Dall’Arno alla Senna
di Luciano Uggè e Simona Maria Frigerio
Le celebri litografie di Toulouse-Lautrec, che hanno immortalato nell’immaginario comune la Belle Époque, arrivano a Pisa, ospiti di Palazzo Blu.
Diversi i filoni dei quali si compone la mostra, che rispecchiano altrettanti ambienti e frequentazioni dell’artista francese. Il café-chantant con le sue demi-mondaine e le ballerine di can-can. Il teatro, da quello paludato della Comédie Française alle sperimentazioni del Théâtre Libre di André Antoine e del Théâtre de l’Œvre di Lugné-Poe. Le case di tolleranza immortalate in splendidi dipinti, come Al Salon di Rue des Moulins (1894-95), qui in mostra con la serie Elles: album di litografie che non ebbe grande successo forse perché l’artista non insistette sul lato osé quanto su quello intimo e vulnerabile delle donne ritratte. Due universi ludici che Lautrec amava frequentare: quello circense e quello delle corse dei cavalli (proprio del gusto dell’epoca e celebrato anche dal pennello di Degas). E infine, una sezione dedicata ai manifesti pubblicitari e alle locandine che, sebbene non siano opere che rappresentino in se stesse un particolare ambiente, erano però il simbolo delle strade parigine dell’epoca, delle quali tappezzavano i muri e gli ingressi di teatri e café-chantant. La mostra ha, quindi, un’ampia articolazione di soggetti – anche se ne sono esclusi i nudi e le scene di vita comune.
Montmartre, in breve, è la vera protagonista dell’esposizione, quel coacervo di stradine, locali e atélier, che accolse nel suo grembo un Lautrec che si sentiva escluso dal proprio ambiente, quello della nobiltà francese di fine Ottocento perché, come scriveva Lionello Venturi: “Egli non poteva restare senza sentirsi umiliato, tanto più che l’intelligenza non vi era particolarmente apprezzata”.
Montmartre era la scelta più ovvia per una serie di ragioni. La sua spensieratezza unita a una grande creatività, che attraeva i migliori talenti artistici dell’epoca. Il suo status di simbolo di una nuova era di pace e benessere. Il mostrare, attraverso una molteplicità di luoghi di svago, i prodromi del capitalismo e di una rivoluzione nello stato sociale di intere classi di lavoratori. La sua energia proiettata verso il futuro e il progresso, che poteva illudere un’intera generazione che la vita sarebbe stata per sempre bella.
Questa è la Parigi che Lautrec ritrae nelle litografie, utilizzate per usi commerciali diversi. Nella direzione di quell’innalzamento della serie litografica a opera d’arte o di quel rivolgimento proprio del Bauhaus, che inserirà definitivamente il design tra le arti figurative.
Ecco, quindi, entrare a buon diritto in una mostra, le locandine dei teatri e i manifesti pubblicitari per coriandoli e catene di bicicletta; oltre alle copertine di libri, canzoni, riviste e album, come Elles, che venivano acquistati dai cultori dei vari generi (dai nudi alle ballerine) quasi fossero Calendari Pirelli ante litteram.
Ma veniamo allo stile di Toulouse-Lautrec quando si dedica alla litografia (che aveva avvicinato già nel 1885, con l’illustrazione di una canzone di Bruant e alla quale torna stabilmente sette anni dopo).
La sua produzione pittorica e quella litografica sembrano coincidere in molti aspetti. Non solamente per via dei soggetti, ma anche dell’esecuzione. A differenziare però le due espressioni artistiche, la maggiore dinamicità delle litografie, come in Troupe de M.lle Églantine (1895-96), dove l’accento è posto sulle gambe delle ballerine pronte per essere lanciate in alto nella frenesia del can-can; o in Jean Avril (1893), tavola uno delle serie a lei dedicata dove l’abito si esalta in un continuum lineare. La dimensione cromatica è, al contrario, più sicura e luminosa nelle pitture, dove il controllo della tecnica è totalmente nelle mani dell’artista. In mostra, non a caso, si vedono diverse prove e persino appunti autografi di Lautrec per le successive correzioni delle stampe, che dimostrano la sua conoscenza dei limiti ma anche delle potenzialità del mezzo espressivo.
Interessante osservare anche una serie di stilemi mutuati dall’arte giapponese (che, in questo periodo, influenza molti artisti, quali Van Gogh e Degas). Si notano facilmente l’asimmetria delle composizioni; l’accento sulla linea curva; l’uso della campitura piatta e dei piani sempre più unificati, come nella litografia a colori di Jean Avril al Jardin de Paris (1893), dove coesistono nello stesso spazio e senza soluzione di continuità (quasi appartenessero alla medesima dimensione spaziale oltre che temporale), la ballerina sul palcoscenico, lo spartito sproporzionato, il musicista sotto il palco e il suo strumento in primissimo piano che si trasforma in cornice ed elemento decorativo (come nella migliore tradizione giapponese).
E infine, una nota sul tratto tipico di Lautrec che, negli anni, si fa sempre più sintetico ed espressivo, in grado di analizzare senza falsi moralismi – ma anche con una certa vena caustica e priva di pietà – l’aspetto più laido di quello steso mondo. I volti di alcune ballerine, in particolare – sfatti, resi volgari da labbra rosso fuoco su carnagioni inesistenti, emaciati, illuminati dal basso per esacerbarne i lineamenti – sembrano denunciare il lato oscuro, le ombre della ville lumière che, da lì a pochi anni, sarà funestata dal Primo conflitto mondiale, l’evento che metterà per sempre fine alla Belle Époque.
Pubblicato su Artalks.net, il 15 ottobre 2015
In copertina: Montmartre, Parigi. Foto di Edmondlafoto da Pixabay.