
La storia a tavola: Ciompi e Guicciardini
di Simona Maria Frigerio
In Toscana può capitare anche questo: nonostante i campanilismi feroci (“Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”, dicono i livornesi, ricordando forse senza saperlo quando, ai tempi delle Repubbliche Marinare, gli esattori pisani riscuotevano i dazi bussando alla porta), ovvero che l’ultimo dei Ciompi ceni convivialmente con un erede di Francesco Guicciardini (lo storico che tramandò il celebre tumulto) sei e oltre secoli dopo quegli eventi. E così vien voglia di rileggersi la storia e metterla a confronto di come la ʻcontò… il consigliere di Medici e Papi’.
Sul finire del Medioevo l’Europa era flagellata dalla peste nera, depauperata dai fallimenti bancari e scarnificata fino alle ossa dalle lotte civili causate dalla carestia e dalle differenze di censo. Tutto era principato nelle Fiandre intorno al 1296, poi erano arrivati i primi ʻscioperi’ in Inghilterra (la Peasants’ Revolt dei contadini, spesso ridotti nella condizione di servi della gleba). Da lì, i torbidi si estesero fino alla Polonia e alle campagne francesi. Il culmine si era toccato con due eventi che segnarono quel periodo storico indelebilmente: il Tumulto dei Ciompi, a Firenze, nel 1378; e la decapitazione dell’odiato Simon Sudbury, nel 1381, arcivescovo di Canterbury (carica, questa, spesso mal vista, come aveva già sperimentato sulla propria pelle Thomas Becket, assassinato nel lontano 1170).
In quel di Firenze, però, era la stessa classificazione dei popolani a dare conto delle enormi differenze che esistevano all’interno della società. Vi era il Popolo grasso, che – come metaforicamente allude l’aggettivo – era composto dai ricchi marcanti e banchieri delle Arti Maggiori; il Popolo minuto, ovvero i borghesi delle Arti Minori, in prevalenza bottegai e artigiani; e il Popolo magro che, come potrà immaginarsi anche un nostro contemporaneo, era formato dalle schiere dei proletari, sia braccianti rurali sia operai, affamati dalla crisi (produttiva e commerciale) causata dalla peste nera. Tra questi, ultimi degli ultimi, vi erano i Ciompi, i lavoratori salariati della lana, senza alcuna rappresentanza nel sistema corporativo delle Arti e dei Mestieri e mal pagati con una sottodivisione del fiorino, coniato in rame. Proprio la svalutazione di questo materiale portò alla sommossa quando “il fiume più copioso non può aggiungere una goccia d’acqua a un vaso già pieno”. Le loro richieste, a quel punto, non furono più solamente salariali (sindacali diremmo oggi) ma anche politiche, rivendicando il diritto di associazione e la rappresentanza comunale.
In realtà tutto principiò con le solite faziosità tra guelfi e ghibellini. A capo dei primi, la parte più aristocratica della cittadinanza capitanata da Pietro degli Albizzi, Lapo di Castiglionchio e Carlo Strozzi; dall’altra, i piccolo-borghesi dei Ricci, degli Alberti, dei Medici, di Giorgio Scali e di Tommaso Strozzi – tutti già Ammoniti, come si diceva allora, ovvero condannati come ghibellini all’interdizione sine die dalle cariche pubbliche. Così, il 18 giugno del 1378, quando si mise in discussione il potere dei Capitani guelfi, sempre più arroganti, e il reintegro degli Ammoniti nei loro uffici, i Priori cominciarono a temer sommosse, e fu Benedetto Alberti – dalla finestra – a eccitare la folla gridando (forse più per furberia che per convincimento): “Viva il popolo!”.
