I limiti culturali di un Paese in svendita
di Emilio Nigro
Vorrei stare zitto. Perché parlare non conviene. Se non è in versi. Che fanno dire tenendosi nascosti. Che dicono per conto. Che dicono e non dicono. Vorrei stare zitto, adeguarmi al silenzio di tutti, sotto la maschera, prendersi il numero segnare la cartella. Perché dire è essere storti. Non farlo è essere nel giusto, fra quelli che guardano in basso e stanno al loro posto, fra quelli che si strizzano a vicenda e si pugnalano dietro, quelli che tutti amici e appena possono ti fottono, gli amici del sappiamo tutto sporchiamoci insieme, quelli che però vanno poi sui palchi – che sia per rappresentare o per leggere poesie – a parlare di cose belle, di giustizia, uguaglianza, fraternità. Non è il caso di farla lunga è vero. Che palle!
Però mi chiedo allora, ad alta voce, quale cultura sia quella finalizzata all’evento ‘arronzato’ per rendicontare un finanziamento ottenuto dopo avere corteggiato qualcuno? Gioco di metafora, l’atto è iperbolizzato, ci si prostituisce non solo con il corpo. Che senso ha pubblicare foto dell’evento, con ospiti ridicoli, provincialismo patinato, decaduti artisti in via di fossa rimpolpati dalle terre d’origine da cui sono scappati bestemmiando e tornati per l’amico di partito a riempirgli le tasche, poeti perché su feisbuk stanno a cosce aperte, direttorE di atelier (pubblici) per cui le amministrazioni di destra o sinistra non cambiano sapore (a proposito di leccate). Io non posso fare a meno di dire. Perché in questo silenzio generale, nonostante tutti si accorgono, mi chiedo proprio perché si sta zitti. Per rispetto? Di cosa? Per ignoranza? Di cosa? Di non sapere distinguere il raccomandato, l’ipocrita, il manomesso, l’inventato, il prepotente, il mafioso? Perché si aspetta la briciola concessa finite le grandi abbuffate? Allora perché non dire? Dire è una forma di opposizione, al non detto. O al detto per finta. Dire è comunicare, e comunicare significa ‘fare insieme’.
I soldi sono pubblici, sono i soldi di tutti, e dovrebbero rientrare a tutti, in qualche modo. E perché allora li prendono sempre i soliti e questi soliti, che li prendono dopo avere leccato (a destra e sinistra) quando i cittadini vanno a chiedere degli spazi gestiti, pubblici, quindi aperti a chiunque ne facesse richiesta, perché si comportano come fossero i padroni? E non rispondono, o fanno i preziosi, o pensano di essere monarchi borbonici, o non ti vogliono perché gli stai antipatico… Forse perché ubriachi di quel poco e presunto ‘potere’ a cui sono arrivati a furia di marchette e di sottomissioni? Sono domande che vorrei girare agli interessati. A cui sarebbe bello rispondere come si risponde sulle riviste quotate di teatro e cultura quando fanno i dossier (ovviamente non pagando i redattori e collaboratori che si vantano però di scrivere per queste migliori riviste): bellissime domande sul pubblico, sulla critica, sulla poesia del teatro. Io girerei queste domande. E altre.
Per esempio perché i premi si danno sempre alle stesse persone da quindici anni? Quale pubblico ormai intercettano? Perché chi scrive per i giornali non pagato si definisce critico? Perché ci si definisce critici se a pagarci sono i teatri? Che cosa criticano questi critici? Non sarebbe più opportuna la parola ‘promoter’, o meglio, pubblicitario per non usare inglesismi? Perché per distribuire gli spettacoli in Italia devi fare un festival a cui inviti tutti i cosiddetti critici o i direttori dei teatri (che spesso coincidono con i predetti critici)? Perché i soldi pubblici regionali, nazionali, comunali di questi festival servono per pagare gli alberghi dei critici e delle loro mogli, fidanzate/i, figli? Perché in questi festival la compagnia giovane deve ringraziare in ginocchio di essere salita sul palco senza ricevere un soldo e un premiato (con i premi di cui sopra da quindici anni) viene pagato tante mila euro per mezz’ora di conferenza/spettacolo? Io mi chiedo perché, mi sembra strano.
C’è qualcosa che non torna se poi si dice in giro che l’arte è umanità. O ne è lo specchio. Allora davvero l’umanità è così? O per finta?
venerdì, 27 dicembre 2024
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay