Donne, non solo vittime. Seconda parte
di Simona Maria Frigerio
Lo sappiamo, non siamo più abituati a leggere. L’informazione sui social e sul web corre veloce; anche i contenitori televisivi ci hanno abituati a centrifugare i fatti in un mix indigeribile e, quindi, incomprensibile; mentre i quiz hanno trasformato il sapere in nozionismo – come quelle multiple choice che ormai ammorbano anche le nostre aule universitarie. Tutto si superficializza, ossia manca di profondità e noi, al contrario, vogliamo farvi entrare nei fatti perché siate voi, alla fine, a costruirvi la vostra personalissima narrazione della realtà. Terminato il caffè? Continuiamo i nostri incontri, iniziati con https://www.inthenet.eu/2021/01/29/le-donne-non-solo-vittime.
Dal raptus al delirio, la psicologia nei tribunali resta un’incognita
Sfrattato definitivamente il termine ‘raptus’ dal nostro ordinamento giudiziario, come dimostra la sentenza Gozzini il ‘delirio’ rientra dal portone principale. Ma c’è davvero differenza? E quale, a livello psicologico, tra ‘uxoricidio’ e ‘femminicidio’? Uccidere la propria moglie è diverso dall’uccidere una donna – che non si è sposata – per motivi futili e abietti come dovrebbero essere il possesso e la gelosia? Strano porsi queste domande in un Paese che obbliga alla fedeltà per legge – anche se nell’atto di matrimonio questa promessa intenderebbe un discorso più ampio. Eppure sostituire il termine ‘fedeltà’ con lealtà e rispetto sarebbe anche questo un passo avanti. Per capire alcune pieghe dell’animo umano ci siamo rivolte a una psicologa clinica, che si è occupata del fenomeno anche come femminista e donna impegnata in politica.
Partiamo da un discorso più generale. Pensa che sarebbe importante un’educazione all’affettività fin dalla scuola materna per cambiare il modo in cui ci rapportiamo nelle nostre relazioni da adulti?
P.C.: «Certo, sarebbe fondamentale che si iniziasse fin dalla più tenera età a educare all’affettività, in particolare sarebbe necessaria un’educazione che permettesse anche ai maschi di esprimere le proprie emozioni e che suggerisse alle bambine che non devono essere per forza belle e avvenenti per diventare interessanti, legittimare insomma fin da piccoli, l’ascolto e la manifestazione della propria emotività. Soprattutto bisognerebbe incoraggiare un modello educativo che non preveda discriminazioni e che abitui ad accettare e valorizzare le differenze».
Nella società attuale, ancora intrisa di ‘romanticismo’, si confonde il possesso con l’amore: come spiegare che frasi come “Tu sei mia” non indicano un affetto profondo ma sentimenti e moventi diversi?
P.C.: «Siamo per certi versi una società ancora infantile, dove l’amore si esprime come attaccamento, bisogno e possesso. Il femminismo, promuovendo la libertà della donna, di più, stimolando le donne a ricercare e difendere la propria libertà, ci ha provato a costruire rapporti di coppia maturi, in cui la relazione si costruisca attraverso il confronto alla pari, nel rispetto delle reciproche differenze e specificità; ma alcuni stereotipi, di pensiero e di comportamento, sono difficili da sradicare. Alcuni modelli però sono cambiati. Oggi è in assoluto più facile separarsi, la coppia è di fatto più precaria, restare uniti e continuare il proprio rapporto richiede, molto più che un tempo, un rinnovo costante di amore, di comprensione reciproca e, qualche volta, di faticosa mediazione. Molti uomini non sono in grado di accettare questa modalità di relazione, abituati, per costume e per educazione, a considerare il rapporto acquisito una volta per tutte, una conquista fatta una volta e per sempre e, quando la donna mette in discussione la stabilità del matrimonio o della convivenza, si sentono traditi, feriti, oltraggiati in un diritto sancito socialmente, derubati di una proprietà privata, insomma».
In una recente sentenza d’appello si sono giudicati due ragazzi, accusati di stupro, non colpevoli in quanto la vittima non era ‘avvenente’. Anche per quanto riguarda lo stupro non sarebbe il caso di chiarire che è l’espressione di una forma di potere o di altro, ma non di piacere?
