Eravamo rimasti a: E poi caddi anch’io…
di Sharon Tofanelli
Tempi di vuoto, furono quelli, tempi di confusione. Tempi che non posso quantificare in ore o minuti o giorni. Dormivo. Ero finalmente in stato di grazia. Sentivo sotto di me il corpo ardente di mia moglie, col pallido vestito delle nostre nozze, con la giarrettiera sulla coscia così piena. L’estate era fresca sul cuscino, la sua mano tra i miei capelli. Avevo allungato le dita, le mie dita stanche tra i suoi seni.
E poi avevo toccato le conchiglie. E un gelo improvviso, inspiegabile. Collane di molluschi e terrore.
Quando mi dimisero dal ricovero mi fu detto che erano trascorsi mesi, per la precisione sei. Avevo una sequenza di punti di sutura su un lato del cranio, i capelli rasati sulle tempie. Avevo dormito per tutto quel tempo. Avevo dormito tra le braccia della mamma.
Mi dissero anche che Lavinia era morta, che qualcuno le aveva sparato in testa e il cervello era collassato come budino.
Ero tutto solo nella città del mare e dei sassi scarniti. Chiesi al medico che ne avessero fatto di lei, dove l’avessero messa.
«Suo padre.»
«Mio padre…»
«Ha detto “affari di famiglia”, ci ha pensato lui.»
Lo trovai in cucina. Lucidava il portafoto d’argento, quella in cui ci sono lui e la mamma che si sposano. Io sono di fronte, sono di fronte con la faccia stralunata e gli occhi lucidi.
«Papà.»
Sollevò il capo. L’idiozia della sua serenità, quanto avrei voluto prenderlo a schiaffi.
«Sì.»
«Portami da lei.»
«Tua madre.»
«No, Lavinia.»
«La stessa cosa.»
Mi prese per mano, come quando ero bambino e attraversavamo la strada davanti alla scuola.
«Ci chiamano.»
Fuori era buio, non me ne curavo più; è stupido temere la vastità della diga quando si è nel gorgo che l’abita. La forza brutale della città mi tirava in basso, sotto il lastricato, sotto il Santo Spinario, là dove mio padre si fermò, sul sagrato, con tutta quella luna che gli si rovesciava in fronte.
Si frugò in tasca ed estrasse un grosso mazzo di chiavi. Sul fianco della facciata aprì una porticina di legno. I cardini gemettero sul buio. In quel buio lui entrò, trascinandomi con sé con un certo fare lubrico e premuroso di sposo.
Percorremmo la navata buia, sommersi dal rimbombo dei passi. Sagome rinsecchite dei candelabri di ferro ghignavano contro le vetrate. La croce al di là dell’altare, un dito deformato dall’artrite.
Mio padre entrò in una cappella radiale, dov’era un tabernacolo sormontato da una pala. Il Risveglio di Lazzaro.
«Che facciamo qui?»
«Scendiamo.»
«Scendere?!»
Guardai il vecchio dipinto. Dalle pieghe del sudario, il miracolato puntava su di me il suo occhio stravolto, come se implorasse aiuto, che lo salvassi da questo Messia impazzito che andava violando le leggi del vivere e morire; che per la propria gloria lo resuscitava, costringendolo a vedersi con la putrefazione avviata, col primo decomporsi delle carni, aperte sulle mani e sui polsi, fiori dai colori nauseabondi. Distolsi gli occhi dai suoi, che annegavano nelle orbite mangiate. Abbassai lo sguardo, tremai.
Mio padre aveva spostato la lastra del pavimento. La cripta era aperta.
Deglutii a vuoto un paio di volte.
«Laggiù?»
Conoscevo la risposta. Tra l’altro, neppure lui trovò interessante l’idea di darmela. Soltanto, mi disse, fa attenzione a non cadere.
«I pioli stanno marcendo.»
Ci calammo così nella gola della chiesa. Cori baritonali, sorgenti sommerse si addensavano attorno a noi con gorgoglii gutturali. Faceva caldo. Scendemmo per ore. Scendemmo per giorni. Scendemmo per svariati millenni. Scendemmo infinitamente e quello era l’inferno, mi dicevo: scendere e scendere verso le donne, verso la donna deificata dalla morte, l’essere ctonio che chiamava, senza mai raggiungerla.
Quando alfine toccammo il suolo coi piedi gli domandai a che profondità ci trovassimo. Lui guardò in alto, verso la botola rimasta aperta. Non osavo domandarmi cosa sarebbe accaduto se qualche squilibrato, squilibrato più di noi, fosse arrivato e avesse rimesso la lastra al proprio posto. Neppure volevo ammettere che non era necessario essere pazzi per compiere un gesto del genere: un po’ di distrazione, una diligenza al riordino senza opportuno discernimento, ecco, sarebbero state sufficienti a regalare a noialtri la più angosciante delle morti. Nessuno avrebbe potuto udire le nostre grida da lassù. Proprio nessuno.