Si sprangarono le botteghe, il popolo rispose al richiamo e si armò e, dopo una sequela di eventi di cui non vi daremo conto (perché altrimenti le Storie fiorentine dal 1378 al 1509 di Francesco Guicciardini le scriveremmo noi), il 20 giugno le Corporazioni ottennero l’elezione di una Balìa di ottanta cittadini (una specie di Costituente, tradurremmo oggi) col compito di presentare le riforme agognate. Tutto ciò mentre, fuori dai palazzi, continuavano i tumulti, e il Popolo minuto spostava di un foro la cintola (metaforicamente scrivendo) saccheggiando le dimore dei ʻgrassi’ (letteralmente, come abbiamo appreso). Bastò un giorno perché l’estate portasse con sé le concessioni a favore del popolo e l’amnistia per gli Ammoniti, mentre si eleggeva a nuovo Gonfaloniere Luigi Guicciardini – il quale, il 1° luglio, assunto l’incarico, pensò che la spinta rivoluzionaria fosse ormai esaurita.
In verità, se guelfi e ghibellini (Arti Maggiori e Minori) potevano dirsi soddisfatti (i primi avendo arginato la protesta popolare, i secondi avendo ottenuto discreti vantaggi), al Popolo minuto – usato come sempre per rimestar nel torbido e poi punito per quei saccheggi che, in tempi posteriori, avremmo ribattezzato ʻredistribuzione delle ricchezze’ – restò il cerino. E quel cerino… si accese nel Tumulto dei Ciompi.
Fu il 20 luglio del 1378, al suono delle campane delle chiese, che quei proletari armati alla bell’e meglio (non erano certo lanzichenecchi!), bruciarono la casa del Gonfaloniere di Giustizia; liberarono tre detenuti (più o meno quanti ne restavano alla Bastiglia il 14 luglio 1789); e assaltarono il Palazzo del Podestà, pretendendo l’abolizione del Giudice straniero dell’Arte della lana, la creazione di tre nuove Corporazioni dei Mestieri (in cui finalmente sarebbero stati inclusi anche gli appartenenti al Popolo minuto), oltre a un quarto delle cariche pubbliche. Per non dire della limitazione del potere dei Capitani guelfi, del licenziamento delle milizie e della consegna delle chiavi della città.
Sulle prime fu la vittoria degli ʻultimi’. Un giovane cardatore di lana, Michele di Lando, fu acclamato Gonfaloniere e furono create le Arti dell’Agnolo, dei Cardatori e dei Farsettai. Già il 24 luglio i neoeletti di quel nuovo ʻStato’ (come potremmo definirlo rifacendoci alla Rivoluzione francese) presero posto sui loro scranni (che gli saranno sembrati alquanto sontuosi, immaginiamo), richiamando gli esuli (come fu il ramingo Alighieri in altri tempi) e, praticamente, promulgando un’amnistia in merito alle violenze commesse, da ogni parte, in tempo di tumulti. Finalmente i Ciompi avrebbero potuto contare su Magistrati scelti dalle proprie Arti e i loro interessi sarebbero stati garantiti dagli eletti nei Consigli della Repubblica.
Fu vera vittoria?
Purtroppo le serrate non le hanno inventate i capitalisti degli anni Settanta (sic!). Con le fabbriche chiuse per via dei tumulti, i salariati si ritrovarono senza lavoro e senza salario. Ancora una volta erano loro a restare col cerino in mano e quando, a fine agosto, rinfacciarono al Lando di essersi ormai dimenticato dei suoi vecchi compagni di strada e di lotta, invece di dare le dimissioni, quest’ultimo mise mano alla spada e, dispersi o arrestati i Ciompi, la nuova Signoria escluse i membri popolari dal Governo.
In pochi mesi tra ribellioni, decapitazioni, odi atavici rinfocolati ed esili comminati contro gli oppositori (con relative confische dei beni) anche le altre due nuove Arti furono sciolte e il potere tornò saldamente nelle mani delle Arti Maggiori. Come avrebbe scritto lo storico coevo Filippo Villani: “I Ciompi se ne andarono sì come gente rotta, et senza capo et sentimento, perché si fidavano et furono traditi da loro medesimi ”.