P.C.: «Questa sentenza mi era sfuggita. Ci mancava… Siamo alle solite. Se la donna è bella e sexy se l’è cercata, se non è avvenente non ‘merita’ nemmeno lo stupro! È evidente che una grossa parte della società italiana (e la magistratura non ne è esclusa) continua ad avere una concezione della donna se non esclusivamente come oggetto di piacere, certamente come bene di proprietà. Del resto non sono passati troppi anni da quando si parlava di ‘delitto d’onore’ o la violenza sessuale veniva considerata offesa alla morale. Lo stupro è la manifestazione violenta ed esasperata di una concezione maschilista e patriarcale delle relazioni fra i sessi. Nello stupro, in qualsiasi stupro, è sempre sottesa una forma perversa di sadismo. L’eccitazione erotica è suscitata dall’umiliazione della donna, vittima indifesa e impotente, in totale balia del potere virile dell’uomo aggressore».
Nella recente causa Gozzini si fa distinzione tra uxoricidio e femminicidio, come se uccidere la moglie non rientri nella seconda categoria. Esistono differenze psicologiche chiare tra i due comportamenti?
P.C.: «Non sono una giurista, ma mi pare che la forte determinazione delle parlamentari che hanno voluto una legge sul femminicidio volesse proprio sottolineare la specificità dell’uccisione di una donna in quanto una donna – perché vista dall’uomo che le usa violenza come sua proprietà, suo bene. Chiaro allora che non ha senso distinguere femminicidio da uxoricidio. Il problema è che non uccidi una donna perché è una ladra, una delinquente, una nemica, o non so cos’altro, ma perché è la tua donna e non può che essere tale o non essere più. Vorrei sottolineare un aspetto che mi sembra importante nelle dinamiche che portano al femminicidio. Per gli uomini, per tutti gli uomini immersi in questo clima culturale che fatica così tanto a emanciparsi dal vecchio modello patriarcale, è estremamente difficile riconoscersi vulnerabili, fragili, bisognosi di cura. Fin da piccoli gli hanno insegnato che non devono piangere, non possono fare le femminucce, devono essere forti e autonomi. Per alcuni uomini riconoscere la propria vulnerabilità è più difficile che per altri. Proiettano il loro bisogno di dipendenza affettiva sulla loro compagna. È lei quella che ha paura dell’abbandono, che non è autosufficiente, che è emotivamente dipendente. E così si sentono potenti. Quando la donna scopre la propria autonomia e la rivendica, uscendo dal ruolo stabilito e accettato magari per anni, sull’uomo che si credeva forte e indipendente ricade d’improvviso tutta la fragilità negata da sempre… e questa diventa intollerabile. Per esempio, nel caso Gozzini (prendo alcuni elementi emersi durante il processo come esempio per illustrare quanto detto senza voler assolutamente entrare nel merito della sentenza che non è, ovviamente, di mia competenza); nel caso Gozzini, dunque, si legge che i coniugi vanno in vacanza, in montagna, e lì va tutto bene. Va tutto bene perché lì, in quel contesto, loro sono una coppia, loro due che si rapportano col resto del mondo. Poi tornano a casa e lui, ormai anziano e in pensione, non ha nulla da fare, mentre lei, ancora in attività lavorativa, ha tutto un suo mondo, sue amicizie, suoi incontri. Non sono più la coppia di fronte agli altri, ma due persone, due individui, di cui lei con una sua vita autonoma e indipendente, indipendente dal marito. Questo diventa intollerabile e lui precipita nella depressione. Credo che molto spesso nei rapporti caratterizzati da violenza, che culminino o meno in femminicidio, ci sia non tanto un problema di gelosia (che è semmai un corollario) ma una dinamica di dipendenza/autosufficienza. La paura dell’abbandono è, del resto, la paura ancestrale di tutti noi umani. Nasciamo inermi, bisognosi di cura e accudimento e questo senso di impotenza, questa paura di essere abbandonati ce la portiamo appresso, in un modo o nell’altro, per tutta la vita. Imparare a farci i conti e conviverci, se non superarla, è un percorso di maturazione che non tutti riescono a compiere. Per alcuni uomini questa paura è un tabù, negato per tutta la vita e quando si presenta diventa insopportabile».
Veniamo al femminicidio. Esistono campanelli d’allarme che la donna dovrebbe essere in grado di valutare prima che si compia la violenza?
