Come liberarsi dalla puzza di «morte e merda»
di Simona Maria Frigerio
“Quando entrai per la prima volta in una prigione, ero studente in medicina. Lottavo contro il fascismo e fui incarcerato. Mi ricordo della situazione allucinante che mi trovai a vivere. Era l’ora in cui venivano portati fuori i buglioli dalle varie celle. Vi era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia dove si dissezionano i cadaveri. Quattro o cinque anni dopo la laurea, divenni direttore di un manicomio e, quando entrai là per la prima volta, sentii quella medesima sensazione. Non vi era l’odore di merda, ma vi era un odore simbolico di merda. Mi trovai in una situazione analoga, una intenzione ferma di distruggere quella istituzione. Non era un problema personale, era la certezza che l’istituzione era completamente assurda, che serviva solamente allo psichiatra che lì lavorava per percepire lo stipendio alla fine del mese”, così Franco Basaglia nel 1979 nelle sue Conferenze brasiliane (raccolte in libro da Raffaello Cortina Editore, 2018).
Non era un eroe, un campione da mettere in mostra o una medaglia da appuntarsi al petto. Il potere istituzionale, come scrive Walter Benjamin, usa “la celebrazione” per “occultare i momenti rivoluzionari nel corso della storia” e così si è eletta l’icona Basaglia, e si è dimenticata la forza corrosiva della sua parola/prassi.
Forse per questo decidiamo di scrivere oggi (data in cui non si celebra alcun anniversario) del valore di ‘cura’ (nell’accezione di “interessamento solerte e premuroso per un [s]oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività” – che sarebbe piaciuta a Basaglia) del fare arte o teatro con i lungo degenti psichiatrici o nelle Rems. Perché non c’è nulla da festeggiare dopo oltre 40 anni dalla Legge 180 ma ancora tanto da capire. Se è vero, come scrive Antonella D’Arco nel suo saggio In viaggio verso un’utopia possibile: il palcoscenico di San Salvi (in Pazzi di Libertà, Pacini Editore, 2018), che: “Rovesciare l’istituzione significò rinnegare l’ubbidienza all’istituzione, mettendo in discussione i principi su cui si fondava l’esigenza, da parte della società, di avere a disposizione gli ospedali psichiatrici come strumenti di repressione”; è altrettanto vero che Franco Basaglia morì troppo presto, e dopo essersi dedicato alla pars destruens non ebbe tempo per la pars construens.
Sempre dal saggio di Antonella D’Arco: se ieri “la libertà degli internati e la loro sanità mentale erano misurate in base alla possibilità, da parte degli stessi, di trovare un lavoro ben retribuito e alla capacità di essere personale produttivo, più che persone”; oggi è diverso? Su questo punto sarà la nostra prima intervistata a fare luce rispetto alla situazione attuale.
La colpa senza responsabilità
Partiamo da qui – ma ritroveremo la voce e le idee di Basaglia nel corso degli incontri – per dialogare con Elena Sorbi, psicoterapeuta e curatrice dei progetti speciali e dei rapporti istituzionali di Lenz Fondazione – rappresentante per Lenz nella rete della Regione Emilia-Romagna I Teatri della Salute e nella rete italiana del progetto Europe Beyond Access, per una nuova ecologia delle arti equa e accessibile.
Iniziamo da un progetto forse unico nel suo genere e che durò una brevissima, intensa stagione, ossia la preparazione e la messa in scena, nel 2016, del Macbeth con i pazienti della REMS di Casale di Mezzani (ossia di una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Sanitaria, strutture che hanno preso il posto degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari).
