Intervento per Donne nel nuovo Rinascimento. L’importanza del Teatro e del Cinema
di Simona Maria Frigerio
Riportiamo il testo dell’intervento predisposto per il Convegno organizzato da Schegge di Mediterraneo – Festival dell’Eccellenza al Femminile e Teatro Nazionale di Genova – tenutosi in streaming il 16 febbraio 2021.
Premessa:
La presenza delle donne nelle posizioni che contano, quelle che fanno la differenza, è tuttora un tema spinoso in Italia dato che, non solamente la disoccupazione femminile rimane endemica nel nostro Paese – secondo l’Ocse nel 2019 il tasso di occupazione per le donne era inferiore al 50%, mentre per gli uomini prossimo al 70% – ma anche tra le occupate è difficile raggiungere posizioni di responsabilità.
Prima di affrontare il discorso prettamente artistico, analizziamo alcuni dati di altri settori produttivi.
Secondo Sky Tg24, nel 2020 “tra le 100 aziende a più alta capitalizzazione a Piazza Affari, gli amministratori” delegati donna erano solamente 7 – lo stesso numero dei “Ceo di nome Carlo” – come ironizzavano i colleghi.
Nella Sanità, al centro del dibattito a causa della pandemia, non va meglio. Secondo www.diversity-management.it (dati del 2018), tra i medici al di sotto dei 50 anni le donne sono il 60%. Per la precisione, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri afferma che: “le donne medico over 55 anni sono il 31% del totale, quelle tra 50 e 54 anni il 50%, che diventano il 60% nella fascia d’età sotto i 50”. Nonostante ciò, la CGiL Medici afferma che “le donne direttore di struttura complessa (gli ex primari) sono solo il 15%”.
In Università, dove si crea il sapere e si dovrebbero forgiare le menti della dirigenza di domani, dai dati di www.Repubblica.it del 2020, sebbene il 55,4% degli iscritti siano studentesse e le studiose post laurea il 59,3%, il dato “si ribalta completamente se si guarda alle cattedre: secondo uno studio pubblicato dalla Crui (la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, n.d.g.) lo scorso anno, tra i professori associati le donne erano solo il 37% e il 23% tra i professori ordinari”. Salendo la piramide il numero si sfoltisce ulteriormente. Infatti, su 84 rettori, le donne raggiungono quota 7 (come i Ceo di cui sopra).
E veniamo al mondo del giornalismo. Come precisa Il Manifesto – in un’indagine del 2018 – “nei ruoli di direttori, vicedirettori, caporedattori delle 26 testate italiane più importanti compaiono 166 uomini. E solo 17 donne”. Sebbene oltre il 40% dei giornalisti italiani siano donne, l’unica direttrice di un quotidiano a tiratura nazionale è proprio Norma Rangeri al Manifesto. Forse era meglio a fine Ottocento, quando Matilde Serao fondò e diresse Il Mattino.
Chiudiamo con la Mappatura delle presenze femminili e maschili nei Teatri Nazionali, TRIC e Fondazione Piccolo Teatro di Milano nel triennio 2017/2020, elaborata da Amleta, il Collettivo di lavoratrici dello spettacolo dal vivo costituitosi nel 2020. Dal rapporto si evince quanto segue:
Presenze nell’insieme dei teatri: 67,6% uomini / 32,4% donne
Registe 21,6%, drammaturghe 20,7%, attrici 37,5%
Presenze nelle sale principali: 69% uomini / 31% donne
Registe: 17,1%, drammaturghe 14,6%, attrici 35,9%
Giorni di replica (percentuale occupazionale): attori 63,2%, attrici 36,8%
Per quanto concerne la direzione dei teatri, su 25 strutture, solo 6 sono dirette da donne. E, tra queste, Andrée Ruth Shammah al Franco Parenti di Milano potrebbe essere considerata un caso a parte – dato che dirige il teatro da lei fondato e che, praticamente, possiede. Nessuna donna ricopre tale incarico in un Teatro Nazionale mentre, come denuncia Gaja Pollastrini: “i Direttori sono spesso attori famosi, usati come traino pubblicitario, e non persone competenti assunte tramite bandi pubblici”.
Ciliegina sulla torta il Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum, rispetto della parità di genere, inserisce l’Italia al 76° posto nel mondo – ultima in Europa assieme alla Grecia – mentre, per quanto riguarda il divario di stipendio rispetto alla parità di mansioni, precipitiamo in 126a posizione (su 153 Paesi analizzati).
Il PNRR rilancerà l’occupazione femminile?
In questo quadrodi sotto-occupazione e sotto-rappresentazione nei tavoli che contano, si stanno profilando i piani per l’utilizzo dei fondi europei che dovrebbero rivitalizzare la nostra economia asfittica in fase post-pandemica e che – è bene ricordarlo – sono almeno per due terzi prestiti – ossia debiti – che dovranno essere restituiti con tanto di interessi dal 2028 in avanti, per trent’anni, ricadendo sulle spalle dalla nostra ma anche dalle generazioni future.
Sulla prima bozza del PNRR, ossia il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (che dovrebbe essere rivisto dal nuovo Governo a guida Draghi), alle voci: Parità di genere, coesione sociale e territoriale si destinerebbe complessivamente l’8,7% delle risorse, ossia 17,1 miliardi (come riporta l’economista Daniela Del Boca su www.lavoce.info), di cui 4,2 miliardi per “iniziative rivolte alla parità di genere”, mentre “il resto è diviso fra le voci Giovani e politiche del lavoro; Vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore; e Interventi speciali di coesione territoriale”.
Basteranno detti fondi? Sul medesimo sito si fa notare che, ad esempio: “Per garantire un posto al nido a un bambino su tre, con rette comparabili a quelle della scuola per l’infanzia, bisognerebbe investire 4,8 miliardi e poi spendere circa 4 miliardi l’anno per la gestione del servizio”. Aldilà, quindi, dell’insufficienza dei fondi persino per garantire un servizio basilare e minimo per facilitare l’entrata o il rimanere nel mondo del lavoro alle madri lavoratrici, ciò di cui non si tiene conto è che qualsiasi investimento per introdurre un maggior numero di donne nel mondo del lavoro porta a una crescita della produzione di prodotti e servizi che ha ricadute importanti sull’economica, in generale, e sulla finanza pubblica, in particolare. In effetti, leggiamo ancora nel medesimo articolo: “Se la percentuale di donne al lavoro arrivasse al 60%, il Pil crescerebbe di 7 punti percentuali, secondo le stime di Banca d’Italia”.
All’interno di questo quadro disarmante e che conferma come l’Italia preveda di usare i fondi del PNRR per interventi a pioggia che non solamente non rilanceranno l’economia nel suo complesso, ma non riusciranno nemmeno a incidere positivamente sui settori trainanti, il mondo del lavoro in ambito teatrale, artistico e intellettuale è persino più a rischio.
Facciamo solamente due brevi considerazioni. La prima riguarda il sussidio di disoccupazione, ancora oggi argomento tabù in Italia, Paese dove si scarica il peso della disoccupazione sulla famiglia con la scusa che ‘se si dessero mezzi adeguati di sostentamento, in caso di inattività, le persone non cercherebbero più un lavoro’. La cosiddetta NASpI copre – con massimali che possono essere anche di molto inferiori all’effettivo stipendio – per lo più i lavoratori a tempo indeterminato che sono stati licenziati – e hanno perso, quindi, il lavoro in maniera ‘involontaria’. Le scelte, normalissime in altri Stati, di cambiare lavoro per migliorare la propria posizione, crescere professionalmente, o prendersi un periodo di tempo per tornare a studiare (i congedi retribuiti sono una prerogativa solamente del settore pubblico, l’aspettativa – senza compenso – per ragioni formative può essere addirittura negata dal datore di lavoro nel settore privato) non rientrano tra le possibilità contemplate dal legislatore come spettanti la NASpI.
A questo parziale contributo economico non hanno, in ogni caso, accesso le Partite Iva o i lavoratori che ricadano sotto altre forme contrattuali in un mondo del lavoro sempre più precarizzato – a parte gli stagionali. E soprattutto il contributo non è supportato da politiche attive di (re)inserimento visto che gli SPI (i Servizi Pubblici per l’Impiego) non funzionano in maniera adeguata. Come si scriveva in un altro articolo: “Sulla scorta degli ultimi dati disponibili è emerso che nel 2012 gli SPI hanno contribuito in una certa misura al collocamento del 9,4% delle recenti assunzioni [a livello europeo, n.d.g.]. Tale cifra supera il 15% in Croazia, Lussemburgo, Ungheria e Finlandia, ma è inferiore al 3% in Spagna, Italia e Cipro”. Le cose andrebbero meglio oggi negli ex uffici di collocamento – e successivi appellativi? Parrebbe di no. Riccardo Saporiti, nel gennaio 2019, su https://www-wired-it, faceva notare che, nonostante siano “il motore della nuova misura del governo… secondo l’Istat, solo lo 0,7% di chi si rivolge ai Centri per l’Impiego riceve un’offerta di lavoro”.