P.C.: «Beh, il campanello dovrebbe suonare subito, al primo segno di violenza. In realtà molti rapporti continuano per anni dentro un giro vizioso violenza-pentimento-grande dichiarazione d’amore e via fino alla scenata successiva. Bisogna sottolineare che, per la storia particolare di ciascuna, molte donne vivono una sorta di complicità con il compagno violento, sia perché insicure e abituate (o educate) a sentirsi deboli o incapaci, sia perché molto spesso dopo la scena violenta il compagno pentito mostra grande amore e dedizione, giura che cambierà, offre regali, ripropone, insomma, la copia (in realtà irripetibile) dell’idillio iniziale… In ogni caso il mio consiglio è che, non appena la donna avverte il proprio bisogno di autonomia e lo mette in pratica, rompendo il giro vizioso condiviso fin lì con il compagno, a quel punto si può aspettare di tutto, e deve subito prestare attenzione – se è il caso denunciare, di sicuro farsi aiutare. Certo è che le forze dell’ordine dovrebbero garantirle protezione e sicurezza e che le Case per le donne maltrattate, o l’aiuto psicologico richiesto (anche per l’uomo che voglia uscire da questo meccanismo patologico), dovrebbero essere parte integrante dello stato sociale e, quindi, finanziati con soldi pubblici».
Per anni si è usato il ‘raptus’ come attenuante nei casi di femminicidio. Cos’era, a livello psicologico, il cosiddetto raptus e perché oggi se ne contesta la valenza?
P.C.: «Il termine ‘raptus’, secondo me, ha ben scarsa efficacia diagnostica. Se si vuol intendere l’escalation di rabbia e aggressività rispetto cui diventa difficile fermarsi, in ambito clinico si parla di psicopatia. Le carceri sono piene di condannati che non sono stati in grado di mediare e interporre un attimo di riflessione tra il pensiero e l’azione. La giustizia non ha mai pensato che questo potesse essere considerato un’attenuante. Non si capisce perché soltanto quando si parla di violenza contro le donne ogni pretesto possa fungere da alibi».
Nel caso Gozzini si parla non più di raptus ma di ‘delirio’ di gelosia. Senza soffermarci sulla parola gelosia, cosa sarebbe il delirio che impedirebbe di intendere e volere?
P.C.: «Delirio è un termine di preciso significato diagnostico, manifestazione grave di psicosi. Significa perdita di contatto con la realtà, spesso è associato ad allucinazioni, visive o uditive; il soggetto si sente eterodiretto (da voci, immagini, da dio) e indotto a compiere azioni in obbedienza a questi imperativi esterni. Nel caso Gozzini, per quel che si può leggere nella sentenza, la diagnosi sembra poco conciliabile con la lucida freddezza con cui il soggetto descrive l’omicidio, ben meditato, della moglie; ma, ovviamente, non è possibile addentrarsi in campo diagnostico senza la possibilità di vedere il paziente».
In un’altra sentenza della Corte d’Appello si è ridotta la condanna di un femminicida che aveva dato fuoco alla compagna, perché questa effettivamente lo tradiva e, di conseguenza, “non è contestabile all’assassino l’aggravante di aver agito per futili motivi”. A livello psicologico la gelosia è più un costrutto sociale o un atteggiamento in qualche modo patologico che andrebbe curato?
P. C.: «La gelosia è un sentimento che, a diversi livelli, tutti possiamo sperimentare. Tutti abbiamo paura di perdere l’oggetto del nostro amore e la nostra capacità di accettare la libertà dell’altra/o è molto legata a quanta sicurezza, quanto amore incondizionato abbiamo sperimentato nei nostri primi rapporti con chi ci accudiva e si prendeva cura di noi. Se non riusciamo ad accettare l’autonomia e l’indipendenza dentro una relazione, la gelosia può diventare patologica, quanto meno per lo stato di disagio e malessere che porta nel rapporto, anche quando non si arrivi alla violenza conclamata. Pensiamo per un attimo all’emblema della gelosia così come ce lo ha rappresentato il genio di Shakespeare. Jago non è solo un perverso sobillatore che intriga e calunnia per raggiungere i propri scopi. È in qualche modo l’alter ego di Otello, la sua anima buia. Jago disprezza le donne, tutte le donne, ne teme la sagacia, l’abilità, la potenza erotica. Le svaluta proprio perché le teme. Ma se Otello fosse sicuro di sé e della sua relazione non si lascerebbe indurre così facilmente a dubitare. In realtà i dubbi che insinua Jago, sono dubbi anche suoi. Otello è prode con i nemici, forte di fronte al suo esercito, potente nel suo ruolo di comandante ma, nel momento in cui si innamora diventa fragile, il suo sé più intimo è esposto, vulnerabile, affidato alla donna che ama. E questo gli fa paura. Non può controllare la passione di Desdemona con la razionalità con cui decide una strategia di guerra. È costantemente in pericolo, obbligato a fidarsi o a soccombere. E per non soccombere uccide. Poi si uccide, come molti uomini che commettono femminicidio fanno. Perché davvero il ‘sei mia’ significa ‘mi sono affidato a te e non posso vivere senza di te’. La dipendenza dentro questi tipi di rapporto è totale».