Elena Sorbi: «La nostra è stata una breve parentesi e sicuramente un percorso teatrale non porta alla guarigione, ma sarebbe stato interessante proseguirlo per valutarne gli effetti sul lungo periodo – in quanto, con il teatro, ci si riappropria della dimensione simbolica pur evitando di scontrarsi con l’abnormità delle proprie azioni. Avremmo davvero voluto che la relazione con la Rems potesse continuare. Dirò di più, all’interno di quel primo percorso, a fianco dell’attrice presente in scena (Sandra Soncini, n.d.g.), avremmo voluto gli attori della Rems dal vivo – che, al contrario, erano presenti in video, e oltretutto con un pre-registrato – ma non ci riuscimmo. E perché? Perché nonostante le Rems dovrebbero fare da ponte e, quindi, trasformare l’esistenza delle persone con disagio psichico in esistenze condotte pienamente all’interno della società – tramite l’attenzione dei servizi territoriali – molto spesso si trasformano in strutture che mantengono le persone al loro interno, dove hanno a disposizione poche ore da dedicare ad attività esterne. E in quegli spazi temporali, ovviamente, sono favorite quelle attività – e qui sforiamo in considerazioni culturali e politiche – utili alla produttività: dal corso di computer a quello di avvicinamento a una professione. Far passare l’idea che l’attività teatrale sia di per sé professionalizzante e, contemporaneamente, terapeutica è molto complicato. Di conseguenza, determinati percorsi non proseguono oppure devono lottare per farlo, perché quando si fa qualcosa che obbliga a un impegno, emotivo e di tempo, per i degenti, ma anche – come ricaduta – per gli operatori e la struttura, che ovviamente arricchisce i primi ma non ne fa dei cittadini produttivi, si lotta tuttora contro i mulini a vento».
Com’è nata la scelta, artistica e umana, di Lenz di lavorare con i degenti degli ex ospedali psichiatrici anche giudiziari?
E. S.: «Il lavoro di Lenz con la sensibilità psichica affonda le radici nei laboratori con la disabilità intellettiva del lontano 1998 – un interesse finalizzato a una ricerca sui linguaggi e le drammaturgie in vista del nuovo millennio. Da quelle esperienze sono nate delle relazioni con i servizi di salute mentale che si occupano, nello specifico, di sensibilità più psichica che intellettiva, che ci hanno condotti ad alcune attività con gli ex lungo degenti dell’ospedale psichiatrico di Colorno. Questi ultimi, dopo la chiusura nel 1978, furono mandati in piccole comunità montane – considerate le migliori per i percorsi di reinserimento sociale. Tra le tante, noi collaboriamo con il centro terapeutico-riabilitativo di Pellegrino Parmense (anche se, per motivi anagrafici ma anche per gli effetti collaterali delle terapie farmacologiche protrattesi per molti anni, di quei primi pazienti non è rimasto nessuno). Ogni anno ci incontriamo con la dirigenza dell’Ausl per capire in che direzione proseguire con il nostro lavoro cercando una mediazione, non sempre facile, tra le esigenze sanitarie e un interesse artistico di approfondimento. Il 2015 è stato un anno particolare dato che era la data limite per realizzare il passaggio dagli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). In particolare, nella regione Emilia-Romagna, ne sono state attivate due, una a Bologna e l’altra a Casale di Mezzani, vicino a Parma. Quando incontrammo il direttore dei servizi di salute mentale dell’Ausl, Pietro Pellegrini, lui stesso ci sottolineò l’importanza, in quel momento, della valenza riabilitativa, ma anche politica e sociale, di iniziare dei percorsi concomitanti con l’apertura di questa nuova struttura che, dal punto di vista delle attività, era un contenitore vuoto – dato che le Rems avrebbero dovuto collocarsi come luogo di transizione tra l’istituzione totale, ossia l’ex Opg, e la presa in carico territoriale. In altre parole, le persone ricoverate in luoghi dove sussisteva un aspetto di condanna passavano in carico a strutture puramente sanitarie. Conoscendo le nostre metodologie e anche le nostre esperienze, e gli esiti comunicativi e trasformativi del nostro lavoro, ci fu offerto di intervenire nella nuova struttura – anche in considerazione del fatto che aprendo la stessa, in un centro molto piccolo, bisognava sensibilizzare la popolazione residente che, in quel momento, dimostrava grandi timori (forse cavalcati da alcune realtà politiche) che i cosiddetti ‘pazzi criminali’ tornassero in libertà. Occorreva lavorare contro lo stigma sociale, valorizzando – anche a livello di comunicazione – le capacità e il reinserimento dei degenti».