«Sette, nove metri circa.»
Mi riscossi. Soltanto nove metri.
«Hai una torcia?»
«Tutto il necessario, ragazzo mio.»
Tutto il necessario. Avrei dovuto spaventarmi sul serio e tuttavia non ne ero più capace: come mio padre, anch’io ero precipitato nel baratro della gente serena, serena perché sonnambula, o idiota. Eppure ero sveglio e lui era sveglio. Ma qualcosa che è ignoto al verbo si era spento, era ancora avviluppato in quel lungo coma. Era ancora là, a dormire sul seno di mia madre. Ma forse lo era anche da prima, da molto prima. Forse il giorno il cui le avevo messo la collana di conchiglie sul petto avevo sepolto in lei il meglio della mia vita.
Ma forse la piaga risaliva anche a prima. La morte discendeva a me per via genetica, da mio padre e dai suoi lombi affranti, che avevano riversato il veleno della fine in lei, poi in me, uccisore di mia moglie e magari, chissà… di mia figlia?
«Le abbiamo uccise tutte.»
Lui mi guardò come se avesse atteso a lungo che arrivassi a capirlo.
E disse:
«Sì.»
«Siamo il loro male.»
«Vieni con me.»
Mi scortò nel buio manipolando la torcia. Quindi la puntò a un vecchio, imponente portone, troppo per le dimensioni ridotte della camera. Ancora una volta si tolse le chiavi di tasca. La serratura scattò come una schiena che si spezza.
Fu nel medesimo istante che arrivò l’odore. Lo riconobbi: era il medesimo che lui aveva addosso certe notti, quando rientrava all’alba. Era l’odore pestilenziale del corridoio quando mia madre moriva. Era persistente e dolciastro, il fiore e il grumo di larve.
Lo seguii all’interno, senz’altro guardare che il riverbero della torcia elettrica sulle mie scarpe di pelle. Quando avvertii che si era fermato, io feci altrettanto. Respirai a fondo, presi coraggio e sollevai il capo.
E urlai.
Erano là tutte e tre. Tutte e tre a scrutare l’abisso, senza vederlo.
«Capisci adesso, Camillo mio caro?»
Ero troppo sconvolto per rispondergli.
Era una cripta piccina, rettangolare. La porta affacciava su uno dei lati lunghi.
Loro stavano su quello opposto.
Riconobbi la mamma: era quella al centro. Tra la pelle mummificata e i pochi cenci che avevano resistito al deflusso dei liquami c’era ancora la collana con le conchiglie. Era forse quello l’obolo che la sua anima aveva pagato a Caronte? Quello l’aveva liberata dallo sfacelo che si era lasciata alle spalle? Non rimanevano che poche ciocche sul suo cranio spelacchiato, che penzolava in avanti, come se volesse celarmi il ghigno stravolto in un moto postumo di quel che era stato il suo pudore. Mio padre sorrideva teneramente scuotendo il capo.
«Monica, Monica. Di nuovo. Ragazzo, fammi luce.»
Mi consegnò la torcia e le chiavi e si distanziò da me. Me ne restai immobile e cheto. Non sapevo quale immagine mi stesse provocando più orrore, se lui che poggiava le mani, le sue mani vive sulle spalle di lei per raddrizzarle la schiena contro il muro; o la netta, orripilante sensazione che il corpo alla sua sinistra – ancora putrescente, ancora disgustoso – quello era Lavinia. Il fetore del tessuto che marcisce proveniva da lei.
Stornai lo sguardo dalle sue orbite scure, i cui occhi erano stati recentemente lacrimati via, lasciando giù per gli zigomi una scia viscida, come quella delle lumache. Stornai lo sguardo dalle labbra che avevo baciato tante e tante volte, incise in più punti dai morsi verticali della decomposizione, a scoperchiare i denti, le gengive nere. Stornai lo sguardo dalla consapevolezza che lei mi fissava, che mi fissava accusandomi: Guarda che hai fatto. Non mi ci dovevi portare qui, nella mia rovina.
Il terzo sfacelo non mi riguardava, non era affar mio. L’avevo odiata da viva, adesso che era morta, e già interamente disseccata, non potevo far altro che ignorarla, la mia nonna sconosciuta.
Con un atto di forza mio padre premette la mamma al muro e le sollevò il mento. Nulla più che un oggetto, quel che fu lei obbedì alla torsione. Nel vedere il suo sorriso sguaiato mi si rattrappì lo stomaco, lei che era stata il fiore più remissivo del mio giardino.