Un’ultima domanda. La realtà del femminicidio è comprovata dalle statistiche. Solo raramente un uomo è ucciso dalla propria compagna, madre, moglie o comunque da una persona di sesso femminile legata a lui. Cosa motiva, a livello psicologico, la prevalenza della violenza maschile nei confronti delle donne?
P.C.: «Abbiamo sulle spalle millenni di storia che ha indotto le donne a essere prede e non predatori, vittime e non aggressori. Il mondo migliora non se si ribaltano i ruoli ma se davvero si impara tutti ad accettare da un lato la nostra fragilità e, dall’altro, la libertà del partner».
Una storia a lieto fine
Abbiamo cercato, fin qui, di indagare la violenza contro le donne come sintomo della disparità di genere partendo da diversi punti di vista. Per concludere vogliamo incontrare una donna che l’ha vissuta in prima persona e ha reagito, riprendendosi in mano la propria esistenza e trasformando l’io in noi, Grazia Biondi.
Prima di chiudere con le sue parole, due dati su quello che è l’avamposto per coloro che vogliono dire basta, le Case di Accoglienza Donne Maltrattate – che non dovrebbero solo offrire ospitalità alla donna ma altresì ai suoi figli, dando possibilità alla stessa di usufruire di consulenza legale, psicologica e di percorsi per il reintegro in società, anche con corsi di formazione così da rendersi oltre che autonoma, economicamente indipendente dall’eventuale coniuge o partner violento. Perché una cosa è la volontà della persona, un’altra la retorica della politica e una terza la realtà sul territorio con la quale si devono confrontare le donne in difficoltà.
Secondo l’Istat (dati per il 2018), “le operatrici che lavorano nelle Case sono 1.997; di queste, 705 sono impegnate esclusivamente in forma volontaria” – il che significa o che non abbiamo, in Italia, sufficienti operatrici professionali o che le Case non ricevono i contributi necessari al loro funzionamento e devono ricorrere al volontariato.
In base al monitoraggio realizzato da ActionAid, datato 15 ottobre 2020 (e disponibile in rete), che ha “preso in esame la filiera dei fondi statali antiviolenza stanziati ai sensi del DL 93/2013 per l’implementazione del Piano strategico nazionale 2017-2020 (art. 5) e il rafforzamento delle strutture di accoglienza (art. 5 bis)…”, emerge quanto segue: “La dotazione finanziaria prevista dal Piano operativo [ossia dallo Stato, n.d.g.] è di 132 mln di euro, insufficiente per coprire le 102 azioni programmate… Al 15 ottobre 2020, le Regioni hanno erogato il 72% dei fondi dell’annualità 2015-2016, il 67% per quelle del 2017, il 39% per il 2018 e il 10% per il 2019. Nessuna risorsa è ancora stata ripartita dal DPO [Dipartimento Pari Opportunità, n.d.g.] per il 2020”. Per quanto riguarda l’emergenza Covid-19 e le risorse necessarie per fornire assistenza in sicurezza oltre che per far fronte alla maggiore richiesta di aiuto espressa nei mesi del lockdown, fa specie rilevare che: “… la Ministra per le Pari Opportunità è intervenuta il 2 aprile 2020 firmando un decreto con cui ha autorizzato l’uso della procedura accelerata per il trasferimento delle risorse per l’annualità del 2019 [sic!]… Secondo i documenti forniti dallo stesso DPO, gli ordini di pagamento sono stati firmati il 17.04.2020… Nonostante l’urgenza di rispondere in tempi rapidi ai molteplici bisogni espressi dalle strutture di accoglienza, a distanza di 6 mesi dall’incasso delle risorse, dai dati pubblici risulta che solo 5 Regioni hanno erogato i fondi, ovvero Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto”. Non aggiungiamo altro.