Da psicoterapeuta, qual è il valore dell’attività teatrale o artistica per chi soffra di disagio mentale?
E. S.: «Non tutte le persone che si approcciano all’attività teatrale sono artisti, come accade con gli allievi di qualsiasi laboratorio – c’è chi ha un destino, un talento, una predisposizione scenica e chi può compartecipare questa attività per trarne un beneficio personale che non necessariamente si trasforma in un’attività all’interno di una produzione, o in una carriera professionale – aspetto, quest’ultimo, che interessa comunque Lenz, in quanto le nostre attività con le persone, indipendentemente che abbiano sensibilità psichica o meno, sono anche tese alla costruzione di percorsi professionali. Tornando alla domanda, c’è un importante percorso relativo alla ricostruzione della propria identità e alla rielaborazione del trauma. La possibilità di interpretare delle figure che forniscono, in quanto drammaturgiche e ben strutturate, dei confini, e di collocarsi al loro interno con il proprio portato emotivo, permette alle persone con sensibilità psichica – ma anche a chiunque tra noi – di non essere sommerse, bensì di rielaborare, in un contesto maggiormente ‘protetto’, le proprie pulsioni o essere rimesse in contatto con dimensioni traumatiche dell’esistenza. Tra le attività che portiamo avanti, all’inizio, c’è quella di identificare il tema fondamentale di un’opera e su quel tema tentare delle improvvisazioni, soprattutto di tipo verbale, per cui le persone non racconteranno la propria storia ma la narrazione, necessariamente, si rifarà alla loro identità. Teniamo conto che in una Rems ci sono pazienti che hanno consapevolezza della propria responsabilità e, quindi, possono lavorare sulla stessa senza esserne sopraffatti e altri che rientrano nell’ambito della psicopatia – o disturbo antisociale di personalità – che si distanziano dalla propria azione e dal fatto che la stessa abbia prodotto un danno al prossimo e a se stessi. Per questi ultimi rivivere una tale azione all’interno di un contesto che ha, però, una narrazione strutturata permette loro di essere messi in contatto con una dimensione emotiva che, altrimenti, sarebbe scotomizzante (scomotizzare significa rimuovere inconsciamente ricordi penosi o sgradevoli, n.d.g.)».
Riappropriarsi del proprio corpo e del linguaggio per chi abbia vissuto in un’istituzione totale – com’era il manicomio – cosa significa?
E. S.: «Le persone che provengono da un’istituzione totale, ossia da un mondo privo di stimoli, sono completamente coartate. Sono persone abituate da un punto di vista identitario, di movimento e anche di linguaggio a ripetere perennemente gli stessi comportamenti, che sono diventati nel frattempo di tipo ossessivo e, spesso, sono sostituiti da dipendenze – il fumo, prima di tutto. Una progressiva sottrazione di sé che arriva quasi all’immobilismo verbale e corporeo. Riattivarsi all’interno di un percorso teatrale è un po’ come venire nuovamente al mondo: si deve apprendere, all’interno di una mappa mentale, a ricollocare i distretti del proprio corpo. In parole semplici: io ho una mano, la percepisco e la posso usare, non solamente per fumare una sigaretta, ma magari per accarezzare. Mi riapproprio così del mondo e del mio schema corporeo, che è prevalentemente mentale. Stesso discorso per il linguaggio».
Come ci si approccia a un paziente psichiatrico da compagine teatrale?