Mio padre iniziò a parlare:
«Sono felice di averti mostrato, Camillo, che hai visto. Perché la famiglia è sacra e adesso mi aiuterai con la nonna. Ma guardala, vedi com’è pura. Il liquido è andato via.»
Soltanto allora notai il foro di scolo che tutte e tre tenevano tra i piedi, fori rozzi e primitivi, che una quantità infinita di liquami cadaverici aveva reso lucidi nel corso degli anni – o meglio, secoli. Perché di secoli doveva trattarsi, di secoli di disperati, di attese alla candela, di preghiere ginocchioni sulla pietra che calpestavo.
Domandai gemendo da quanto durasse tutta quella pazzia. Si girò a guardarmi.
«Cominciarono le monache. Loro le mettevano sulle sedie. Le nostre stanno in piedi.»
«Di quanti… di quanti anni stiamo parlando?»
«È millenario.»
Si era portato a fianco della mummia più antica. Le prese un polso incartapecorito, saggiandone la consistenza col polpastrello del pollice.
«Ha fatto il suo tempo, mamma. Monica e Lavinia restano ancora. Restano insieme, così non saranno sole, capisci?»
«E poi?»
«Prendiamo la nonna e la puliamo. Scomponiamo le ossa e la portiamo a casa. Usiamo questo vaso qua che ho portato. Tornerà su con noi, dopo tutti questi anni. Siamo una famiglia.»
Rivolse a quel che rimaneva della vecchia un tremendo sguardo adorante.
«Com’è morta?», domandai d’un soffio. «Come morta veramente?»
«Una brutta malattia.»
«E una brutta medicina?»
«Brutta malattia, l’egoismo.»
Aveva spalancato gli occhi perché avevo compreso, io solo tra tutti gli uomini della terra. D’un tratto mi parve commosso.
«Non voleva che sposassi Monica. Non voleva che sposassi nessuna. “Mente deviata”, diceva, “soltanto disgrazie.” Così mi diceva.»
«Non la odiava. La stava proteggendo.»
Lo scheletro che per anni avevo disprezzato pendeva stancamente la testa di lato: aveva dato il possibile, immolato la propria esistenza per me, per noi. E tutto era stato inutile e adesso era stanca, stanca fino alla fine dei tempi.
Compresi ogni cosa. Come se le tre donne mi avessero ammesso nel segreto del loro concilio, come se avvolto dai loro sudari avessi ascoltato la verità profferita dalle loro gole. E seppi che mia madre aveva capito che qualcosa non andava in quell’uomo lugubre, che rientrava odorando di fosse e crisantemi. E anche Lavinia, anche lei lo aveva capito. Alla donna, a quelle donne erano appartenute la saggezza e la morte, come due doni inscindibili.
Fissai mio padre. I nostri volti erano lo specchio della serenità. Dissi semplicemente:
«Le hai ammazzate tutte e tre.»
Annuì gentilmente.
«Volevano allontanarci. La famiglia non si allontana. Le donne sono la famiglia. Una donna contro la famiglia è male, è demonio. Monica e mia madre erano deboli… ma Lavinia è forte, una donna forte dei tuoi tempi. Lei non può dormire con l’arsenico, lei. Così ho dovuto sparare, come faccio coi conigli.»
La morte non l’avrebbe dovuta riguardare. Non avrebbe dovuto nessuna di loro. Coloro che muoiono così, senza che il tempo sia giunto, si lasciano le tracce di quel dolore sulla salma: la stanchezza di mia nonna, la disperazione di mia madre, l’ira sul volto tumefatto di Lavinia.
Mio padre:
«Adesso siamo tutti e cinque. Tra qualche decennio sarà il mio turno. Ti occuperai di me?»
«Sì papà.»
Sorrise. Aveva gli occhi lucidi.
«Dobbiamo pulire la nonna. Sarà “bianca come la neve”, come nel salmo.»
«Ma certo.»
«Camillo.»
Tentò di abbracciarmi. Indietreggiai.
«La nonna. Non l’ho mai abbracciata. Voglio abbracciare la nonna. Dammela.»
«Ma certo! Certo!»
Era elettrico. Sembrava che tutta la vivacità, tutta la felicità che aveva omesso di esprimere da quand’ero al mondo fossero state risparmiate per quegli attimi di perversione infinita. Mio padre, verme saprofago, era felice. Per tutta la vita mi ero domandato come sarebbe stato e, adesso che ce l’avevo di fronte, mi dava orrore.
Ma chi ero io per spezzare un tale giubilo?
