Edoardo Zucchetti tra la mancanza di socialità dei teen ager e la mancanza di solidarietà del teatro italiano
di Simona Maria Frigerio
Dopo aver raccontato, su www.persinsala.it, il progetto voluto dal Teatro di Rifredi per riavvicinare i ragazzi al mondo del teatro (e che, avendo la durata di un intero anno, sarà ancora oggetto della nostra attenzione), continuiamo la nostra intervista con Edoardo Zucchetti, l’ideatore e l’instancabile organizzatore di Banco di prova, concentrandoci su due aspetti specifici che esulano, in parte, dal work in progress in corso presso l’Istituto Tecnico Statale per il Turismo Marco Polo di Firenze, ossia la dimensione psicologica che stanno vivendo i teen ager italiani in tempo di pandemia e la situazione complessiva del teatro italiano, vista da un regista e autore indipendente.
Come rispondo i ragazzi dell’ITT alle sollecitazioni di questo progetto?
Edoardo Zucchetti: «I ragazzi sono molto taciturni – a prescindere dal momento – e, secondo me, la didattica a distanza non ha aiutato questa generazione. Soprattutto all’inizio andare in classe e rapportarsi con loro non è stato facile perché c’erano dei ‘silenzi assordanti’. Accanto a me sono sempre presenti anche i due attori che stanno seguendo l’intero progetto, Luisa Cattaneo e Vieri Raddi, e insieme cerchiamo di ‘stanarli’. Ad esempio, all’inizio abbiamo chiesto a uno a uno se avevano storie personali di migrazioni da raccontare. Poi, abbiamo proposto loro di scrivere dei temi sull’argomento. In seguito, abbiamo cercato di capire dove vorrebbero andare, dove si immaginano di essere tra dieci anni. Visto il periodo di colloqui, abbiamo saputo dai genitori che i ragazzi, a casa, raccontano di questo progetto. Solitamente stanno zitti, mentre di Banco di Prova parlano. E inoltre hanno intervistato i genitori, i nonni oppure altri parenti o amici per farsi raccontare le loro storie. Da questo punto di vista, il progetto li sta aiutando ad aprirsi e a condividere sia ciò che fanno sia le esperienze che vengono loro narrate. D’altro canto, al momento stiamo raccogliendo le adesioni per i workshop che, a differenza dei primi incontri, dovrebbero svolgersi al di fuori dell’orario scolastico, dopo Pasqua, nel giardino della scuola, dove dovremmo fare degli approfondimenti di teatro ma anche di fotografia, video e forse pittura, e stiamo notando una certa timidezza ad aderire. Sono restii, sembrerebbe che abbiano molti impegni e non comprendono che, per loro, sarebbe anche un’occasione per stare insieme tre ore una volta la settimana a fare delle attività nuove e creative. Mi sembra manchino sia di curiosità sia della consapevolezza rispetto alla fortuna che hanno di poter fare delle attività di gruppo, all’aperto. E questo gli è consentito solo perché l’ITT ha un giardino, che magari manca in altri istituti del centro storico».
Abbiamo letto che i giovani starebbero reagendo con tentativi di suicidio e atti di autolesionismo alla situazione pandemica. Da questo punto di vista come ha trovato i ragazzi dell’ITT?
E. Z.: «Mi pare che questa generazione abbia davvero bisogno di stimoli dall’esterno. Inoltre, noto che non fanno gruppo, non dialogano, non si aiutano nemmeno tra di loro – neppure se gli chiedi, com’è capitato, di dare una mano a una giovane che è appena arrivata in Italia e sta cercando di integrarsi. Faccio un esempio. Quando gli abbiamo chiesto di scrivere il tema sulle migrazioni, molti non sapevano cosa raccontare, dicevano che non avevano tali storie in famiglia. Quando, però, gli abbiamo fatto notare che, nella stessa classe, c’erano una ragazza cinese, un altro peruviano, un terzo colombiano – quindi, gli esempi erano di fronte ai loro occhi, accanto a loro – la risposta è stata blanda, parevano ‘spenti’, come se non se ne fossero neppure accorti. Ovviamente nelle prime e nelle seconde gli studenti si conoscono poco anche perché le occasioni di aggregazione sono state rare nell’ultimo anno. Quelli di prima, addirittura, non si sono mai visti senza mascherina. Però anche i più grandi fanno parte di una generazione che mi pare non riesca a creare gruppo. Persino quando hanno professori, come quelli dell’ITT, che sono avanti, che gli fanno leggere Pietro Bartolo o vedere film-documentari, sono i ragazzi stessi a essersi arresi. Eppure dovranno essere loro a trovare il modo di sbloccarsi, di reagire. Anche perché col tempo arriveranno l’università, il lavoro, gli impegni seri, e dovranno essere pronti. Questa generazione mi lascia interdetto: non credo che saranno loro a cambiare il mondo».