I lavoratori dello spettacolo italiani, come altre categorie, da anni aspirano all’introduzione anche nel nostro Paese di formule similari all’intermittence francese che garantisce, oltre ai periodi di inoccupazione, anche quelli che un artista può necessitare per lo studio a livello personale o la creazione di una performance, oltre alla garanzia dei congedi retribuiti e di contributi continuativi. Ovviamente, in questo quadro, le attrici che vogliano, ad esempio, diventare madri sono ancora più penalizzate.
“Che lavoro fai, davvero?”
La seconda considerazione merita un capitolo a sé. E riguarda più in generale la piramide del potere, l’avvento della piattaforma ItsArt e la squalificazione dell’essere considerato artista, performer o intellettuale.
Come abbiamo visto, non solamente alla base della piramide del lavoro le donne sono minoritarie, ma a misura che si sale la loro presenza diventa quasi un ‘optional’ (permettetemi il termine). In questo contesto, quindi, fatto di precariato e mancanza di diritti fondamentali, le lavoratrici dello spettacolo dal vivo cosa possono attendersi?
Teniamo conto che in questo momento il mondo del teatro si è quasi totalmente appiattito sull’idea dell’online. Ossia in una supina accettazione del non poter continuare a svolgere la propria attività se non con prodotti trasmessi in streaming o caricati su varie piattaforme, sebbene a nessuno sia vietato di recitare, ad esempio, in androni e cortili, piazze e spazi pubblici (come qualche piccola realtà sta cominciando a proporre). In questo modo, non solo il teatro tradisce la specificità della propria esperienza, che è compresenza e corpo, ma – optando per forme espressive e linguaggi che non padroneggia – crea, con un misto di presunzione e faciloneria, prodotti che rasentano l’amatorialità.
Del resto il mondo del teatro non rivendica il ritorno al lavoro – visto che si sono approntate tutte le misure per evitare il contagio e che le stesse si sono dimostrate efficaci durante il periodo di riapertura dei teatri – bensì ‘ristori’ che, come sempre, finiranno per garantire lo stipendio e una continuità lavorativa a chi è assunto a tempo indeterminato (secondo Ateatro, nel 2017, solo il 3,5% degli occupati del settore) o con forme contrattuali pluriennali – ma non certo alla maggioranza degli operatori, dei tecnici e degli artisti. Oppure bonus, ossia ancora una volta quei contributi a pioggia, che rischiano di premiare realtà inesistenti a fronte di progetti territoriali e Compagnie professioniste.
Questa scelta di sudditanza nei confronti della politica, di mancanza di volontà di rottura deriva, del resto, dalla dipendenza economica che il mondo del teatro ha sviluppato negli anni nei confronti dei finanziamenti pubblici – inversamente proporzionali all’aumentare delle necessità. Il progressivo impoverimento del mondo lavorativo teatrale, con la precarizzazione persino delle figure tecniche (ormai quasi sempre fornite da cooperative di servizi per lo spettacolo dal vivo), ha coinciso con l’abbassamento del livello di scenografie, costumi, apparati multimediali – nonostante questi ultimi siano oggi una realtà rientrante a pieno diritto nella creazione delle performance e l’apparato scenotecnico, illuminotecnico o costumistico non vada interpretato meramente come vestigia di un teatro borghese bensì come settore lavorativo e creativo al pari di quello organizzativo o registico.
In questo contesto pensare che il futuro possa essere una piattaforma come quella voluta dal Ministro Franceschini, ossia ItsArt, pone criticità impensabili. Aldilà dell’incoerenza di voler trasformare forme artistiche dal vivo in prodotti preconfezionati per lo schermo, chi vi avrà accesso? Immaginiamo, innanzi tutto, le realtà maggiori, che potranno auto-finanziare prodotti video di qualità; quelle stesse che sicuramente in questi anni hanno solo parzialmente prodotto ricerca e novità, affossando la qualità per rispondere ai dettami quantitativi del Fondo Unico dello Spettacolo, ma che sono dirette da uomini e da una lobby artistica conservatrice e politico-diretta che non risponde certo a criteri di meritocrazia, trasparenza (che si otterrebbe grazie a nomine decretate da bandi pubblici europei) e parità di genere.
Spiace dirlo ma questo coacervo di problematiche ormai incancrenite si deve anche alla falsa convinzione di molti che fare l’artista non sia un mestiere. Credenza comune tra le persone (come intitolavo questa parte del discorso, chi non si è sentito chiedere: “Che lavoro fai, davvero?”), ma anche tra gli stessi artisti che non pensano di appartenere a una categoria, quella appunto dei lavoratori dello spettacolo, che ricomprende figure amministrative, tecnici, eccetera, e che, come tale, ha gli stessi diritti e doveri di qualsiasi altro settore.