La medesima storia raccontata da Francesco Guicciardini
Umanista, laureato in diritto civile, figlio del Rinascimento ma seppellito dopo la pubblicazione, a Wittenberg (nel 1517), delle 95 tesi di Martin Lutero; repubblicano convinto eppure fedele alla Signoria dei Medici; critico nei confronti della corruzione della Chiesa ma consigliere di ben due Papi (Leone X e Clemente VII); amico, sebbene recensore severo, di Niccolò Machiavelli; Francesco Guicciardini scrisse La storia d’talia quando non poté più influenzarne le sorti. E sebbene a lui, forse, interessava colpire più di spada che di penna, fu proprio lui a inaugurare il nuovo corso della storiografia, documentata con fonti e dati a supporto della propria analisi, e priva di quegli orpelli encomiastici di cui non fu scevro Il Principe – partorito dall’amico.
Uomo d’armi, il Guicciardini difese con successo Parma dall’assedio delle truppe francesi; fu Governatore della turbolenta Romagna; e nel 1526 fu chiamato a Roma come consigliere di Papa Clemente VII (nato, non a caso, Giulio Zanobi di Giuliano de’ Medici) – per il quale si adoperò alla costituzione della Lega di Cognac contro le truppe imperiali di Carlo V d’Asburgo. Purtroppo l’esito fu tragico, con la morte di Giovanni dalle Bande Nere, mentre i lanzichenecchi calavano bellicosi per saccheggiare la capitale dello Stato Pontificio. Questo accadeva nel 1527 (altro che ʻi cosacchi abbevereranno i loro cavalli alle fontane di Roma’…).
Dato il loro appoggio all’impresa, i Medici furono cacciati da Firenze e si ebbe un ritorno alla Repubblica, la quale accusò Guicciardini di concussione processandolo in contumacia, probabilmente per ritorsione contro il voltafaccia dello stesso che, dopo aver professato fede repubblicana, si era adeguato senza problemi alla Signoria dei Medici – che torneranno, comunque, al potere nel giro di soli tre anni. A questo punto fu proprio Clemente VII a inviarlo nuovamente a Firenze per ricoprire incarichi politici al servizio del Duca Alessandro. Pare che Guicciardini in quel torno di tempo si dedicasse con tale zelo al consolidamento del potere del suo Signore da essere soprannominato Ser Cerrettieri (da Cerrettieri Visdomini, l’aguzzino del Duca d’Atene, Gualtieri di Brienne, al potere tra il 1342 e il 1344).
Del resto il suo agire era improntato di due fondamenti, che saranno trattati nei Ricordi politici e civili (opera per la quale può essere considerato l’iniziatore del genere dell’aforisma politico-morale). I concetti cardine erano la discrezione, ovvero la capacità di un politico di sapersi adattare alle diverse circostanze, senza attenersi a massime generali (una specie di valorizzazione della realpolitik ante-litteram); e il particulare, costituito dagli interessi privati e personali che guidano le azioni di ciascuno (il che si identifica con il suo pragmatismo al servizio dei Papi di una Chiesa corrotta, e non con il malcostume italico avvezzo a corruzione/concussione a cui siamo abituati).
Assassinato nel 1537 il Duca Alessandro dal cugino Lorenzino de’ Medici e da un suo sicario; in età che, allora, poteva definirsi tarda, il Guicciardini scrisse la Storia d’Italia per ricostruire le vicende dello Stivale dal 1492 (non per la cosiddetta scoperta dell’America bensì in quanto anno della morte di Lorenzo il Magnifico) al 1534, quando è Papa Clemente VII a lasciare questa ʻvalle di lacrime’ e, in pratica, il suo ruolo pubblico – a livello europeo – viene meno. Un ruolo, d’altro canto, che gli permise di avere un quadro più vasto e complessivo di quanto stava accadendo in quel momento e delle ragioni di una decadenza italica che, a parte brevi periodi e un pugno di uomini e donne (da Giuseppe Mazzini a Eleonora de Fonseca Pimentel, da Antonio Gramsci a Pier Paolo Pasolini passando per la Resistenza partigiana e arrivando forse fino a Enrico Mattei), non si è più arrestata.