E. S.: «La fase di preparazione di tali percorsi è molto importante così come sono di capitale importanza le figure di mediazione – che possono essere educatori, responsabili di progetti terapeutici riabilitativi e operatori, appassionatisi al progetto, ma soprattutto che non ne hanno paura persino se si dice loro che si vuole lavorare sul Macbeth con persone che hanno commesso omicidi! Purtroppo, troppo spesso, il sistema sanitario si adagia su attività ludiche oppure sull’animazione, non comprende la differenza tra queste ultime e il teatro. Eppure le persone, all’interno del sistema, che facilitano l’integrazione di un progetto come questo nell’istituzione e ne valorizzano l’aspetto riabilitativo, sono fondamentali. Sono gli stessi professionisti che ci supportano anche nel percorso di monitoraggio dell’attività. Perché chi soffre di disagio psichico e lavora con noi non solamente sviluppa un lato artistico ma ha altresì la possibilità di rielaborare quanto è emerso in un contesto terapeutico. Occorrono, quindi, le risorse, economiche e di personale, non solamente per il progetto ma anche per attivare, ad esempio, sedute terapeutiche successive alle ore di laboratorio, per rielaborare lo spazio di pensiero ed emotivo che è stato aperto. Da parte nostra, comunque, non c’è mai un’imposizione, bensì uno stimolo a rielaborare, riempire e trasformare parole chiave, concetti e piccole strutture narrative, partendo dalle emozioni singole. Ciò che facciamo ha un valore terapeutico, però non si sta facendo terapia, e tutti noi lavoriamo per ottenere un prodotto – dallo spettacolo teatrale alla restituzione laboratoriale – che è comunque artistico».
Per il Macbeth avete lavorato con gli ospiti della Rems di Casale di Mezzane e il ruolo del protagonista è stato affidato a un pluriomicida. Ci racconta quel percorso che sfociò in uno spettacolo emozionante?
E. S.: «Il protagonista di quello spettacolo rappresenta un esempio di ciò che ci siamo dette: la possibilità di rielaborare da un punto di vista simbolico il proprio agire. Ovviamente non è stata l’autobiografia della persona a dettarne il ruolo. Noi non chiediamo quale sia il trascorso – magari, lo si apprende per vie anche traverse ma non si fanno domande. Non c’è mai stato un momento in cui la storia personale abbia ecceduto rispetto alla drammaturgia, perché quest’ultima ha permesso alla storia personale di emergere come un filler, di far trasparire una dose di emotività, senza che il vissuto personale abbia mai soverchiato la struttura shakespeariana. Il protagonista, del resto, era una persona predisposta rispetto alla simbolizzazione artistica – studiava, leggeva, scriveva, faceva musica. Non è stato, però, semplice il lavoro all’interno della Rems. Abbiamo cominciato con un folto gruppo ma solamente poche persone hanno ‘tenuto’ per la durata dell’intero percorso, anche perché vanno considerati fattori basici: noi chiedevamo impegno, continuità, concentrazione per le due ore laboratoriali e di studiare brani a memoria – tutte attività alle quali le persone della Rems erano disabituate. Il gruppo, quindi, si è ristretto via via, sfociando alla fine in uno spettacolo in parte dal vivo e in parte in video – trasmesso durante la performance».
E adesso lasciamo i Lenz a Parma per raggiungere idealmente i Chille de la Balanza a Firenze.
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Dal teatro-terapia alla follia come ragione poetica teatrale
A volte i luoghi sono scelti, altre ci scelgono. E quando avviene, l’osmosi che si crea tra presenza e ricordo (perché San Salvi, a Firenze, è un ex manicomio ormai chiuso ma aperto come spazio teatrale) può generare non un mausoleo nostalgico o pedagogico di ciò che fu, ma un museo vivente di ciò che potrebbe essere, dell’utopia che vogliamo edificare dalle ceneri dell’esperienza (e, a proposito, si veda il saggio Quelli della bilancia. Teatro e cittadinanza attiva di Pietro Clemente sempre in Pazzi di libertà). La poetica dei Chille de la Balanza si è nutrita per oltre vent’anni di questo luogo e delle sue suggestioni per restituire forme di teatro esperienziale che, a loro volta, hanno messo in gioco gli spettatori, i cosiddetti sani, confrontandoli con le loro paure, i limiti di una società sempre più follemente votata alla superficialità, che non permette il ripiegamento su di sé, il dubbio, l’ammissione di una fragilità individuale o collettiva.
