
Luci e ombre del nuovo volume firmato da Alessandro Alfieri
di Simona Maria Frigerio
Per analizzare un libro occorre sempre partire dal lettore. A chi è indirizzato e chi può avere gli strumenti e l’interesse per leggerlo? Bill Viola di Alessandro Alfieri è un libro adatto a un corso monografico universitario, sia perché dà per scontati troppi termini tecnici, snocciolati acriticamente (NFT, Metaverso, Realtà Estesa – Virtuale e Aumentata, gif, post-modernismo, music-video – laddove la massa si ferma al video musicale) sia per la sovrabbondanza di termini aulici fini a se stessi e di una autoreferenzialità accademica di vecchio stampo, che pare quasi compiacersi della propria, indiscussa, erudizione (due frasi a caso: “traduzione del formalismo tautologico e decorativistico in attrazione sinestesica”, “la ‘sopravvivenza’ o ‘sopravvenienza’ dell’immagine artistica riguarda la loro carica mnestica e la loro capacità di farsi autentici dinamogrammi carichi di storia” – che sfidiamo qualsiasi lettore medio a tradurre in termini comprensibili).
Detto questo entriamo nell’analisi del lavoro quarantennale di Bill Viola (corredato da immagini alle quali si sarebbe potuto rinviare con un semplice link ma si è preferito il Codice QR).
Dopo l’introduzione, il secondo capitolo è un bigino (ovviamente sintetico visto che il libro consta di 162 pagine, oltre alla bibliografia e all’indice) sulla storia e i generi della videoarte. Si accenna ai precursori, ossia agli artisti intermediali di Fluxus, anche se quel movimento ebbe soprattutto riscontri a livello musicale e performativo e raggruppò personaggi di grande qualità come John Cage (tra gli autentici ispiratori e promotori) e altri sopravvalutati, come l’ex nazista Beuys, o artisti più in sintonia – sebbene esteticamente e poeticamente distanti – con Viola, come Nam June Paik (di cui si può vedere TV Buddha del 1974, in cui la video-installazione ha il sopravvento sul video, ma il rumore sprigionato dallo stesso mostra le corde della seraficità buddhista quando messa a confronto con il dinamismo cacofonico e vorace occidentale. Il contrasto suscita immediatamente fastidio e, laddove non scortichi un pensiero rivoluzionario nello spettatore, finisce semplicemente per allontanarlo dalla sperimentazione e dall’eventuale messaggio antagonista della stessa – e Fluxus, per inciso, fu anche un movimento con radici politicizzate, pure in questo lontanissimo da Viola).
Alfieri mette quindi a confronto i succitati Fluxus et al. con la produzione di Viola del periodo dei videotape o video monocanale (antecedente alle video-installazioni). Possiamo così vedere Riflecting pool (del 1979), del quale avevamo scritto tempo fa: “La realtà è quella percepita dall’occhio o quella intravista dalla mente? A cosa dobbiamo credere? In quell’attimo sospeso nel tempo (tematica cara a Viola nel suo intero percorso), in quel gesto impigliatosi nella lancetta di un orologio, si contiene – in nuce – la strenua ricerca di se stesso di Ned Merrill (un Burt Lancaster già esteticamente europeo) nel surreale The Swimmer, di Eleonor e Frank Perry. Il riflesso della pozza d’acqua può rinviare a presenza, movimento, immersione e rinascita – gesti reali e rimandi metaforici, ma ciò che resta imprigionato è quello scatto, di volontà in potenza, che può essere tradotto in rinascita o venuta al mondo, in superficiale immersione nello scorrere della vita o in accettazione che, alla fine, del nostro sé non resterà nemmeno il vuoto, dato che l’acqua – come nel bel fantasy di Guillermo del Toro – non ha forma”.
Mentre, come esempio di video installazione, Alfieri propone Room for St. John of the Cross del 1983 che, sebbene lo stesso Viola riconosca come un turning point del suo opus, è in realtà uno tra gli ibridi meno riusciti dell’artista (in cui si nota la disperata ricerca che ancora fatica e annaspa). Più interessanti i successivi The Crossing (1996) e The Greeting (1995), quest’ultimo messo a confronto (più volte nel libro) con La visitazione del Pontorno (1530), in cui solo apparentemente Viola cerca di recuperare la storia (tema caro ad Alfieri) attraverso quella dell’arte, soprattutto rinascimentale. In effetti, la ricerca di Viola – come quella di Imre Thormann, Masaki Iwana, o dei primi Maestri del Butoh, quali Tatsumi Hijikata e Kazuo Ōno – verte sul movimento in se stesso, agito con la stessa lentezza della danza giapponese, peraltro moderna (in quanto nata dopo la Seconda guerra mondiale), sebbene attraverso le tecniche proprie del video, ossia lo slow motion.