«Ci penserò io papà.»
Ripetei alla sua schiena indaffarata. Stava cingendo la vecchia morta attorno ai lombi e alle spalle, per sollevarla dalla nicchia. Con una mano armeggiava sulla catena, cercando di sfilargliela di torno al petto. Non mi rispondeva. Così continuai la frase:
«Ma devo cominciare adesso, già adesso.»
Guardai Lavinia. Mi perdonerai?
Uscii in tutta calma dalla camera di scolo. Giunto sul vano d’ingresso mi girai. Lui rovesciò il capo di lato e mi guardò confuso, credo.
Ci scambiammo gli sguardi per diversi secondi grigi.
E poi chiusi il portone e girai la chiave tre volte.
Sai, ci penso ancora. Soprattutto di notte.
Sento nitidissime le sue grida, lui che strattona il legno della porta, sempre più disperato. Non puoi lasciarmi quaggiù, Camillo caro, non puoi lasciarmi quaggiù!
Rammento la calma che avevo, la mia calma agghiacciante mentre sollevo la testa per assicurarmi che nessuno abbia rimesso la lastra del pavimento al suo posto, condannandomi al medesimo fato. Ricordo la salita su per la scala, mentre il pianto di mio padre si fa più fievole nella distanza. Ma credo che lui stesso si sia stancato presto, perché al buio il tempo non lo vede passare e tutto è come sonno e il senso dell’uomo s’intorpidisce. La disperazione al buio dura molto meno. Serena, ti ricordi quando avevi paura di dormire da sola? Piangevi nell’oscurità, ma per poco. Il sonno arrivava veloce. E ti prego di considerare la profondità della tenebra in cui avevo precipitato quell’uomo. E che l’oscurità l’aveva anche entro di sé, non soltanto intorno.
Restai a Napoli una settimana. Gironzolavo attorno al sagrato del Santo Spinario. Sentivo le sue urla fin lassù, si sperdeva nella piazza ed entrava nelle case. Talvolta gli incubi mi svegliavano nel cuore della notte, più e più volte, tanto che dopo i primi giorni cessai semplicemente di coricarmi: un sonno del genere non aveva senso, non ristorava, era più dannoso della veglia perpetua. E allora dovevo passare la notte, resistere alla tentazione di scendere nella cripta e salvarlo. Potrei ancora, basterebbe rianimarlo, non è tardi.
Resistevo. Ereditavo giorno dopo giorno la natura che era stata la sua, quella dell’uomo linfatico, fiacco, idiota. Morivano e sorridevo. Amen.
Quando al settimo giorno mi risolsi a discendere la scala seppi che era finita.
Era morto in ginocchio, con la bocca contorta dalla carenza d’ossigeno e dal terrore. Aveva levato mia madre dalla nicchia, si era mosso a tentoni. Se l’abbracciava sul pavimento, componendo una macabra Pietà invertita, o meglio, interpretata da un bambino. Non era da adulto quella presa convulsa attorno al suo collo, come se avesse avvinghiato un pupazzo.
E quella fu l’ultima volta. Non sarei tornato più, mai più. Una volta di fuori gettai le chiavi nel pozzo vecchio, quello che non usa più nessuno. Mie donne, addio.
E così mi conosci, sono quello che lavora sempre. Sono l’erede di bottega e questo mi tiene in salute. Adesso anche la cera mi va bene, anche il silicone. Ho visto di peggio, so di peggio.
E adesso che ho avuto coraggio, che sono trascorsi diciannove anni da quei fatti; adesso che tu, quarta donna della mia vita, mia unica superstite, mio castigo, vieni a domandarmi:
«Perché non mi hai mai portata da lei?»
Adesso so con certezza che questo lungo, corrotto discorso io non te lo farò, Serena. Non ti permetterò di andare, tu non andrai. Tu non saprai, non sentirai i medesimi richiami. Gli scheletri non profferiranno il tuo nome con le loro voci melliflue. La morte giunge a noi per la medesima scala, la sposta per i rami di questa dinastia disgraziata. Ma il tuo ramo, Serena, non lo troverà ancora. Perché come mio padre, anch’io ho generato il mio cattivo seme. E il fatto che sei donna, ancora una donna, mi pare così eloquente. Forse non dovresti sposare quell’uomo. O forse sì, purché ti porti lontano.
Perché quel poco che potevo, lo sto facendo adesso, che alzo la testa dalla terracotta e ti dico:
«L’abbiamo cremata, l’abbiamo sparsa via. Non la vedrai mai.»
Né sentirai. Altro non spero.
Venerdì, 2 luglio 2021
In copertina: Foto di Maike und Björn Bröskamp da Pixabay.