Nel saggio/intervista firmato da Matteo Brighenti, Comunque, Teatro. Il ‘ritrovamento’ dei Chille de la Balanza a San Salvi, leggiamo come Claudio Ascoli, direttore artistico della compagnia di origine napoletana, citi Basaglia coniugando il di lui pensiero con la sua personale visione di una vita per il teatro: “Se non fai una sorta di rivoluzione permanente, che continuamente ti rimette in gioco, è inutile chiudere i manicomi, si riaprono in un’altra forma, magari dentro di noi”.
I Chille, la loro rivoluzione permanente la portano avanti da oltre vent’anni nell’ex manicomio fiorentino confrontandosi, nella pratica teatrale, con i limiti e le possibilità della pazzia. Se Antonin Artaud sviluppò una propria poetica a partire dalla sua personale esperienza in manicomio, anche la compagine napoletana si è continuamente confrontata con il corpo che – nel momento in cui è negato e costretto, destituito della propria soggettività e della volontà – assurge a elemento simbolico per eccellenza della spersonalizzazione operata dalle istituzioni, in generale, e dal manicomio in particolare. Ma i Chille si sono anche confrontati con la (im)possibilità della relazione psichiatra/paziente sublimata (o semplicemente traslata?) nel rapporto dialogico, spesso altrettanto (im)possibile, attore/spettatore. Hanno tentato di inserire lo spettatore all’interno del gioco scenico, soprattutto in Kamikaze e Paura, perché lo stesso vi si sottraesse, rompendone il meccanismo per compiere quel gesto rivoluzionario che è contemporaneamente atto distruttivo e fondativo di una nuova società.
Il futuro sarà essere pagati per non fare teatro?
Incontriamo Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza via Zoom: l’ennesima videochiamata che serve quasi più ad allontanare – come una stretta di mano – dal proprio interlocutore che a raggiungerlo. Non vi spiegate cosa sto dicendo? Seguitemi, forse non sono pazza.
Chille de la Balanza è arrivata a San Salvi quasi per caso, quando l’ex Ospedale Psichiatrico stava per chiudere. Perché decideste di restarci?
Claudio Ascoli: «Più che cercare le cose, noi le troviamo. Siamo inciampati in San Salvi perché stavamo lavorando su un testo di Artaud, Van Gogh il suicidato della società, ma, per vicende ‘italiane’, il luogo che ci era stato assegnato improvvisamente si rese indisponibile. Così ci ritrovammo a dover ricollocare un evento provato in un altro spazio – ossia in un deposito dismesso. In quel momento eravamo abbastanza inconsapevoli di cosa fosse San Salvi: da casa nostra ci pareva un luogo abbandonato, come in effetti era dato che ospitava ciò che si definisce – con un termine molto brutto – un ‘residuo manicomiale’, prima della chiusura definitiva. L’impatto che ne avemmo ci cambiò indubbiamente la vita. Qui erano già presenti gli artisti della Tinaia, che è un Centro di attività espressive con oltre quarant’anni di esperienza alle spalle. E qui c’erano i matti – termine che utilizzo perché lo ritengo colto e pieno di vita, preferendolo a ‘persone con disagio psichico’. E i matti che incontrammo, che avevano vissuto l’esperienza manicomiale, ci spiegarono un sacco di cose. All’inizio, ricordo, peccammo di buonismo: sorridevamo, dicevamo sempre di sì per non contrariarli, ma i colleghi della Tinaia, che lavoravano con loro da anni, ci spiegarono che occorreva anche contraddirli, dire loro di no, in pratica ci fecero capire che erano persone a tutti gli effetti e andavano trattate come tali».
Sissi Abbondanza: «Con affetto e apertura, ma con spontaneità».
