
La deriva inarrestabile della mediocrità
di Luciano Uggè
Negli anni 70, quando militavo nella cosiddetta sinistra extraparlamentare e nel sindacato come delegato in fabbrica, esistevano le scuole di partito, si fondavano e leggevano avidamente i giornali, ci si incazzava con gli intellettuali come Pasolini quando difendevano il celerino solo perché proveniva dal sottoproletariato, spesso del sud, si facevano assemblee, ciclostili da distribuire nei mercati, manifestazioni di piazza, e si tirava notte fonda nelle sezioni dei partiti a discutere e accapigliarsi. Allora l’operaio e lo studente sapevano cosa stava accadendo in Argentina, chi era Tito, di cosa scriveva un Samir Amir o un Antonio Gramsci o per cosa combattevano Sankara o Che Guevara. E nel frattempo, si leggevano Montale e Calvino, Prévert e Neruda, Fortini e Faulkner; si andava al cinema per i film di Bergman e Tarkovskij, Petri e Godard, ma anche Olmi e Germi; e a teatro c’erano Dario Fo e Franca Rame; Piero Manzoni produceva merda d’artista; mentre Marcuse e Fromm avevano sdoganato la filosofia trasformandola in qualcosa di politicamente vibrante o analiticamente psicologico.
Poi è arrivato il tempo della politica nei salotti televisivi: la militanza nei quartieri è sembrato non fosse più utile per raggiungere non già i bisogni quanto i consensi (espressi semplicemente coi voti) delle masse. L’ideologia come la cultura si sono trasformate in termini vetusti, ammuffiti, noiosi quanto i libri: occorreva adeguarsi al livello del sottoproletariato – non per recuperarne la naïveté pasoliniana bensì per evitare che sommando due più due le persone arrivassero almeno a fare quattro: se dai il 3% a Rutte per fare la guerra, e tagli in sanità e welfare, non potrai lamentarti di ospedali e scuole da pezzenti. Né di un’università che non apre la mente e fa pensare, se la ricerca deve essere indirizzata solo alla produzione per l’industria e alle tecnologie duali per i dottor Stranamore nostrani; mentre la creatività si può demandare al copia e incolla tra milioni di immagini immagazzinate dall’IA (che non capiremo mai come qualcuno possa qualificare ‘intelligenza’).
È arrivato il tempo del fantasy al cinema e delle star talmente autoreferenziali da pensare di condizionare il voto dell’elettore in base al ‘ricatto’: «Se non voti come dico io, lascio il Paese…»; dei talk show edulcorati dove per una malintesa par condicio il politico di turno può dire ‘la qualunque’ perché il giornalista non ha la cultura, le capacità o la prontezza (e tanto meno la dignità o la voglia) per controbattere. E così i quotidiani e i settimanali sono diventati superflui – non perché sono tutti uguali, ma semplicemente perché non interessa più a nessuno leggere, analizzare, capire. Il vero dibattito politico si è isterilito e tutto ha cominciato a ridursi a discorsi da bar e bombardamento di informazioni flash che accostano l’ultimo fidanzamento tra calciatore e velina o il furto dal gioielliere (cronache rosa e nera, un tempo relegate ai quotidiani della sera) con il massacro di 40mila civili a scopo rigorosamente difensivo, i missili ‘intelligenti’ e i cellulari che ammazzano presunti nemici dell’Occidente insieme a passanti e bambini. Il teatro da militante è tornato borghese, vuoto come il cervello rivestito da una pelliccia ma rigorosamente eco-friendly; e la poesia come l’impegno, il dialogo come l’arte hanno finito per diventare mondi elitari di intellettualoidi o anime belle. Mentre le tute blu sono state liquidate dal quotidiano di sinistra par excellence come dinosauri in via di estinzione – adesso che persino Volkswagen ne manderà a casa 35mila, vedremo chi prenderà il loro posto in un mondo in cui il problema non è la sovrapproduzione, bensì la mancanza di potere d’acquisto delle masse vituperate sempre… tranne il giorno delle elezioni.
Ma il meglio di questo continuo abbassamento a tutti i livelli, che ci ha consegnati a strisciare ai margini della storia, è arrivato non già con la rete (che, come ha dimostrato Assange, poteva essere potente mezzo di denuncia e comunicazione), ma con l’uso che se ne è fatto. Mentre tutti i Governi nel mondo si preoccupano di censurare ‘fake news’ e ‘disinformazione’, nessuno si è accorto che i social sono ormai l’ombra di se stessi – bisognosi, per far ancora parlare di sé, dello scandalo del bullismo mediatico contro una starlettina (alla quale una volta avrebbero gettato addosso i pomodori in piazza); o del miliardario che cambia un tweet – un cinguettio: perché altro non può essere un messaggio di 280 caratteri, se non un bisbiglio, un invito – con una fallica X che campeggia su fondo nero, a metà tra il porno e il cerotto sulla bocca. Nessuno li legge nemmeno più quei messaggi e non perché si sia passati da, magari, 30 righe di un FaceBook ai 280 caratteri fino alle semplici foto su Instagram (sotto le quali si può comunque mettere un link che rimandi a un articolo o a un saggio corposi quanto si vuole), bensì perché nessuno più legge nemmeno un whatsapp e capita che lasciando il tuo ragazzo, lui ti risponda con tanti cuoricini, e licenziando la tua segretaria, lei ti mandi un emoji tutto sorridente. Ormai siamo nell’era dei like e arrivano persino a pagarti se ne metti a sufficienza sotto l’immagine deteriorata di qualche socialite in caduta libera, o quella di una sconosciuta in fase di lancio.
venerdì, 14 marzo 2025
In copertina: Foto di Pete Linforth da Pixabay