Seppure nemmeno citato nel volume, sempre nel 1979 Viola realizza un altro piccolo capolavoro al pari di Riflecting pool, intitolato Silent Life e del quale scrivevamo altrove: “Il vuoto del silenzio. Può un medium che si affida alla percezione visiva comunicare il silenzio? Non con l’ausilio del suono o della sua mancanza/vacuum o, magari, del rumore dell’universo, bensì attraverso un processo concettuale che affida all’immagine la nostra elaborazione dell’idea di silenzio? Viola in Silent life utilizza la bocca di un neonato (il primo, in particolare), nelle mani emotivamente sterilizzanti di una nascita degradata da rituale mistico a pratica ospedaliera, da venuta al mondo a inquadramento sociale – secondo pesi, misure e temperature – per esprimere l’urlo concettuale di ritrovarsi da un utero materno e buio, da un liquido amniotico e protettivo (noi nasciamo nell’acqua e all’acqua siamo strappati per una terra brulla ed estranea), da un ventre silenzioso e solitario, a un mondo di luce artificiale, freddo, asettico, inospitale, sgradevole come la puzza di disinfettante di un qualsiasi ospedale o istituzione totale. Da neo-nati a pazienti/malati. La vita resta appesa a quell’urlo silenzioso che ognuno di noi ha provato venendo alla luce, in attesa del buio quitante”. Un video che, se analizzato, è già la summa dell’intera ricerca del videoartista statunitense, in quanto vi si trovano la sua mistica, la sua poetica, i suoi stilemi e la sua estetica.
Natura e buddhismo
Tornando al libro, il terzo capitolo è dedicato a una lunghissima, erudita (ma francamente inutile) digressione su natura e buddhismo che, tra l’altro, non si concilia con la scelta di mostrare il teaser di Martyrs (2014), dati i chiari riferimenti con il martirio dei primi cristiani e, poi, degli eretici a opera della Santa (ben poco, sic!) Inquisizione. L’intero discorso, vicino alla fisica o alla lontana atomistica, che spiega come anche un oggetto tecnologico sia, in fondo, l’insieme di materiali (più o meno) presenti in natura e i tentativi di riconciliare la visione Zen del desiderio come fonte di dolore con quella di Raimon Panikkar (presbitero e non buddhista), che distingue tra desiderio di un oggetto finito e stabile (impossibile da attingere in un’esistenza che è flusso continuo) e genera dolore e l’aspirazione a “sintonizzarsi con l’eterno divenire”, sebbene affascinante, in primis c’entra poco con Viola e, in secondo luogo, c’entra ancor meno con la filosofia buddhista – in cui il nirvana non è annichilimento (idea tutta occidentale che nasce dal nostro ego ipertrofico, il quale aspira all’eternizzazione dell’individuo in se stesso e cosciente), bensì rottura della ruota dell’eterno ritorno per entrare a far parte di un tutto di cui siamo composti: siamo energia e all’energia torneremo. Ma qui ci addentriamo in discorsi filosofici (o religiosi, ma non mitologici, termine usato da Alfieri) e avervi dedicato tante pagine nell’economia del libro ci pare disequilibrato. Dei riferimenti all’acqua o al liquido amniotico – di cui fa cenno Alfieri – abbiamo già ampiamente disquisito in merito a Silent Life; per la visione Zen di un Viola sarebbe stato meglio non addentrarsi nella filosofia buddhista e concentrarsi, semplicemente, sull’analisi di un altro tra i capolavori dell’artista statunitense (e non ‘americano’, termine davvero scorretto politicamente ma continuamente utilizzato nel libro e molto criticato da tutti i Paesi centro e latino-americani), ossia Vegetable memory (1978/80), girato al mercato del pesce di Tsukiji a Tokyo. Come da nostra recensione precedente: “La ripetizione è il nucleo tematico di questo piccolo capolavoro mistico. Come nella tradizione buddhista, la ruota deve essere spezzata ma noi siamo ipnotizzati dall’immagine ripetitiva che ci lega a un qui e ora che dovrà ripetersi in eterno o, almeno, finché riusciremo a spezzare l’incantesimo di morte/vita. La ripetizione non come ossessione ma come obnubilamento, come il movimento pacificante di una culla che ci consola dell’umana sofferenza e ci permette di accettare il ciclo. Solo il fuoco che arde e fagocita, come un’enorme bocca, potrà riaprirci alla vita oltre la vita”. Forse.