Secondo lei il teatro italiano ha lavorato bene in regime pandemico o, ancora una volta, più dell’appartenenza a una categoria si sono viste riaffiorare le vecchie dinamiche egoistiche ed egotistiche?
E. Z.: «I problemi esistevano già prima. Ho iniziato a elaborare questo progetto sulle migrazioni perché ormai non si riesce a produrre più niente di diverso. Ho dovuto inventarmi un contenitore per potermi esprimere. Ma non solo, anche quando si riesce a farsi approvare un progetto molto spesso si subiscono pressioni di ogni tipo. Pensiamo a questi due anni di standby. Invece di sfruttarli per rifondare, si sfruttano per rimettere in pari i bilanci di fondazioni, compagnie, teatri. Il concetto è totalmente sbagliato. Io sono stato fortunato a trovare il Teatro di Rifredi, che ha compreso l’importanza di sviluppare proprio adesso un progetto del genere ma è l’eccezione non la regola. In Italia si sarebbero dovuti rioccupare tutti gli spazi teatrali e utilizzarli per preparare, innanzi tutto, gli spettacoli per l’estate dato che, nel nostro Paese, da maggio a settembre, si può fare teatro all’aperto. E in alcuni casi si sarebbe dovuta forzare l’attività teatrale stessa. Ovvero farla. Vedo anche i cinema: sprangati. Tenere aperto può servire a creare presidi per la comunità. A Firenze, in particolare, noi artisti siamo imbarazzanti. Nel 2020 hanno demolito il Teatro dell’Oriuolo, che si trovava a pochi metri da piazza del Duomo, di fronte alla Biblioteca delle Oblate e accanto alla Banca d’Italia. Vi doveva sorgere il CUT, Centro Universitario Teatrale e, invece, lo hanno raso al suolo dicendo che faranno un’arena all’aperto – di cui dubito. Il Teatro della Toscana, in questo momento, cosa sta facendo? Ancora una volta, il Teatro di Rifredi ha messo in paga gli attori producendo tre spettacoli così da avere pronto il materiale teatrale per i prossimi due anni. Ma è un’eccezione. E soprattutto, manca l’idea che sia urgente e indispensabile un ricambio generazionale».
L’alternativa a questo solipsismo?
E. Z.: «Non capisco perché i teatri non siano diventati spazi in cui ritrovarsi e condividere idee. Se sono chiusi al pubblico, non dovrebbero esserlo agli artisti! Perché noi, per primi, non ci ritroviamo? Non andiamo in piazza a fare i nostri spettacoli? Non usciamo dalle nostre case, dai nostri gusci? Sebbene io sia anche documentarista e riprenda sempre ogni fase dei miei spettacoli – e soprattutto apprezzi questa modalità rispetto a tutti i processi creativi, proprio per il valore documentale da lasciare per ragioni di studio, per memoria di un certo evento e del suo significato – il teatro è in presenza. Un’altra considerazione che mi viene in mente è che i Teatri Nazionali, ma anche gli altri finanziati con fondi pubblici, hanno potuto fare ognuno ciò che ha voluto. Anche niente! Non ci sono state delle linee guida per orientare il settore. Se si ottengono dei contributi pubblici per fare delle attività, gli stessi che li elargiscono dovrebbero prevedere come li userai. Ovviamente si sarebbero dovute operare delle scelte strategiche, ma sarebbe occorsa una guida – quella che, in Italia, sembra sempre mancare. Penso al Teatro della Pergola che l’anno scorso aveva prodotto un lavoro con Stefano Massini, Sul lavoro fondata, di cui ero stato assistente alla regia, mandato in onda su Rai5 il 1° Maggio 2020. Un ottimo prodotto che fondeva teatro, cinema e televisione. Ma è rimasto un unicum. Poi, cos’è successo?».
Venerdì, 26 marzo 2021
In copertina: Edoardo Zucchetti – Foto di Marco Borrelli.