E adesso incontriamo Grazia Biondi, telefonicamente, dato il periodo di lockdown ‘light’ che stiamo tuttora subendo. La intercettiamo di domenica dati i suoi molteplici impegni tra l’associazione da lei fondata, Manden, e l’ultima avventura nella quale è stata coinvolta, la testata giornalistica online, https://www.ilcoraggiodelledonne.it, diretta da Lucia Ottavi. La prima domanda, spontanea, è che ci racconti in breve la sua storia.
G.B.: «La mia storia è quella di molte altre donne che sposano una persona non perché siano votate al martirio ma perché pensano di condividere con la stessa, oltre che dei sentimenti, anche degli interessi. La mia relazione, del resto, è iniziata quando avevo superato i trent’anni e credevo di essere abbastanza matura per capire chi avessi di fronte. Purtroppo i maltrattanti non si palesano subito come tali o, forse, noi donne siamo portate a giustificare certi comportamenti come conseguenti a momenti di tensione o a disagi professionali, quando, al contrario, sono avvisaglie dei futuri maltrattamenti. Quel tipo di comportamento arriva a piccole dosi attraverso la violenza psicologica, che le donne non riconoscono. Se si incontrasse un uomo che è immediatamente maltrattante, ci si penserebbe bene prima di condividere delle scelte importanti con lo stesso. E invece, nonostante il peso della questione culturale e della cosiddetta indole della crocerossina, la verità è che anch’io, come altre, ho vissuto per alcuni anni un rapporto di coppia che potremmo definire normale. Poi è iniziata la violenza psicologica, che all’inizio non ho saputo riconoscere, e che deruba la donna della propria identità. Ogni giorno quell’uomo si portava via un pezzo di me. Quando alla fine è arrivata la violenza fisica, c’era il deserto: ossia, ero stata già derubata della mia essenza, non ero stata in grado di proteggere il mio io e non esistevo più. In quel deserto, alla violenza è subentrata la paura di non essere creduta, e la sensazione di aver sbagliato qualcosa – perché le donne tendono a colpevolizzarsi. Sono così scivolata in quel circuito di violenze – di cui fanno parte anche le cosiddette ‘lune di miele’, quando il maltrattante torna dalla moglie piangendo, disperandosi, proclamando amore infinito con fiori, regali, attenzioni e viaggi – per nove lunghi anni. Ciò che dovremmo capire, noi donne, è che un rapporto con un maltrattante non si può salvare».
Tra gli stereotipi c’è anche quello che la violenza domestica appartenga solamente a fasce disagiate o a persone che non posseggono un’istruzione adeguata.
G.B.: «Spesso mi chiedono come abbia fatto a resistere per così tanti anni. Soprattutto se sei una donna di cultura, con una professionalità, indipendente, com’ero io, che avevo una serie di progetti di vita e di lavoro, e scrivevo anche su un quotidiano, si fatica a crederci. Dirò di più, se si è in un ambiente benestante, il senso di vergogna e impotenza aumenta. I maltrattanti sono bravi proprio a fare questo: a isolare la donna, a rinchiuderla in un ambito ristretto che la stessa non riconosce come tale perché pensa che l’uomo voglia renderla partecipe di un progetto condiviso. Io per prima ho sacrificato l’io per il noi. Questo è sbagliatissimo. Quando adesso vado nelle scuole, dico alle ragazze che devono lasciare una parte di sé a se stesse, e questo non significa essere egoiste. L’autonomia dà a ognuna la possibilità di scegliere e non c’entra con il discorso di farsi, o meno, una famiglia. Nelle situazioni di degrado è forse più facile che scatti la denuncia contro i maltrattanti, mentre le donne che vivono con i ‘colletti bianchi’ – il che non avviene per comodità economica – sono subissate da domande, quali: “Chi mi crederà? Cosa farò? Dove posso andare?”. Gli uomini colti sanno esercitare la violenza in maniera subdola e la donna pensa davvero di non valere niente. Non ha più la forza psicologica, e nemmeno quella fisica. Se si vive per anni con un partner che lentamente arriva alla violenza non si è pronte: a un certo punto ci si chiede, letteralmente, con chi si stia vivendo, e più si cerca di essere perfette – perché la sensazione è che si stia sbagliando noi – e più aumenta l’aggressività. Sembra un paradosso ma, a quel punto, se non si riceve aiuto, è molto difficile uscirne. Io ho avuto una famiglia che mi ha sostenuta, ma quante famiglie colpevolizzano la donna? Se si parte da una situazione di benessere economico, le accuse di essere impazzita o di esagerare, o ancora di essere capricciose si fanno avanti con prepotenza».