Altri temi: staticità, narrazione, idea, autoreferenzialità
Se è indubbiamente interessante che l’Autore metta in evidenza la tensione tra la staticità degli schermi e la fluidità delle immagini nelle video-installazioni di Viola (ossia la produzione appartenente al secondo momento creativo dell’artista statunitense), analizzando il cinema, il paragone si sposta tra l’illusione del movimento propria del film laddove “la staticità, il principio organizzatore” risiederebbe nel montaggio e nell’istanza narrativa. Ora sappiamo bene che il montaggio può non aver avuto tali valenze, ad esempio nella cinematografia di Sergej Ejzenštein con il montaggio delle attrazioni, in quella surrealista (e straniante) di Luis Buñuel o nelle sperimentazioni di Germaine Dulac; mentre è purtroppo vero che sarà la bieca narratività di Nascita di una nazione di David W. Griffith (con la sua carica razzista e suprematista bianca che riverbererà soprattutto nel genere Western) a prendere il sopravvento a Hollywood e in Occidente.
Il secondo tema è l’idea: indispensabile sembrerebbe, questa – secondo l’Autore – quale “principio statico a cui deve necessariamente fare riferimento la videoarte se non vuole ridursi all’irrilevanza”. Al di là che un tale ragionamento metterebbe in discussione il valore di tutta l’arte astratta o non figurativa del Novecento (a meno di non volerla spiegare con concettualizzazioni critiche e poetiche approntate a posteriori per cercare di tradurla in spiegazioni analitico-sintetiche), è la stessa arte concettuale che andrebbe oggi rimessa in discussione. Non basta avere un’idea per dirsi artista, se non si padroneggia un medium espressivo che renda pregnante un significante – il quale può non essere traducibile in un significato razionale o narrativo o di denuncia, bensì in un’emozione o una percezione liminale. Così come non condividiamo – tra le tante citazioni colte – quella di Sandra Lischi (stimabilissima docente e critica) quando affermerebbe che il cinema sarebbe “figlio della fotografia mentre il video si apparenta maggiormente alla radio”, in quanto “più fluido e libero, mentre il cinema è maggiormente ancorato alle immagini”. Nel caso di Fluxus questo potrebbe essere vero, vista la dimensione performativa e musicale che pregnava il movimento, ma se affrontiamo l’opus di Viola tale teoria non è assolutamente applicabile. Senza l’immagine, l’intero immaginario di Viola si azzererebbe. E, tra l’altro, questa citazione spuria cozza con quanto l’Autore stesso affermerà a pagina 151, ossia che “Il confronto tra l’arte di Viola e il cinema è un tema su cui conviene insistere”.
E chiudiamo il capitolo leggendo ulteriori teorizzazioni dell’Autore, il quale citando altri ben noti studiosi e critici, sembrerebbe avallare il giudizio di una certa autoreferenzialità estetica della Computer Art, che nel “sublime tecnologico” escluderebbe l’altro da sé, ossia il reale (seppure lo stesso Viola ammetta – e lo si cita nel libro – che la sua videoarte, in cui le immagini derivano dalla vita reale, è una sorta di espansone dei livelli di realtà). Ebbene, anche su questo punto esistono artisti, come Lino Strangis, che rivendicano proprio l’invenzione di mondi altri, non esperibili nella realtà, quale specificità della Computer Art (né più né meno di un Mondrian che rivendicava un secolo fa – come altri – l’indipendenza dalle referenze visuali del reale così come una perfezione formale intrinsecamente estetica che si faceva poetica, come in Rothko, solo attraverso l’occhio dell’osservatore). E d’altro canto, proprio perché Viola è stato in grado di agire sul liminale, sull’inconscio e sull’immaginario collettivo, non possiamo condividere l’affermazione di Alfieri quando scrive che: “Il sentimento di chi assiste a una delle tante opere di Viola è spesso la stanchezza, la frustrazione, se non persino la ‘noia’”. In particolare, il termine noia torna anche altrove ma la ‘noia’ in epoca contemporanea (non parliamo di modernismo o post-modernismo, termini astrusi ai più e anche ben poco chiari ai cultori delle catalogazioni) ha ben altri connotati, ossia quelli del capolavoro omonimo di Alberto Moravia, laddove la noia è legata all’incapacità di trovare significato nella realtà che ci circonda e ha una valenza politica e una urticante carica di critica sociale che, ripetiamo, i lavori di Viola non hanno mai aspirato né inteso avere.