C. A.: «La prima lezione di vita la ricevetti da una persona che non dava mai la mano perché sosteneva che dare la mano crea distanza. Di conseguenza, se voleva stare con noi, ci abbracciava, altrimenti ci ignorava. E io capii che i matti erano in grado di analizzare i comportamenti in maniera interessante. La seconda lezione la appresi quando scoprii i lavori di una paziente, i cui disegni erano inseriti in un calendario e io, non sapendolo, e vedendo il calendario, le chiesi se erano suoi. Lei non mi rispose. Così decidemmo di osservare quei disegni più da vicino e vedemmo che riportavano la sua firma. A quel punto le dissi: “Giusi, ma sono tuoi, e non ti ricordi di averli fatti?” e lei: “Uno le cose le fa per farle, non per ricordarsi di averle fatte!”. Dopo questa seconda lezione di vita capii che i problemi sarebbero stati tanti, ma il mondo che ci stava accogliendo era estremamente affascinante: un misto di fantasia e rigore. Rammento che, ogni giorno, c’era una donna che veniva ad assistere agli spettacoli ma, soprattutto, alle prove e ci spiegava ciò che stavamo facendo: noi ci arrivavamo partendo dalla testa per giungere al corpo; lei con un percorso inverso: dal corpo alla testa, ossia dalle emozioni all’elaborazione, con un metodo che in seguito abbiamo fatto nostro. Fu un elettroshock culturale che durò una decina di giorni. Per l’ultima replica si ruppe un faro e Giusi arrivò con la lampadina della sua abat-jour. Non volevo dirle che ci serviva ben altro e così cercai un modo gentile per rifiutare: “Ma se dai a noi la lampadina, tu come farai?” – al che lei rispose che la lampadina le serviva per leggere ma se noi fossimo restati, e lei avesse trascorso le serate con noi, non ne avrebbe avuto più bisogno. E infine arrivò il momento di smontare: ci diedero dei carrelli del manicomio sui quali caricammo le casse, i cavi, il materiale che dovevamo portare via e ci mettemmo a correre lungo questi corridoi vuoti. I pazienti, però, quando passavamo si rinchiudevano nelle loro stanze. Capimmo dopo che quello sferragliare ricordava loro il suono delle terapie. In pratica, risuscitavamo nelle loro menti di malati post-Basaglia, i vecchi rumori del manicomio. E così comprendemmo che i rumori e gli odori erano talmente dentro i loro corpi da provocargli reazioni immediate al riproporsi degli stessi. Però, non dimostrarono mai segni di rifiuto nei nostri confronti, nonostante l’errore involontario. Al contrario, ci coccolavano come fossimo incapaci di intendere e di volere – perché eravamo noi quelli che non sapevano e non potevano, di conseguenza, comprendere. Quell’ultimo giorno, quando dovemmo andarcene (anche se poi saremmo tornati e rimasti), ricordo che Giusi (la donna della lampadina) ci disse che non dovevamo andare via perché la sera, da quando eravamo a San Salvi, lei poteva stare con noi. Tentammo di spiegarle che era necessario per noi fare spettacoli, dato che era il nostro mestiere, ma lei ci rispose: “Pago io. A me non serve la pensione, la do a voi”. Ecco, questo misto di tenerezza e durezza ci avrebbe condizionati per anni, anche se ce ne rendemmo conto più avanti».
Scegliere quella dimensione – di luogo e di corpi costretti – venendo da un passato di erranza e teatro di strada – quindi, di grande libertà – fu difficile?
S. A.: «Non rinnego il passato di attitudine alla comunicazione del teatro di strada perché quello è un bagaglio enorme di incontri di corpi. A San Salvi è come se avessimo rielaborato questa nostra memoria di teatro di strada con la consapevolezza degli irrigidimenti propri degli anni 90. Tra le due esperienze si è avuta, nella società, una disattesa, una mancanza di reazioni positive, che si è riflessa persino negli attori che hanno poi partecipato alla Trilogia della Vita (che comprende gli spettacoli Kamikaze, Macerie, Paure, n.d.g.) quando confrontati con la possibilità di rompere il gioco teatrale – ad esempio in Kamikaze. Paure è stato un momento ancora più eclatante in questo senso. Come si può abbattere la barriera senza superarla?».
Quali sono le affinità tra il pensiero di Franco Basaglia e il vostro fare teatro?
