Proceso sin producto / Processo senza prodotto
di Daniele Rizzo (traduzione in castigliano, a fondo pagina, a cura dell’autore)
Pina Bausch, Carolyn Carlson, Merce Cunningham, Isadora Duncan e Wayne McGregory sono – in ordine alfabetico – solo alcune tra le grandi personalità del XX° secolo che hanno condotto la danza a un liberatorio attraversamento estetico oltre i canoni tradizionali. In realtà, tutta l’operazione dell’arte postmoderna può dirsi interessata da questo processo; ma, in particolare, la danza è parsa essere la forma espressiva più fertile nell’accogliere nuovi tópoi del genere, su tutti quello della totale libertà autoriale che, addirittura, è stata spinta a tal punto da metterne in crisi la sua stessa esistenza (dell’autore).
Diversamente declinato, il linguaggio coreografico si è affrancato tanto dalla pura funzione simbolica (la bellezza), quanto da quella esecutiva (la tecnica) ed è così emerso il dirompente protagonismo del corpo, o meglio, di una fisicità liberata dai vincoli delle linee classiche (anche a costo di perdere in termini di rigore e qualità formale). Per tale motivo, si è giunti a esprimersi più genericamente in termini di performance e a prendere le distanze dall’immediatezza delle convenzioni comunicative, creando così quel ʻluogo’ enorme e indefinito chiamato danza contemporanea. Oggi, la situazione sembra però essere arrivata, e da tempo, a un punto di stasi e se non rimane nulla del furore avanguardistico delle origini, tantomeno si sono ricostruiti i presupposti di una rinnovata esteticità.
Alcuni tra i protagonisti più dissacranti di allora sono affermati docenti di accademia o hanno fondato compagnie, ognuna delle quali porta avanti il proprio stile come se fosse un ʻcredo’. Rispetto al Novecento, il Nuovo millennio sembra aver perso tangenza con le più recenti ricerche filosofiche (allora esistenzialismo ed ermeneutica) per avvilupparsi in parole prive di concetto: gli spettacoli sono ormai generici ʻeventi’, l’assistere è diventato un indiscriminato ʻpartecipare’, la comprensione è stata edulcorata in ʻesperienza’. Ereditato senza consapevolezza e audacia il vocabolario del XX° secolo e in ossequio allo svilimento attuale dei saperi, oggi è diventato comune partecipare a eventi in cui si fa esperienza (di cosa, non importa), come se ciò dovesse in qualche modo elevare il discorso artistico anche nella sua dimensione spettatoriale.
Lasciando in sospeso la questione appena accennata (troppo estesa per questa sede), Momentum della Wonderground Arts del Moviment, cui abbiamo assistito al Mercat de les Flors, rappresenta in maniera esemplare la situazione implosiva in cui versano le arti sceniche contemporanee. Quattro interpreti multidisciplinari, tre ballerini e un polistrumentista (sic!). La corrispondenza tra livello macro (i quadri coreografici) e micro (i singoli passaggi) nell’esplorare le fasi di caduta, trascinamento, sospensione e volo di cui si compone la coreografia. Il supporto di strumenti (corda) e oggetti di scena (un simil-tappeto di foglie, un alberello) con cui i performer eseguono danze acrobatiche, circensi e urbane. Le gestualità grezze, la vorticosa alternanza di movimento e quiete, le forme aperte, l’intervento (in scena) e le affermazioni (verbali) del musicista, il live looping: la compagnia esprime così il proprio arsenale di ricerca, «ispirato dallo Zen», chiamato Movement Archery e inteso come «pratica [e] come mezzo per migliorare la propria presenza nel proprio corpo».
Siamo, dunque, esplicitamente oltre la danza, in «una pratica di creatività» dove «muoversi» significa «riscoprire sé stessi, il proprio potenziale e la propria interazione con il mondo». Momentum pretende di esplorare il palco senza ʻpregiudizi’, affidandosi completamente alla materialità del movimento e senza sapere verso dove ciò (scenicamente e filosoficamente) porterà. Questa volontà di un superamento totale dei movimenti standardizzati mostra, immediatamente e ovviamente, i suoi primi limiti e contraddizioni, dal momento che, nonostante il desiderio di giungere a un’espressività assoluta, i performer arrivano a proporre approssimativi tableaux vivants, dunque all’evocazione di immagini riconoscibili pur di veicolare la ʻsospensione” dallo spazio-tempo abituale e di ricerca del legame tra il privato dell’intimità e il condiviso della collettività.
