Molto rumore per nulla?
di Simona Maria Frigerio
Partiamo da una provocazione. Quando si va in un Paese straniero e si assiste a spettacoli ‘tradizionali’ o si acquistano opere d’arte o artigianato locale, le guide consigliano: “Se lo sapete fare anche voi, è un prodotto per turisti”, ossia per allocchi. Bene, di fronte a un’opera d’arte cosiddetta figurativa o a un’installazione, a uno spettacolo teatrale o di danza, proviamo a porci la stessa domanda e se la risposta è che, sì, sapremmo farlo anche noi, da adesso in poi smettiamo di definirlo arte. E, magari, torniamo in uno studio di un pittore, dietro le quinte di un teatro, nella sala prove dove si esercitano i ballerini, e riacquistiamo il gusto, l’odore e il sudore del mestiere.
Finora abbiamo osservato da lontano il mondo dell’arte cercando di afferrare qualche filo estetico per annodare significanti nuovi a significati universali. Ci sono sorti dubbi e abbiamo posto domande. In parte ci siamo sentiti presi in giro perché la sensazione di vuoto non può essere sempre e solo colpa dell’occhio di chi guarda, della sua ignoranza o mancanza di sensibilità, figlio di una presunta incapacità di aprirsi a nuovi orizzonti o della scuola pubblica – che non forma a una visione dell’arte contemporanea. Tra l’altro, sempre più contemporanea: dato che in passato si definiva con questo termine la produzione dalla Scuola di Barbizon a tutto il Novecento (ormai declassata a Moderna), mentre adesso si considerano arte, oggetti e installazioni prodotti dal Duemila in avanti, senza nemmeno concedere al collezionista, al visitatore o al critico un tempo e una distanza tali da poter guardare all’opera con un certo distacco, inquadrandola in un preciso contesto socio-culturale e nel percorso di un artista, per darle un valore equo non solamente a livello economico ma soprattutto estetico e poetico.
Il mercato dell’arte, del resto, come ogni mercato in questo mondo sempre più veloce e frenetico, ha continuamente bisogno di nuovi prodotti. Nomi da fagocitare nel mare magnum di un affarismo che prende per buone, ad esempio, le dichiarazioni di un Beuys senza nemmeno verificare la validità del dirsi “salvato da nomadi tartari”, o dimentica che l’artista tedesco ebbe per amici e mecenati personaggi come Karl Ströher – finanziatore del Partito Nazista – e questo perché Beuys può essere un buon affare, soprattutto in tempi in cui va di moda l’ecologismo à la Greta Thunberg. Ovviamente, quello fatto è solo un esempio ma è indubbio che il fiuto e la moda, oggi più che mai, aiutino a far lievitare quotazioni di artisti non solamente ancora in vita (e non è il caso di Beuys) ma perfino poco noti. Ne consegue che diventa prioritario, per molti, demandare la produzione delle proprie opere ad artigiani e fabbri, operai e macchine utensili (come mi è stato detto, in privato, da alcuni artisti) perché non avrebbero tempo per fare da sé i propri lavori a fronte delle richieste pressanti delle Gallerie. Se un cavallo è vincente, bisogna farlo correre finché è tale. Anche sfiancandolo, anche uccidendolo (metaforicamente e poeticamente parlando).
Le bolle speculative
Forse una tra le ragioni per le quali il mercato dell’arte, soprattutto ma non solamente negli States, si è gonfiato con quotazioni di artisti, anche viventi, non rapportabili a un presunto valore intrinseco, va ricercata nell’International Revenue Code, una legge targata 1921 che, dagli anni 80, è stata utilizzata non solamente in campo immobiliare ma altresì per le transazioni nel mercato dell’arte a stelle e strisce. Tale normativa permetteva di differire la tassazione dei proventi derivanti dalla vendita di immobilizzazioni reinvestite in attività simili – il like-kind, come definito in gergo. Ricorrere a questo escamotage è stato possibile fino alla fine del 2017, quando l’ex Presidente Trump ha preferito spostare le forme di detassazioni e sgravi su settori, secondo lui, maggiormente strategici. E l’arte – come la cultura – non rientrano, come ben sappiamo, tra i suoi principali interessi. Tanto è vero che il like-kind, al momento, continua a essere utilizzato in campo immobiliare.