Dal capitolo V in avanti: aura, appercezione, ralenti, empatia
Gli ultimi tre capitoli del libro sebbene ripetano concetti espressi precedentemente, si legano maggiormente all’opus di Viola trasformandosi da teorizzazioni generiche in critica d’arte. Purtroppo le opere analizzate difficilmente affrontano il periodo forse di maggiore creatività e originalità di Bill Viola (fine anni 70 e primi anni 80) e anche quando si concentrano sulle video-installazioni, la disamina dei video in sé, la loro disposizione nello spazio e scenografica, il loro esser-ci (come avrebbe scritto Martin Heidegger) e il valore di questa materialità a confronto con la fluidità o l’immobilità apparente dell’immagine restano tutti temi sotto-traccia o solo brevemente accennati.
Il primo dei tre capitoli verte su temi quali l’aura e l’appercezione, che potremmo tradurre nell’immersione dello spettatore nell’opera o il suo distanziamento, ivi spiegato soprattutto in termini filosofici e con la riproposizione di The Crossing del 1996 (cui partengono gli elementi par excellence di Viola, fuoco e acqua, ma a proposito inviteremmo a vedere anche Moonblood del 1977/79, in cui, come scrivevamo altrove: “l’acqua si fa torrenziale cascata di vita e pennellata creatrice: nella velocità acquista profondità di senso. Mentre i vetri della finestra, che oscurano o riflettono, che creano legami amniotici come un cordone ombelicale tra interno ed esterno, si fanno metafora e domanda”).
Accanto, nel libro, Alfieri propone la visione del sublime #Improvisation1_Departing Angel (2001). Ora, lo stesso discorso sarebbe molto più pregnante e facilmente fruibile riportandolo al teatro e all’immedesimazione nel personaggio (propria dell’attore ma anche dello spettatore, che deve sentirsi partecipe in prima persona, acriticamente) confrontata con lo straniamento brechtiano che porta a un distanziamento di entrambi (attore e spettatore) e a una visione critica del dramma in atto. L’Autore al contrario tende a mettere continuamente a confronto il lavoro poetico-estetico di Viola con l’arte figurativa, soprattutto rinascimentale, quando è proprio la sua teatralità che andrebbe meglio esaminata e approfondita. Del resto, che l’arte contemporanea nei suoi diversi media (ivi compresa la fotografia) si rifaccia anche a iconografie del passato non è certamente una novità – basti citare David LaChapelle e la sua Beatification (del 2009) ove “il volto sbiancato e tirato dai lifting di Jacko si staglia su una specie di Paradiso Terrestre in cui Eva è abbigliata sontuosamente, circonfusa di bianca purezza – sebbene ai suoi piedi si srotoli il serpente; e Jackson, accanto a lei in eterno, mostri allo spettatore un orologio, simbolo del tempo che trascorre inesorabilmente nonostante quel volto plastificato e la pretesa paradisiaca” (da una nostra recensione del 2012).
Tralasciamo l’analisi di Emergence (2002) – che, in quanto teaser, non aggiunge alcunché al discorso – e passiamo a un altro tema affrontato nel capitolo ossia “il fatto che, seppur impercettibilmente, l’immagine si muova” nei lavori di Bill Viola. Ancora una volta il paragone più pregnante è quello col teatro, anzi con la drammaturgia di un maestro del Novecento, quale Samuel Beckett, che utilizza lo stesso artifizio sebbene attraverso un medium diverso (la scrittura che si fa recitazione) in Dondolo. Basta un minimo scarto nell’enunciato che si ripete per dare sia la sensazione di staticità sia quella di movimento impercettibile di una vecchia che, lentamente ma inesorabilmente, si avvicina alla morte.