Siamo di fronte, allora, al ʻsolito’ spettacolo in cui ogni cosa – gli elementi che lo plasmano e l’intenzione da cui si edifica – risuonano di un già visto e già fatto e dove quello che si vede e che si fa è già diventato inutile. Miscelando ʻanticonformismo coreografico’ e postura interrogativa («que se pregunta: ¿Qué nos mueve?»), a impadronirsi di Momentum sono sia la bassa qualità tecnica degli interpreti, proposta come spontaneità, sia l’incapacità semantica, come offerta al pubblico di libera interpretazione, dunque la ʻsolita’ deresponsabilizzazione da parte di artisti che, forse, non hanno nulla da dire e che, nel caso in cui l’avessero, probabilmente, non sanno come farlo.
Pertanto, Momentum sembra tradire la stessa tensione creativa di cui voleva essere espressione (deporre «a favore della possibilità del possibile», citando Adorno), preferendo un’estetica ristagnante in una ʻnon-forma’, vale a dire nel rifiuto acritico di una grammatica coreografica che, più che emanciparsi dai codici tradizionali, si limita a declinare un alfabeto di gestualità inconsistenti.
Momentum mortifica così la propria verità estetica e culturale, trasforma il palcoscenico in un campo neutro di gesti privi di reale risonanza e si fa ennesima testimonianza di come la danza contemporanea trovi, purtroppo, spesso rifugio in uno sterile autocompiacimento di assenza di idee e una indeterminatezza esecutiva camuffate in libertà.
Va da sé che quanto esposto rappresenta il parere soggettivo di chi scrive e che il caloroso tributo riservato dal pubblico non ci lascia immuni dal dubbio di averne dato una corretta interpretazione. Speriamo, però, che il dubbio – sull’effettivo livello di Momentum – non sia solo nostro, ma anche di coloro i quali amano la qualità dell’arte.
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Pina Bausch, Carolyn Carlson, Merce Cunningham, Isadora Duncan y Wayne McGregory son, en orden alfabético, sólo algunas de las grandes personalidades del siglo XX que han llevado la danza a un largo y liberador cruce estético más allá de los cánones tradicionales. En realidad, toda la operación del arte posmoderno se podría definir como interesada en este proceso, pero, en particular, la danza pareció ser la forma expresiva más fértil en llevar a cabo nuevos tópicos del género, especialmente el de la total libertad autoral, que incluso ha sido tan impulsada como para poner en crisis su misma existencia (la del autor/a).
De cualquier forma que se haya declinado, el lenguaje coreográfico se liberó tanto de la pura ficción simbólica (la belleza) como de la ejecutiva (la técnica) y así dejó surgir el diestro protagonismo del cuerpo, o mejor, de una fisicidad liberada de los vínculos de las líneas clásicas (incluso perdiendo en rigor y calidad formal). Por eso, se ha llegado a expresarse más genéricamente en términos de performance y a poner distancia de la inmediatez de las convenciones comunicativas, así creando ese ʻlugar’ enorme e indefinido llamado danza contemporánea. Sin embargo, hoy, la situación parece haber llegado, y desde hace tiempo, a un punto de estasis y, si bien nada queda del furor vanguardista de los orígenes, mucho menos se han reformado los presupuestos de una renovada esteticidad.
Algunes de ʻles protagonistes’ más irreverentes de entonces se han convertido en docentes de academias o han fundado compañías, cada una de las cuales defiende su propio estilo como si fuera un ʻcredo’. Con respecto al siglo pasado, el Nuevo milenio parece haber perdido contacto con las investigaciones filosóficas más recientes (entonces existencialismo y hermenéutica), quedándose en palabras vacías de concepto: los espectáculos son, al final, genéricos ʻeventos’, el asistir se ha convertido en un indiscriminado ʻparticipar’ y la comprensión ha sido suavizada como “experiencia”. Heredando sin conciencia ni audacia el vocabulario del siglo XX y siguiendo la mortificación de los saberes, hoy es ʻnormal’ participar en eventos en los cuales se hace experiencia (sin importar de qué), como si eso, de alguna manera, debiera elevar el discurso artístico en su dimensión espectatorial también
Dejando en suspenso la cuestión ya aludida (demasiado extensa para este espacio), Momentum de Wonderground Arts del Moviment, visto en el Mercat de les Flors, representa de manera ejemplar la situación crítica en la que se encuentran las artes escénicas contemporáneas. Cuatro intérpretes multidisciplinares: tres bailarines y un multiinstrumentista (¡sic!). La correspondencia entre el nivel macro (los contextos coreográficos) y el nivel micro (los pasajes individuales) en la exploración de las fases de caída, arrastre, suspensión y vuelo que conforman la coreografía. El uso de herramientas (una cuerda) y objetos de escena (una especie de alfombra de hojas, un pequeño árbol) con los que les performers ejecutan danzas acrobáticas, circenses y urbanas. Las gestualidades toscas, la vertiginosa alternancia entre movimiento y éxtasis, las formas abiertas, la intervención en escena y las palabras del músico, el live looping: la compañía expresa de esta manera su propio arsenal de investigación, ʻinspirado en el Zen’, denominado Movement Archery y que «destaca el valor de la práctica como un medio para mejorar la presencia de uno mismo dentro de su propio cuerpo.».
