Il Butoh secondo Alessandra Cristiani, Masaki Iwana e Imre Thormann
di Luciano Uggè
Sabato 10 novembre, Palazzo Ducale ospita un’intera giornata dedicata al butoh, organizzata da Teatro Akropolis. Una mostra fotografica, un convegno e tre performance per scoprire una forma di espressione corporea che dal Giappone ha invaso il mondo.
Per la terza giornata il Festival genovese si sposta a Palazzo Ducale, dove la protagonista sarà l’arte del butoh.
Un interessante convegno apre la kermesse di eventi, analizzando la nascita, nella seconda metà del Novecento, di questa forma di danza. Dal Giappone, la stessa ha poi esteso la sua influenza in tutto l’occidente, con performer che non sempre hanno seguito i medesimi canoni performativi, passando da uno studio prevalentemente del gesto alla costruzione di una drammaturgia sempre più complessa. Gli stessi danzatori hanno seguito percorsi differenti, alcuni più legati all’intimità e all’espressione dei rapporti correlati alla stessa, altri con visioni anche critiche del mondo esterno e delle sue contraddizioni.
Alle 18.00 il primo dei tre spettacoli ai quali assisteremo. Clorofilla di Alessandra Cristiani, che interpreta il corpo come unità espressiva, giocando con le forme che, nella luce radente, appaiono ancora più suggestive. Raggomitolata, in posizione fetale, la performer sembra prendere vita – come la clorofilla – lentamente, dispiegando le membra intorpidite o ancora amorfe. I primi sprazzi di vitalità si manifestano a intermittenza, quasi che l’amalgama si confondesse con brevi, quasi impercettibili, guizzi di energia. L’intimità della presa di coscienza di se stessa viene interrotta da sprazzi sempre più inquietanti. Si avverte l’aggressione di uno stormo di uccelli, suoni simili a frustate (forse la parte più selvaggia della natura) tormentano il corpo, infierendo su di esso. Stacco e buio. Alcune parole di una voce off predispongono lo spettatore alla conclusione, molto scenografica, dello spettacolo. Esteticamente interessante, pone dei dubbi nella sezione centrale.
A seguire, al piano terra di Palazzo Ducale, si inaugura la mostra fotografica dedicata ai danzatori butoh, con scatti e opere di Alberto Canu, Emilio D’Itri e Samantha Marenzi (che ha anche introdotto il convegno). Immagini che hanno il sapore del furto d’autore con volti e corpi di danzatori, italiani e stranieri, cristallizzati nel gesto eppure tesi al movimento. Da apprezzare anche le diverse tecniche fotografiche utilizzate e la resa che ne deriva.
Alle 21.00, all’interno della sontuosa Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, va in scena Vie de Ladyboy Ivan Ilitch di e con Masaki Iwana – uno tra i maggiori danzatori di butoh. Protagonista una ladyboy – figura socialmente e culturalmente accettata in diversi Paesi orientali, tra i quali la Thailandia (dove però non è altrettanto bene accetta l’omosessualità), e contro la quale si è scagliato, al contrario, Papa Francesco adombrando persino quale “grande nemico del matrimonio, oggi: la teoria del ‘gender’. Oggi c’è una guerra mondiale per distruggere il matrimonio” e rincarando: “Una cosa è una persona che ha questa tendenza, o anche che cambia sesso. Un’altra è fare insegnamenti nelle scuole su questa linea, per cambiare la mentalità: lo chiamo colonizzazione ideologica” (basti vedere l’opposizione che ha suscitato nella Chiesa cattolica uno spettacolo come Fa’Afine per comprendere che in Vaticano non si è ancora accettato che insegnare a rispettare la fluidità di genere, così come la diversità in ogni sua forma – culturale, fisica, religiosa, psicologica – significa creare una comunità di adulti aperti verso l’altro da sé). Ma torniamo allo spettacolo. Masaki Iwana mette in scena la scoperta del proprio corpo, il maschile e il femminile si incontrano, così come l’avvenenza della gioventù e la devastazione della vecchiaia. Il vissuto è intensamente descritto, l’autoerotismo e la ricerca spasmodica della bellezza, gli amori che lasciano il posto allo smarrimento, l’incredulità di fronte al chiudersi del ciclo vitale, senza possibilità di ritorno. Uno spettacolo di grande intensità con luci che sottolineano la duplicità della natura umana. Sugli applausi finali, un danzatore che si permette anche un accenno di autoironia – quasi a sottolineare la grande professionalità di questi performer.
Al termine della lunga e ricca giornata, la replica di Enduring Freedom, di e con Imre Thormann. Con questa performance entriamo in una dimensione decisamente più concettuale del butoh. Un corpo, solo nella propria nudità, che si muove nel silenzio più assoluto, su un pavimento altrettanto nudo e con la sola illuminazione di un giro di neon a delimitarne lo spazio. La costruzione drammaturgica prende spunto dall’ennesima forzatura occidentale, con a capo gli Stati Uniti, per giustificare un intervento (ossia l’attacco militare dei paladini delle libertà all’Afghanistan) con chiari fini di politica economica, mascherati coi vessilli della democrazia. Come ottenere pace e sicurezza, dignità per un popolo, attraverso un mezzo quale la guerra?
Thormann assume su di sé e sembra quasi metabolizzare attraverso il proprio corpo le sofferenze causate dall’intervento a stelle e strisce. L’incredulità per quanto sta accadendo, alla quale subentra la paura, la fame, il timore delle torture o dei bombardamenti, e tutto l’armamentario che ogni guerra reca con sé. Il corpo, lentamente ma inesorabilmente, si accascia, non regge oltre – perché anche la sopportazione ha un limite. Gli occhi, le labbra, diventano il fulcro di una performance dove il più piccolo movimento anche espressivo diventa significante preciso. Il suo volto non ha bisogno di maschere per trasformarsi di fronte ai nostri occhi, la pesantezza psicologica si traduce nel tentativo affannoso di reggere un corpo che ha perso ogni energia vitale, ogni speranza. Un’esperienza quasi straziante quella che si vive, a livello emotivo; e, d’altro canto, a livello estetico si stenta a comprendere come un corpo, nel breve lasso di tempo di una performance, possa arrivare a rendere evidente ciò che tutte le parole ormai svuotate di senso dei mass media, le immagini più cruente della tv del dolore, non riescono nemmeno lontanamente a esprimere (o non vogliono).
Come ogni volta che ci si ritrovi di fronte all’arte di Imre Thormann si resta increduli e grati. Il teatro della crudeltà di Antonin Artaud ha trovato il suo nuovo maestro.
Pubblicato (con alcune modiche) su Artalks.net, il 15 novembre 2018
In copertina: Masaki Iwana. Foto di Hiroyasu Daido (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa di Testimonianze Ricerca Azioni).