Ora, considerando gli alti costi dell’intermediazione con percentuali che variano, a seconda dalle Case d’Aste, dal 15 al 20% – da applicarsi nei confronti sia del venditore sia dell’acquirente – e che la tassazione statunitense (di cui scriveremo più avanti) è abbastanza pesante, e solamente facilitazioni come questa potevano incentivare la bolla speculativa che fece porre a Ben Rooney, il 15 novembre 2013, la famosa domanda: “Is there a bubble in the art market?” – anche a seguito della vendita del trittico di Francis Bacon, Three Studies of Lucian Freud, a oltre 140 milioni di dollari.
Se la compravendita speculativa per i titoli in borsa (gestita da computer che sfruttano le differenze di quotazioni di pochi centesimi con trattazioni distanziate anche centesimi di secondo) ha creato enormi bolle nel mercato azionario, aumentando volumi e prezzo delle azioni stesse ben aldilà del valore aziendale, ossia dell’economia reale, che esse rappresentano; così il like-kind – come mezzo del tutto legale per non pagare le tasse – può aver favorito l’aumento nel volume delle transazioni e dei prezzi delle singole opere.
Interessante a proposito una ricerca del 2014 intitolata Bubbles and Trading Frenzies: Evidence from the Art Market di J.N.G. Penasse e L.D.R. Ronneboog, dalla quale emergerebbero un paio di fattori da tenere in considerazione. Il primo, che il volume delle vendite è trainato, appunto, dalle transazioni speculative; in secondo luogo, che queste ultime generano significative bolle a livello di prezzi, anche quando i costi delle transazioni sono elevati ed è impossibile avere il controllo sugli esiti finali delle transazioni stesse.
In Italia, chi investe in arte paga più tasse?
Sentiamo spesso ripetere che in Italia non s’investe in arte perché non vi è un sistema di defiscalizzazione altrettanto conveniente quanto quello di altri Paesi. Chiediamoci allora se sia davvero così e quale peso abbiano Irpef e tasse di successione sugli investimenti in questo settore.
Dal Report 2019 di Art&Finance, coordinato ed edito dalla Divisione Art&Finance di Deloitte Lussemburgo insieme ad ArtTactic, a cura di Davide Bleve e Maddalena Costa, apprendiamo molti aspetti connessi con la tassazione Irpef. In Italia, infatti, vi è incertezza se la vendita di opere d’arte comporti o meno una tassazione sulla plusvalenza del valore del bene – in pratica se si debbano pagare delle tasse, come persone fisiche, sulla differenza tra il costo del bene al momento dell’acquisto e il prezzo ricavato dalla vendita. Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi “non contempla espressamente la tassazione delle plusvalenze derivanti da cessione di opere d’arte (cui possono anche assimilarsi gli orologi, i gioielli, i cc.dd. ‘collectibles’, antiquariato, autovetture, ecc.), con la conseguenza che ad oggi tali guadagni dovrebbero essere esenti da imposta”. Il condizionale è utilizzato nel Report in quanto, come specificato oltre, secondo l’Amministrazione finanziaria nel caso si ravveda nella compravendita attività imprenditoriale, i guadagni dovrebbero rientrare nel regime fiscale dell’impresa commerciale. Se così non è, non si versa nulla all’Erario.