C. A.: «Partiamo da alcune logiche che propone Basaglia per il superamento del manicomio. Mi sono accorto che la distanza tra la rivoluzione basagliana e la scrittura teatrale è minima. Questo perché molto di ciò che lui propugnava e che noi attuiamo in teatro, magari inconsapevolmente, coincidono. Faccio un esempio. Di fronte alle alternative di percorso, lui suggeriva di scegliere sempre la via più difficile perché l’obiettivo non è arrivare prima ma arrivarci bene. Inoltre, se si sceglie la strada più impervia, l’altra sarà facilmente percorribile. Lo stesso ragionamento si ritrova in Mejerchol’d (regista e pedagogo russo, ideatore del metodo dell’attore biomeccanico, n.d.g.): se in una messa in scena si mette a punto un singolo dettaglio e si procede di dettaglio in dettaglio, non si risolverà mai il problema generale della messa in scena. Bisogna individuare un punto centrale e, scombinando l’insieme, si risolveranno varie problematiche. Pensiamo poi all’importanza di fare comunità, di porsi obiettivi impossibili, o al rispetto per la memoria come lezione di vita ma non come proposta di azione: sono tutte tematiche affrontate da Basaglia, tipiche anche del nostro fare teatro. E infine consideriamo il fatto che il teatro, come il manicomio, è un mondo chiuso, un limbo che aspira continuamente all’apertura. Quando si è in fase creativa, ci si rinchiude, ma per poter fare un’azione teatrale, occorre coinvolgere l’esterno, gli spettatori».
Oggi, come si può parlare di corpo teatrale in una dimensione pandemica che costringe a esperienze online e/o in streaming?
C. A.: «Il luogo, ossia lo spazio infettato positivamente dai corpi, è un elemento creativo dell’evento teatrale quanto l’attore, lo spettatore e il testo. Non esiste il teatro senza corpo. L’ultima esperienza fatta nella Giornata di resilienza civile del teatro e dello spettatore (il 17 gennaio 2021, n.d.g.) abbiamo incontrato, ad esempio, un gruppo di spettatori napoletani che ci hanno detto che non solo non sopportano il teatro online ma, se devono sopportarlo, almeno vogliono assistervi come gruppo, a casa di uno di loro (e qui sorge il dubbio che forse, a teatro, con le poltrone distanziate, sia meglio a livello di sicurezza sanitaria che non in una stanza, e che se ci si ritrova comunque, occorrerebbe farlo in strada per reclamare la riapertura dei teatri, n.d.g.). Ciò di cui non si tiene conto con l’online è che il teatro non è solo l’incontro fisico tra l’attore e lo spettatore ma altresì tra gli attori e tra gli spettatori. Senza questa fisicità si possono fare cose interessanti, magari gradevoli, simpatiche, ma il teatro non è ‘carino’. Il teatro è necessario, è multisensoriale, è un qualcosa che accade nello spettatore e nell’attore e che porta a un cambiamento in entrambi. Senza corpo non c’è teatro».
In Kamikaze e in Paure (parte della Trilogia della vita) cercavate di innescare atti di rivolta e ricostruzione della realtà da parte del pubblico. Il meccanismo teatrale, però, come qualsiasi meccanismo coercitivo, ossia con regole accettate o imposte (dal gioco al manicomio fino alle imposizioni pandemiche), è difficile da infrangere. Cosa avete appreso da quelle esperienze?
C. A.: «Pasolini diceva che noi passiamo tutta la vita cercando di tornare alla nostra felicità di bambini, alla nostra ‘ingenuità’, che ci permette di riappropriarci della leggerezza. Al contrario, gli adulti sono abituati a capire approfondendo e, così facendo, appesantiscono, senza comprendere che occorrerebbe coniugare profondità e leggerezza. A San Salvi siamo circondanti da questo sapere. Se qualcuno ci insegna che ‘si fa una cosa per farla e non per sapere di averla fatta’, ci troviamo di fronte a una lezione di vita insieme profonda e leggera. Le azioni teatrali che abbiamo proposto nei primi dieci anni di permanenza a San Salvi, in certo modo, non erano autorizzate: le istituzioni più che supportarci, ci sopportavano. Ma proporre il teatro esperienziale qui, in un ex manicomio, invece che altrove, è dipeso anche dal fatto che ho cercato di creare uno sconquasso napoletano in terra fiorentina – aggiungendovi la dimensione della progettazione».