Curiosamente, ripubblicata nel 1564 per intero, la sua Storia ebbe espunti alcuni passaggi giudicati sconvenienti, tra i quali proprio quelli dedicati alla corruzione ecclesiastica e alle implicazioni religiose delle nuove scoperte geografiche.
A noi, però, interessano di più, in questo articolo, le Storie fiorentine, un trattato in 31 capitoli che ricostruiva le vicissitudini della città dal 1378 al 1509 (anno della battaglia di Agnadello, che opponeva la Serenissima al Regno di Francia), con un approfondimento dedicato alla Repubblica fiorentina del Savonarola. Le posizioni repubblicane del Guicciardini non coincidevano, però, con un’idea moderna di democrazia, visto che, nel trattato, i cosiddetti ʻsavi’ erano i membri dell’oligarchia aristocratico-bancaria, mentre il popolo era visto con un certo disprezzo…
Non sarà un caso, quindi, che del Tumulto dei Ciompi scriverà:
“Nel 1378 sendo gonfaloniere di giustizia Luigi di messer Piero Guicciardini successe la novità de’ Ciompi, di che furno autori gli otto della guerra, e’ quali per essere stati raffermati piú volte in magistrato, s’avevano recata adosso grande invidia e grande contradizione da’ cittadini potenti, e per questo si erano rivolti a’favori della moltitudine; e però procurorono questo tumulto, non perché e’ Ciompi avessino a essere signori della città ma acciò che col mezzo di quegli, sbattuti e’ potenti ed inimici sua loro rimanessino padroni del governo. Il che fu per non riuscire perché e’ Ciompi, preso lo stato e creato e’ magistrati a loro modo e non a arbitrio degli otto, volevano potere tumultuare ogni dí la città, e non arebbono gli otto potuto ritenergli; se non che Michele di Lando’ uno de’ Ciompi ed allora gonfaloniere di giustizia, vedendo che questi modi partorivano una inevitabile ruina della città, accordatosi cogli otto e cogli aderenti loro, fu cagione di tôrre lo stato a’ Ciompi; e cosí el bene e la salute della città nacque di luogo che nessuno l’arebbe mai stimato. Rimase el governo piú tosto in uomini plebei e nella moltitudine che in nobili, e fecionsene capi messer Giorgio Scali e messer Tommaso Strozzi e’ quali con questo favore popolare governorono tre anni la città, e feciono in quel tempo molte cose brutte e massime quando senza alcuna colpa, ma solo per levarsi dinanzi gli avversari loro, tagliorono el capo a Piero di Filippo degli Albizzi che soleva essere el piú riputato cittadino di Firenze, a messer Donato Barbadori ed a molti altri innocenti; ed in ultimo, come è usanza, non potendo essere piú soportati, ed abandonati dal popolo, a messer Giorgio fu tagliato el capo; messer Tommaso campò la vita col fuggirsi ed ebbe bando in perpetuo lui e suoi discendenti e messer Benedetto degli Alberti, che era uno de’ primi aderenti loro, fu confinato”.
Quasi cinque secoli dopo, però, può capitare che siano seduti al medesimo desco un Ciompi e un Guicciardini, oggi accomunati non dalla lotta per il potere ma dalla passione per la rappresentazione più antica dello stesso, il teatro.
Dedicato ai registi Dario Marconcini e Tuccio Guicciardini
venerdì, 28 marzo 2025
In copertina: Giuseppe Lorenzo Gatteri, Tumulto dei Ciompi, 1877, Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste (da Wikipedia)