La poesia di Marconcini/Daddi riempie l’aria
di Simona Maria Frigerio
La Stagione del Teatro di Buti si inaugura con due atti unici di Luigi Pirandello e Samuel Beckett.
Sembrava che anche il Teatro di Buti avrebbe subito il destino che ha ormai segnato molti teatri in Toscana e in altre regioni italiane: la chiusura o la conversione in spazio commerciale. Al contrario, grazie anche alla generosità degli artisti, il Francesco di Bartolo avrà una propria Stagione e ospiterà sul proprio palco titoli della scena contemporanea da teatro nazionale.
Ad aprire le danze, Dario Marconcini e Giovanna Daddi propongono un dittico di grande fascino, composto da L’uomo dal fiore in bocca e Dondolo. Due atti unici intessuti della stessa materia (la fine dell’esistenza, il crepuscolo di una vita) in grado di condensare in poche pagine i temi cari ai loro autori – dall’impossibilità di un’autentica empatia alla frammentarietà dell’io che può spezzarsi e ricomporsi, plasmandosi con l’immaginazione o indossando una maschera, in Pirandello; all’assurdità di questa nostra esistenza, insieme fragile e preziosa anche nei suoi minutissimi dettagli, in Beckett. Ma questi atti unici sono anche un distillato dello stile dei due maestri, che sembrano prosciugare l’inchiostro senza aver vergato nemmeno le prime parole. In Pirandello, sprazzi di vita sensuale (l’accenno alle albicocche) si mescolano a fugaci, pungenti ritratti psicologici (della moglie) e a quell’umorismo teorizzato anche dall’autore (l’abilità nel fare i pacchetti) che tratteggiano un personaggio complesso, in poche righe, e senza che l’uomo faccia mai accenno a se stesso, se non quando parla del fiore in bocca. Mentre Beckett restituisce quell’universo perso per sempre, perché rinchiuso nella mente serrata di una donna (forse affetta da Alzheimer o da un’altra malattia che non le permette l’espressione o, semplicemente, senza più nessuno con cui comunicare), eppure vivo e vitale dietro quegli occhi wide shut; un universo che si dondola verso la morte scandendo con dolcezza una litania sempre più flebile alla vita.
Due testi complessi che Dario Marconcini e Giovanna Daddi restituiscono nella loro potente essenzialità. Il primo, muovendosi tra le sedie sparse in platea, come un flâneur in cerca della leggerezza di una conversazione mondana con quell’ignaro passante che non sa, non può apprezzare l’attimo di assoluta verità – che si gusta solo quando ogni istante può essere l’ultimo. Mentre ogni respiro diventa una pausa di vita, ogni accentuazione si carica di senso.
La voce di Giovanna Daddi (registrata, come da volere dello stesso Beckett) è quella interiore, rinchiusa in un corpo che è ormai solo involucro, eppure non scade mai nella disperazione, non perde mai la propria lucidità costellata da tocchi di ironia. La cadenza dell’enunciato è un lento dondolio che si sposa con il movimento impresso alla sedia a dondolo, è una ninna nanna che cantilena quell’ultimo sprazzo di vita prima che sia notte.
Un crepuscolo d’autore per l’alba di una nuova Stagione – anche questo può accadere in un piccolo teatro dell’entroterra toscano.
Pubblicato su Artalks.net, il 17 dicembre 2016
In copertina: Dario Marconcini e Giovanna Daddi. Foto di Paolo Foti (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Teatro di Buti, tutti i diritti riservati).