Pensiamo al Teatro de los Sentidos, pensiamo a Secret Room di Cuocolo-Bosetti. Il teatro cambia?
C. A.: «La rivoluzione permanente di Basaglia richiede un grande dispendio. Il problema nella società contemporanea è che noi abbiamo eliminato la categoria del dispendio. Cosa significa? Pensiamo al dispendio amoroso per la vita e trasliamolo nel teatro. L’unico modo per fare questo lavoro è provare a incidere così che la gente partecipi, regalandoci i suoi ricordi e avendo fiducia in noi. Com’è possibile? O in maniera capitalistica: metto in atto un meccanismo di comunicazione fasulla in cui ti faccio credere che tutta vada bene – ma che, presto o tardi, si svela fallace. Oppure creo un meccanismo, che è quello teatrale, che consente di invadere e di lasciarsi invadere dal corpo, il che implica una dedizione quasi mistica e prevede il dispendio. In altre parole, se voglio prendere qualcosa da te, devo darti altrettanto, devo entrare in una dimensione tale in cui mi metto totalmente in gioco, il che conduce alla reciprocità».
La cura del teatro come cura dell’anima?
C. A.: «Quando mi chiedono se mi occupo di un teatro per persone con problemi, io rispondo di sì perché le persone hanno tutte dei problemi, me compreso. Il teatro è una cura reciproca: fa bene a chi lo fa e a chi lo vive. E qui risiede la differenza con l’animazione. Il teatro lo facciamo insieme: attori e spettatori. Qual è il vero problema? Il teatro suscita attenzione nelle istituzioni, ed è anche finanziato. Pensiamo a quello che ha profuso il Ministro Franceschini in ristori. Attenzione, però. Lui li ha elargiti per non fare teatro. Di fatto il concetto è che il potere ci dà anche dei fondi purché ce ne stiamo a casa. Questo non perché sia complicato mettere il teatro in sicurezza o perché a teatro ci si contagi più che in fabbrica, bensì perché il teatro che cura spettatori e attori apre conflitti e interrogativi, genera analisi e dubbi, non dà risposte ma spinge a domande, rende le persone persone, i soggetti soggetti…».
S. A.: «Libera!».
C. A.:«E quindi, in una società che vive di social dove si mette un like senza nemmeno sapere a cosa – e questo anche da parte di chi si occupa di cultura – da napoletano, che sa cosa sia il senso del tragico – il che significa dare a ogni situazione e accadimento la sua giusta dimensione, permettendomi, quindi, anche di ridere, di godere delle vita e di essere felice, sempre consapevole che questo percorso non si fa da soli – ho trovato altre dimensioni. La felicità è amore – non masturbazione. Senza le relazioni, la capacità di non temere di mostrare le proprie ferite, di creare un clima di complicità e condivisione con ciò che ci circonda, non c’è vita. Per me, il teatro sopravviverà – al Covid-19 come alla peste o alle dittature dispotiche del Novecento. Vivremo una fase di assestamento ma il bisogno di incontro resterà. Sarà vincente? Almeno sarà ‘non perdente’, sarà una barriera contro la sconfitta. Netflix sarà carino, sarà persino bello esteticamente, ma in senso deteriore. Perché la bellezza implica intimità».
Come sempre nelle nostre inchieste, adesso vi chiediamo di abbandonare la pagina, rilassarvi, magari bervi un caffè. Quando avrete sedimentato il discorso, passate su https://teatro.persinsala.it/pazzi-teatranti-seconda-parte/60500/, vi attendono le testimonianze di Daniele Giuliani, i ricordi di Teatro Nucleo nel manicomio di Ferrara e di Marco Cavallo – del geniale Giuliano Scabia – a Trieste, e poi la piccola realtà del Filo Magico, che abbiamo conosciuto grazie al Lu.C.C.A. Center of Contemporary Art.
Venerdì, 19 febbraio 2021
In copertina: Immagine di scena da Macbeth (con la performer Sandra Soncini). Foto di Francesco Pititto (tutti i diritti riservati).