Dove si trova la forza per andarsene?
G.B.: «Nel momento stesso in cui pensi che vivere da morta equivalga a morire, ti ribelli. La parola ‘separazione’ con un uomo maltrattante significa ‘rifiuto’. Fare una scelta che lui non ti permetterebbe mai significa, innanzi tutto, decidere cosa fare della tua vita – senza di lui. Quando si pronuncia quella parola, si innesca un meccanismo terrificante. Le violenze aumentano e se non si ha la forza di evadere né di rimanere, si sprofonda nel limbo. Si è un po’ come un prigioniero – mi piace pensare al conte di Montecristo… si deve evadere! Io, dal 2002, ho trovato il coraggio solo nel 2009. E a quel punto sono tornata indietro. Perché? Chi subisce maltrattamenti, violenze o addirittura ha paura di morire, nel momento in cui denuncia pensa che là fuori ci siano persone pronte e tutelare e a sostenere. Per me, non è stato così. Di fronte al coraggio, trovare il vuoto, l’indifferenza, l’omertà credo sia il maggiore danno che possa provocare una società che si dica civile, che il 25 novembre mette in mostra le ‘scarpette rosse’ (simbolo della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, n.d.g.), a una donna che subisce violenze domestiche. E infatti, nel 2009 sono rientrata a casa perché lui era più forte anche dato il suo ruolo sociale, il che mi rendeva la meno credibile. E torniamo alla sua precedente domanda: se il maltrattante ha un qualche prestigio, è ancora più complesso. Pensi che anche chi mi veniva a trovare e vedeva i lividi, mi diceva: “ma lei signora vive qui…”. Come se il benessere potesse giustificare la violenza! E quando sono tornata a casa, le violenze sono aumentate perché dovevo essere punita. Ma sa perché sono rientrata? Quando la donna denuncia, l’uomo può controdenunciare. Paradossalmente le donne finiscono per temere di più il sistema del maltrattante. Di fronte al sistema abbiamo difficoltà a essere credute, mentre gli uomini riescono a capovolgere talmente le situazioni da porre noi sotto la lente d’ingrandimento, sotto esame. Nel 2009 denunciare, per me, fu la cosa giusta – ma non ero abbastanza forte. Nei due anni successivi ho cominciato, in ogni caso, a ricostruirmi e quando, a un certo punto, ho rischiato la vita, ho finalmente capito che, invece di morire ogni giorno, era meglio morire una sola volta ma da donna libera – indipendentemente da chi fosse pronto ad accogliermi e credermi. Questa fu la differenza tra il 2009 e il 2011 – quando dissi definitivamente basta».
Mi ha raccontato che il 2013 è stato un anno di svolta grazie a un libro. Le parole possono davvero incidere nella vita delle persone?
G.B.: «Le parole possono essere pietre – basti pensare a tante, troppe sentenze, soprattutto quando colpiscono donne che hanno già subito violenza per anni. Sono poche le donne che vogliono vendetta e altrettanto poche le cosiddette denunce strumentali, anche perché ci si accorge facilmente quando una donna sta mentendo per altri fini. Per quanto riguarda il libro, Il male che si deve raccontare, lo stesso è stato scritto da Simonetta Agnello Hornby e da Marina Calloni – che venne a Palermo a presentarlo. Aldilà del suo contenuto, in quell’occasione conobbi la professoressa Calloni che mi aprì a nuove prospettive. Lì capii che il male si deve raccontare non solamente come forma di denuncia, ma a se stesse per capire che non siamo noi quelle sbagliate, e per comprendere che quel percorso di cura non appartiene solamente a una ma a tutte le donne. Parlare con lei, sentirmi ascoltata, creduta, considerata, pensare che la mia testimonianza avesse un valore non perché da inserire in un nuovo libro ma perché lei sapeva, comprendeva quanto stavo raccontando e mi dava suggerimenti per creare finalmente la mia narrazione, fu un’ulteriore spinta per trasformare le parole in azioni, aiutando altre donne – come lei stava facendo con me».