Anche il capitolo VI dedicato al ralenti, come “testimonianza delle sofferenze del mondo”, non è certamente novità nell’universo cinematografico – visto il suo uso nel primo capolavoro di Akira Kurosawa, I sette samurai (datato 1954); mentre sono più interessanti le pagine successive dedicate alla resa cinematografica dell’attentato terroristico contro le Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 (fatto che ha sicuramente impresso un’impronta cinematografica più indelebile, anche in Italia, di altri capitati alle nostre latitudini – da piazza Fontana alla strage di Bologna). Sebbene l’Autore ammetta che Viola era probabilmente già in possesso del materiale per produrre Observance (2002) – che comunque è parte del ciclo The Passions, in lavorazione fin dal 1999 e dedicato al côté emozionale umano – non esita a metterlo in correlazione con l’attacco terroristico e a fare un lungo discorso sul bisogno di occultare e rimuovere le immagini dello stesso – ormai diventate virali e, proprio per questo, private della loro forza semantica. Molti sono gli esempi che Alfieri cita e, sebbene non ci pare che quello del video di Viola sia particolarmente significativo, se dobbiamo stare al gioco dell’elencazione, aggiungeremmo un altro episodio di 11 settembre 2001. Invece di quello segnalato da Alfieri per la regia di Iñárritu, preferiamo quello diretto da Sean Penn e interpretato da Ernest Borgnine perché trasforma la distruzione delle Torri, che hanno oscurato la sua abitazione e la sua vita per anni, sfiorendo la sua piccola pianta, nel crollo delle sue illusioni: laddove la pianta rinasce a nuova luce, è la consapevolezza della morte della propria compagna a travolgerlo. Proprio in questa dicotomia della ruota dell’eterno ritorno, i cui raggi sono sempre: presenza/assenza, vita/morte, desiderio/dolore, brama/inappagamento, ricerca/sconfitta, si trovano le maggiori assonanze con le opere (ma non in particolare con Observance) di Viola. Del resto, a pagina 125, l’Autore afferma che Observance ci offre solo “la reazione empatica dei membri di un gruppo che rappresenta idealmente gran parte della società civile internazionale, accomunata e unita nel dolore per l’accaduto”. Ne siamo certi? È questo pathos a coinvolgerci o la coscienza che noi, al di fuori della scena, saremmo potuti essere (e siamo stati) i protagonisti della tragedia? E tale tragedia è stata realmente compartecipata a livello internazionale o massmediaticamente imposta quale tragedia internazionale? Chi ha vissuto gli anni 70 e 80 in Italia sente ancora sulla propria pelle le ferite causate dalla strategia della tensione, di quelle piaghe infette – come quelle del Vajont o di Ustica – l’Italia non ha mai potuto, come provincia dell’Impero, dolersi a livello mediatico globale (gli statunitensi nemmeno sanno che siano mai state inferte quelle ferite). Il dolore è uguale, ma occorrerebbe fermarsi un attimo prima di affermare che sia compartecipato internazionalmente – anche perché quel dolore non ha generato compassione, bensì orrori peggiori in Afghanistan, per vent’anni, senza che la medesima comunità internazionale se ne sia preoccupata più di tanto.
Le conclusioni: Bill Viola tra misticismo e stilemi
L’ultimo capitolo del libro è dedicato soprattutto al tema dell’immagine-affezione. In fondo questo è più un libro che disquisisce su diverse tematiche filosofiche, prendendo a prestito alcune (poche) opere di Bill Viola per spiegare concetti molto spesso attribuiti ad altri, che non un libro dedicato al videoartista statunitense, nato a New York nel 1951 e deceduto in California nel 2024 – affetto da Alzheimer.