Estamos, entonces, explícitamente más allá de la danza, en «una práctica de creatividad» donde «moverse» significa «redescubrirse a uno mismo, su propio potencial y su interacción con el mundo». Momentum invita con fuerza a explorar el escenario sin «prejuicios», depositando plena confianza en la materialidad del movimiento y sin saber hacia dónde esto (escénicamente y filosóficamente) llevará.
Esta voluntad de un sobrepasamiento completo de los movimientos estandarizados revela, prontamente y claramente, sus primeros límites y contradicciones, debido al hecho de que, a pesar del deseo de alcanzar una expresividad absoluta, les performers terminan aproximándose a tableaux vivants, es decir, a la evocación de imágenes reconocibles para vehicular la ‘suspensión’ entre el espacio-tiempo habitual y la exploración del vínculo entre lo privado de la intimidad y lo compartido de la colectividad
Entonces, estamos frente al ʻtípico’ espectáculo en el cual todo —los elementos que lo conforman y la intención con la que se construye— remiten a algo ya visto y ya hecho, y donde lo que se ve y se hace resulta innecesario. Mezclando ʻanticonformismo coreográfico’ y una postura interrogativa («que se pregunta: ¿Qué nos mueve?»), lo que se apodera de Momentum es tanto la baja calidad técnica de les performers, enmascarada como espontaneidad, como la incapacidad semántica, ofrecida al público como libre interpretación. O sea, la ʻtípica’ desresponsabilización por parte de les artistes, que quizás no tienen nada que decir o, si lo tienen, probablemente no sepan cómo hacerlo.
Por lo tanto, Momentum parece traicionar la misma tensión creativa de la que quería ser expresión (poner «para la posibilidad de lo posible», citando a Adorno), prefiriendo una estética estancada en una ʻno-forma’, es decir, en el desplazamiento acrítico de una gramática coreográfica que, más que emanciparse de los códigos tradicionales, se encuentra en un alfabeto de gestualidad sin consistencia.
Así, Momentum niega su propia verdad estética y cultural, convirtiendo el escenario en un espacio neutral de gestos sin verdadera resonancia y sigue haciéndose testigo de cómo la danza contemporánea, lamentablemente, a menudo se refugia en un esteril auto-complacimiento vacío de ideas y en una indeterminación ejecutiva enmascarada de libertad.
Por supuesto, lo que pensamos expresa el parecer subjetivo de quien escribe, y el cálido tributo reservado por el público no nos deja inmunes de la duda de haber dado una interpretación correcta. Esperamos, sin embargo, que la duda – sobre el efectivo nivel de Momentum – no sea solo nuestra, sino de quienes aman la calidad del arte.
Lo spettacolo è andato in scena:
Mercat de les Flors
C/ Lleida, 59 – Barcellona
venerdì, 24 gennaio 2025
Momentum
Dirección Roser Tutusaus
Concepto, coreografía y dramaturgia Roser Tutusaus y Tom Weksler
Intérpretes creadores Tom Weksler, Nora Baylach y Yuval Finkelshtein
Composición e interpretación musical en directo Miguel Marin Pavón
Diseño espacio Roser Tutusaus
Diseño luces Filip Horn
Diseño vestuario Benjamin Nivison i Paola Idrontino
Colaboradores artísticos Joan Català, Ariadna Montfort
Participantes en la primera fase de la creación Carla Piris Lasaga y Girordan Cruz
Producción Wonderground
Videografía Ignasi Castañé
Fotografía Aida Vargas
Promoción y comunicación Fani Benages
Coproducción Mercat de les Flors, Ayuntamiento de Tarragona
Residencia El Canal Centre d’arts Escèniques de Salt, L’Illa espacio de movimiento y creación y Graner fábrica de creación
Con el apoyo Beca recerca OSIC, Departament de Cultura-Generalitat de Catalunya y el Institut Ramon Llull
venerdì, 7 febbraio 2025
In copertina: La Locandina che pubblicizza lo spettacolo