Questa ‘falla’ nel sistema fiscale avrebbe potuto essere ovviata con la bozza della Legge di Bilancio del 2018, licenziata dal Consiglio dei Ministri il 16 ottobre 2017, ma decaduta nel dibattito parlamentare, in cui si chiariva che “la plusvalenza su opere d’arte e da collezione rilevate da persone fisiche al di fuori dell’attività d’impresa dovevano intendersi incluse nella vigente normativa sui redditi diversi e quindi tassabili”. Ma, come abbiamo visto, tale proposta non si è poi trasformata in legge.
E adesso vediamo cosa succede in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti (da sempre tra i mercati più attivi in campo artistico). In Belgio si tassano le plusvalenze da intento speculativo (determinato da ridotto tasso di tempo tra acquisto e vendita, attività promozionali, sproporzione tra prezzo d’acquisto e vendita). In Germania e Austria si tassa il capital gain sulla cessione di opere d’arte se detenute per meno di un anno (e, quindi, il principio è simile a quello applicato in Belgio). In Svizzera sono tassate le transazioni ripetute e frequenti per la realizzazione di un profitto. In Gran Bretagna e Stati Uniti le plusvalenze da cessione di opere d’arte sono tassate come quelle di ogni altro bene. Nello specifico, negli Usa la tassazione decresce con il crescere del tempo di detenzione del bene – e le transazioni infra-annuali sono tassate fino a un massimo del 39,6% (ovviamente dal 2018 in avanti e in caso non si ricorresse, precedentemente, al like-kind). E con questo diremmo di aver liquidato, al momento, la lamentazione sul peso della tassazione italiana.
Per quanto concerne il discorso della tassazione sulle successioni, in Italia le opere d’arte che fanno parte dell’arredamento sono soggette alle aliquote e franchigie ordinarie (usufruendo di un aumento del 10% del valore dell’asse ereditario). Le opere in comodato d’uso in musei o fondazioni proprie, mostre, caveau, etc., devono essere valutate e non rientrano nel succitato 10% forfettario. Teniamo a precisare che, allo stato attuale, in Italia le aliquote sono del 4% per il coniuge e i parenti in linea retta oltre il milione di euro. Esenti restano le opere già assoggettate ai vincoli storico-culturali che ne limitano la trasferibilità.
E nel resto d’Europa? Il nostro Paese vanta le tasse di successione – come puntualizzava www.we-wealth.com nel 2018 – più basse dell’intera Europa. Oscillando tra il 4 e l’8%, si fa presto a calcolare la differenza con la Germania, che va dal 7 al 50%; la Gran Bretagna, che stabilisce nell’Inheritance Tax Act del 1984 una tassazione del 40%; e la Francia che si avvicina ai valori tedeschi, oscillando tra il 5 e il 60%. Su un milione di Euro, in Italia non si paga nulla, in Germania 75 mila Euro, in Francia 195 mila e in Gran Bretagna 250 mila.
Il cosiddetto Art Bonus, introdotto nel 2015 (con il DL 31 maggio 2014 n. 838), non ha invece alcun impatto sul mercato dell’arte in quanto è, sì, un credito d’imposta pari al 65% ma a fronte di erogazioni liberali effettuate da persone e aziende a favore di istituti e luoghi di cultura di appartenenza pubblica – per il restauro e la manutenzione di beni culturali pubblici, di fondazioni lirico-sinfoniche e di enti pubblici che svolgono attività di spettacolo. In parole povere, se si donano 100 Euro al Teatro alla Scala di Milano per restaurare la barcaccia, si ha diritto a un credito d’imposta di 65 Euro, con un esborso effettivo rispetto alla donazione stessa di 35 Euro. Ovviamente, nulla a che vedere con la compravendita di quadri da privati o sul mercato e similari.
Volevamo fermarci qui, ma non possiamo. Nella terza parte, il caso di Jenny Saville, l’orizzonte artistico si apre all’Africa e una domanda: perché alcuni mercati salgono e altri stagnano?
Parte precedente:
Ultima parte:
Venerdì, 26 marzo 2021
In copertina: Tasse ed evasione fiscale. Foto di Alexandra da Pixabay.