ex chiesa, ora Teatro Rasi, campeggia una scritta: “Per me si va…”, come su molte altre chiese – allineata con diciture anche più funeste, come il famigerato Arbeit macht frei. E anche qui, come nei campi di concentramento, il cancello si apre sull’inferno.
Si viene immediatamente catapultati in una bolgia: l’Africa è di fronte a noi. Siamo ammassati, pigiati da militari imberbi – per il solo gusto di mostrare la forza del potere che obbliga alla sottomissione. Evocato, raccontato, perfettamente interpretato dal maschio bianco, colui che per secoli ha depredato quella e altre terre. Immagine di coloro che per affermare la bontà del potere capitalistico hanno a più riprese provocato, anche in modo violento, la caduta dei sistemi avversi all’unico mondo possibile. Il risultato: la nascita e il ritorno dei fondamentalismi, la lotta tra etnie tribali, la cosiddetta democrazia esportata attraverso missili intelligenti e canne di fucile, generatrice di mostri che, oggi, ci si stanno ritorcendo contro.
Il vero artefice della carneficina è sempre nascosto, celato, occultato dalla mitica parola: progresso. Quello stesso che già Pasolini, in anni meno sospetti, denunciava come distruttore di cultura, omologante, assertore dei consumi di massa, asservito al potere. Pier Paolo Pasolini che sarà il Brunetto Latini delle Albe: in questi cerchi infernali che assomigliano a eterni ritorni. Il diverso messo all’indice, così come coloro che nella nostra contemporaneità sono emarginati perché vogliono conservare intatte le loro valli e le loro specificità culturali.
Ma non c’è possibilità di fermarci. La finanza irrompe come tema insieme provocatorio, gretto, futile e fasullo ma che assicura rapidi guadagni, quali quelli promessi dalla miriade di voci che incitano al gioco d’azzardo – ma con doverosa avvertenza pubblicitaria, che può portare alla dipendenza. A questo punto il gioco teatrale è ormai scoperto: non siamo di fronte a una Commedia morta insieme al suo autore quasi sette secoli fa. Ma alla messa in vita di quei temi, e anatemi, che Dante scagliava contro i suoi contemporanei – così necessari allora, così pregnanti oggi.
Anche l’amore non riesce a manifestarsi pienamente, travolto dalla tempesta musicale e sonora – grazie agli ottimi percussionisti che evocheranno, di volta in volta, attimi paradisiaci e altri concitati e violenti. Tutto, in questo Inferno delle Albe, concorre a restituire le atmosfere. Sui teli, immagini di corpi si inseguono senza soluzione di continuità, all’infinito. Su quegli stessi teli, il teatro d’ombre ci restituirà l’emozione delle bolge, la tortura del ghiaccio, l’assenza di futuro della costrizione perenne.
Le erinni, dall’alto della balconata, gridano il loro furore. Viene alla mente L’urlo di Munch mentre si attende di accedere ad altri gironi. Si prosegue irrisi e sbeffeggiati, insultati e frastornati, infilati e costretti nelle poltrone. Si assiste da lontano alla rappresentazione del dolore eppure la lontananza non riesce ad attenuare l’apprensione per quel castigo eterno. Così come per gli altri peccati, quale l’Invidia (da Boccaccio) recitata da Ermanna Montanari, che non risparmia nessuno, distrugge le famiglie, agisce dietro le quinte per provocare dissidi e malesseri, e che ben si sposa – passando dalla dimensione monologante all’immagine figurata – con il quadro successivo delle arpie, che si gettano sul corpo di Pier delle Vigne, il suicida.
Ma i diavoli che già hanno diviso gli spettatori/partecipanti spingono verso altri supplizi. Da quello per i ruffiani, intesi come coloro che vendono qualsiasi merce – dalla sposa bambina alla carne da fucile; ai prelati simoniaci – o pedofili, che corrompono con una caramella. Il selfie, però, è d’obbligo – basta pagarlo.
Non c’è tempo. Ci si divincola tra coloro che danzano a zig zag stretti nelle camicie di forza, mostrano la lingua come le serpi, eppure non sono bestie, bensì esseri umani ancora in mezzo a noi grazie a quei medici lungimiranti (Basaglia docet) che hanno permesso loro di abbandonare quei luoghi di tortura.
Nel fiume di pece, rievocato dai diavoli scatenati e sprizzanti l’energia dell’adolescenza, i vizi del passato continuano nel presente. Gli approfittatori delle cariche pubbliche per i propri interessi non erano appannaggio solo dei tempi di Dante. L’Italia arriva sempre prima ma l’ultimo arrivato è di gran lunga il più potente. E la politica continua a essere al servizio del profitto, i diritti invocati sono solo quelli che fanno comodo a chi detiene il potere, e la bilancia della giustizia pende sempre a favore degli Stati amici. Il cortocircuito tra passato e presente torna con la necessità del sapere, della conoscenza, della scoperta, dell’andare oltre, che condannò Ulisse e che, oggi, si trova non più imbrigliata dai timori di scomunica bensì da interessi economici, brevetti che impediscono il diffondersi delle scoperte in campo medico e la possibilità per i poveri del mondo (ma anche per tanti statunitensi, per ironia della sorte) di goderne i benefici. E i padroni del mondo sono quegli stessi che fingono di occuparsi del problema della fame, con i genitori che vedono deperire i propri figli, così come Ugolino nella bella e toccante interpretazione di Ermanna Montanari.
Lucifero, il bene assoluto, condannato a essere il proprio contrario – così come l’ipocrisia dell’immagine della famiglia felice che, solo se osservata più da vicino, svela l’ingannevole miseria che, spesso, racchiudono le pareti domestiche – da Mulino Bianco.
Si arriva alla fine rincuorati da quella stretta commossa delle nostre guide. All’esterno, nel cortile del Teatro Rasi, è già buio. Ma una folla si assembra attorno a un vecchio albero e a un mezzo (del quale non specificherò il genere) che consente a noi tutti, spettatori/partecipanti, di intravvedere un passaggio verso un luogo di speranza. La stessa che ci permette, assieme alla partecipazione – e questo spettacolo ne è una prova – di uscire dall’inferno, inseguendo il sogno di un mondo migliore per tutti.
Pubblicato (con modifiche) su Artalks.net, il 21 giugno 2017
In copertina: Marco Martinelli al centro della scena e, sul palco, Ermanna Montanari (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Teatro delle Albe).