Per elaborare il concetto, l’Autore propone Man searching for immortality/Woman serching for eternity (2013) – in cui il concetto di affezione è fatto risalire a Gilles Deleuze che lo mutuerebbe dall’Ethica di Spinoza, ma si potrebbe anche andare più indietro fino a Sant’Agostino nel De civitate Dei. In pratica, ci troveremmo di fronte a “un corpo che agisce” determinando “lo stato del corpo di chi assiste senza che avvenga un contatto tattile concreto”. Scendendo dal piano filosofico a quello massmediale, qui il nucleo è quello dell’incomunicabilità, che è tema che si può ravvisare sia nella cinematografia di ogni latitudine (oltre agli ovvi Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman, pensiamo ad Alain Resnais – perché cos’è Hiroshima mon amour se non un lungo monologo sull’impossibilità di comunicare la tragedia delle bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki?), sia nella letteratura e sia nel teatro (da La signorina Julie all’intero opus di August Strindberg, in primis misogino e, in secondo luogo, cantore cinico dell’incomunicabilità tra gli esseri umani e tra i sessi). In Man searching for immortality/Woman serching for eternity ci troviamo di fronte a questa incomunicabilità o alterità irriducibile (come enunciato persino nel titolo) e non vi è nulla di nuovo sotto il sole. A parte che l’Autore punta anche molto sul fatto che le immagini-affezione spesso si concentrano sul primo o primissimo piano – citando Carl Theodor Dreyer (ovvio il richiamo a La passion de Jeanne d’Arc verrebbe da aggiungere, sebbene il negativo originale andò perduto in un incendio scoppiato agli UFA studios di Berlino, già nel 1928, e l’immaginario comune si rifaccia alle foto dei primissimi piani presenti in rete); Robert Bresson (abbinamento meno azzeccato, dato che il suo capolavoro rimane probabilmente Au hasard Balthazar e l’identificazione dello spettatore scatta nei confronti di un povero animale); e Ingmar Bergman (ma quello, soprattutto, aggiungeremmo noi di Persona). Convince meno l’idea che lo spettatore assorba “l’affezione del primo piano, fisicamente prima ancora che moralmente, psicologicamente o razionalmente” (soprattutto se si tratta di vergogna) in quanto, come aveva già dimostrato il cineasta sovietico Lev Kulešov, negli anni Venti del Novecento, la sensazione che un’inquadratura trasmette allo spettatore è influenzata in maniera determinante da quelle precedenti e successive. Il fotogramma in sé è ben poco com-partecipativo.
E chiudiamo con altri stilemi che avrebbero caratterizzato i lavori di Viola, come l’uso dell’evanescenza dei corpi – di cui fu maestro Theo Angelopoulos, e chi non ricorda tra i cinéphile, Paesaggio nella nebbia?; il semplice piano sequenza – che padroneggiò Alfred Hitchcock nel tecnicamente difficile Nodo alla gola ma che utilizzò Woody Allen in Manhattan, in quanto ancora non avvezzo al mezzo cinematografico in veste di regista; la profondità di campo, che si può ascrivere al genio di Orson Welles, e al suo panfocus, che dà allo spettatore la medesima libertà del teatro, dato che permette di mettere a fuoco sia i soggetti in primo piano che quelli sullo sfondo, e non certamente a Viola; il finale ‘esplosivo’ (di The Deluge, 2002; o The Raft, 2004), che avrebbe un effetto liberatorio dopo la ‘noia’ dei precedenti minuti di ripetitività o quasi immobilità, ovvero sfiderebbe “la sua tradizione reimmettendo nel circuito di senso l’evento capace di redimere il prolungamento della durata attenzionale”: giudizio sul quale non ci pronunciamo in quanto a noi sembrano tra gli esperimenti meno in sintonia con la poetica propria dell’autore e, al riguardo, invitiamo ad approfondire, confrontandoli con il summenzionato Vegetable memory.
Nelle ultime righe l’Autore attribuisce a Viola un senso spirituale e religioso, “dal momento che la natura di rivelazione’, alla quale si appellano” i suoi video “somiglia a una sorta di conversione o folgorazione divina, che per quanto involontaria, non ha senso se non è consapevole e autocosciente”. La fede si possiede o non si possiede, si crede o non si crede, spetta al credente dimostrare l’esistenza della teiera celeste, non all’ateo la sua non esistenza, e questa prova non potrà mai essere né consapevole né autocosciente.
Quindi, invece delle righe finali dell’autore che con molta poesia definisce le opere di Viola come “autentiche rivelazioni, restituzioni digitali della trascendenza che oscillano tra la nostalgia e la speranza”, preferiamo parlare, come per i capolavori di Andrej Tarkovskij, di liquefazione della stabilità (e, quindi, destabilizzazione dello spettatore ormai avvezzo ai tempi veloci della tv commerciale e dei social network) e di immagini in movimento la cui durata ha una propria autonomia significante, ossia si autogiustifica nella sua stessa essenza ontologica.
Bill Viola. Trascendenze digitali
di Alessandro Alfieri
© Inschibboleth Edizioni, Roma, 2025
Pagine 174
Euro 14,00
venerdì, 18 aprile 2025
In copertina: Bill Viola nel 2009, Premio Imperiale, 2011. Foto Di Jean-Baptiste LABRUNE a.k.a. jeanbaptisteparis – https://www.flickr.com/photos/jeanbaptisteparis/3342781848/. Adjusted lighting and cropped original image., CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16964057