Del resto, attori e registi di teatro e cinema, ma anche musicisti jazz e scrittori, artisti figurativi e intermediali, così come la figura dell’intellettuale – nella quale possiamo far rientrare i critici delle arti – sono ormai secondarie in una società che preferisce produrre spazzatura piuttosto che idee o sapere o bellezza. Persino Barak Obama – sebbene dopo l’allora Ministro Tremonti – ha affermato che ‘con la cultura non si mangia’ o, per essere più precisi (come riporta Micromega): “parlando ai giovani studenti del Wisconsin, li ha incoraggiati a perseguire titoli di studio in settori economici, nei quali avrebbero «guadagnato di più di quello che si guadagna con una laurea in storia dell’arte»”. E noi, tutti noi, lo abbiamo introiettato. Tanto è vero che i colleghi che collaborano con le uniche testate (registrate o meno) che ormai si occupano davvero di teatro, ossia quelle online, si sono arresi al fatto di non essere retribuiti. Questo è inaccettabile e andrà ridiscusso. Se si deve ricostruire un altro teatro, e uno spazio adeguato dello stesso sia occupato da donne e da un pensiero differente, bisognerà anche rivalutare il ruolo della critica e del giornalismo.
Le donne: da oggetto passivo delle news e soggetto attivo del news making
In una recente intervista a Monia Azzalini, dal 2005 coordinatrice nazionale del Global Media Monitoring Project per l’Italia (con Claudia Padovani dell’Università di Padova), è emerso che sui media nazionali (radiotelevisivi e carta stampata), a livello di informazione giornalistica, la presenza femminile nel 2015 raggiungeva solo il 24% (la stessa percentuale di cinque anni prima). Questo significa che, sebbene le donne siano presenti nella società con il 50% degli individui, il mondo dell’informazione – che dovrebbe restituire la realtà che ci circonda – se ne occupa solo marginalmente. Inoltre, come afferma Azzalini, sempre nel Report del 2015 si evidenziava che: “un quarto delle donne presenti nei media erano visibili in quanto vittime, contro le donne visibili in quanto esperte fermo al 18%”.
Per cambiare questo stato di cose devono, innanzi tutto, cambiare i direttori e gli editori dei quotidiani e dei mass media in generale, perché è nella sala dei bottoni che si decide chi e cosa fa notizia. Un maggior ruolo delle donne a livello dirigenziale può portare a un cambiamento di mentalità anche se – occorre dirlo – ciò non significa che una donna sia, semplicemente in quanto tale, migliore di un uomo. Ma, a parità di competenze, vanno ridistribuiti equamente i ruoli e, come abbiamo visto dai dati riguardo agli studi universitari, le donne laureate e pronte per carriere professionali conseguenti ci sono – vanno solamente integrate e valorizzate nel sistema. In questo deve impegnarsi il legislatore con politiche attive.
Secondo Ipsoa, che ha analizzato i dati del Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS) del 2020 – riguardo alle violazioni della Carta sociale europea (alla quale hanno aderito Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca e Slovenia) – “la percentuale di donne che siedono nei consigli di amministrazione delle più importanti società quotate in borsa nei Paesi in cui vigono disposizioni legislative vincolanti è passata da una media del 9,8% nel 2010 al 37,5% nel 2018. Nei Paesi che hanno intrapreso interventi positivi per promuovere l’equilibrio di genere, senza tuttavia adottare misure vincolanti, le percentuali sono state del 12,8% nel 2010 e del 25,6% nel 2018; mentre nei Paesi in cui non è stato realizzato nessun intervento particolare la situazione è rimasta praticamente invariata, con una media del 12,8% di donne presenti nei consigli di amministrazione nel 2010, che è passata al 14,3% nel 2018”.
In pratica, occorrono leggi vincolanti che pretendano una ridistribuzione delle posizioni di responsabilità tra i due generi, sia nel settore pubblico sia in quello privato – ovviamente a parità di competenze. Occorrono bandi europei trasparenti per tutte le posizioni di responsabilità nel settore pubblico – con un turn over effettivo che non sia solamente uno scambio di poltrone. E occorrono leggi che pretendano la ridistribuzione dei ruoli negli organi dirigenziali del settore pubblico e privato al 50% – le cosiddette ‘quote rosa’, al 20 o al 30% finiscono per sancire una condizione di subalternità.
Se siamo ‘metà del cielo’, dobbiamo occuparne altrettanto.
Veberdì, 19 febbraio 2021
In copertina: Il Parlamento di Stoccolma, Svezia, dove l’eguaglianza di genere è un po’ meno chimerica. Foto di Luciano Uggè (tutti i diritti riservati).