È a quel punto che ha fondato Manden – Diritti civili e legalità, un’associazione di gruppi di auto mutuo aiuto attraverso il web?
G. B.: «Per quanto riguarda Manden e i gruppi di auto mutuo aiuto (Ama), questi si rifanno ai modelli degli alcolisti anonimi dove si rintraccia la figura del facilitatore, ossia una persona che ha fatto la medesima esperienza e poi ne è uscita, ha fatto un percorso, ha seguito corsi e, aldilà del racconto tra simili, è la prova provata che si può evadere dalla dipendenza o dalla violenza. All’inizio inconsapevolmente e, poi, grazie ai corsi seguiti in Milano Bicocca con la professoressa Calloni, ho avviato un percorso personale che, poi, è diventato collettivo. I gruppi di auto mutuo aiuto sono nati nel web in quei circuiti ‘segreti’, nei quali si accede con un nome fittizio – il mio era Alice – e lì ho cominciato a incontrare altre donne che, come me, volevano raccontarsi e lo facevano perché in quello spazio di anonimato non c’era nessuno a giudicarle. Non avevamo paura di essere individuate perché eravamo delle vigliacche ma perché paventavamo il giudizio. Col tempo, però, è subentrata la curiosità. E nonostante potessero esserci anche degli ‘infiltrati’, ossia degli uomini, si è formato un piccolo gruppo che chiamammo Anime segrete. Coloro che vi partecipavano – me compresa – presero a incontrarsi, in un modo o nell’altro, e soprattutto ogni volta che una donna doveva affrontare un’udienza partiva con una forza, un sostegno corale, un’energia che le facevano comprendere di non essere sola. Da qui l’idea di Manden, ossia dei gruppi di auto mutuo aiuto composti da donne che, come me, non hanno trovato nel sistema la giusta risposta ma che erano abbastanza forti da fare un percorso diverso e che, quindi, grazie alla loro esperienza possono aiutarne altre sul proprio territorio sapendo dove e a chi indirizzarle. Ma non basta, perché oltre alle referenti territoriali servivano delle professioniste che aiutassero le donne ad arginare la violenza, ad aiutarle e a sostenerle. Professioniste che sono state vittime a loro volta, oppure meno, ma che sanno comunque come accogliere le donne. E questo perché il fatto di essere state vittime di violenza non fa di noi, referenti, delle tuttologhe e da sole non si va da nessuna parte. A ognuno le proprie competenze. Le referenti sono, quindi, il filtro ma poi il circuito al quale facciamo riferimento è professionale e istituzionale».
Il 25 novembre 2017 è stata invitata a Montecitorio in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che accolse 1.300 donne da tutta Italia, sia vittime o familiari di vittime sia professioniste che si occupano della problematica. Ci racconta cosa accadde?
G. B.: «In quel periodo mia madre scrisse al Presidente della Repubblica e io alla Presidente della Camera, che allora era l’Onorevole Laura Boldrini, al Ministro della Giustizia, che era Andrea Orlando, e ad altri perché la mia causa si stava prescrivendo – tanto è vero che dopo sette anni per un giudizio di primo grado, il reato di lesioni è stato prescritto e la condanna in Cassazione a otto mesi, con pena sospesa, non può certo dirsi giustizia. In ogni caso, l’unica che mi contattò fu Boldrini riconoscendomi non in quanto vittima ma invitandomi all’intergruppo parlamentare come Presidente dell’Associazione Manden. In quell’occasione capii che dovevo passare dall’io al noi. In quell’aula avrei potuto raccontare la mia storia, togliendomi anche qualche soddisfazione, ma sarei rimasta ingabbiata nel ruolo della vittima – non perché rinneghi di esserlo stata ma perché il percorso che ho fatto per non esserlo più sarebbe stato azzerato. La mia voce doveva portare a Montecitorio anche tutte le storie che avevo raccolto per un atto di giustizia morale, di riconoscimento sociale e politico. Il medesimo riconoscimento dell’Onorevole Boldrini a me, quel giorno, dovevo restituirlo alle donne che avevano creduto in me raccontandomi il loro vissuto. Perché non è solo il maltrattante il problema, ma anche tutto quel mondo che ti circonda e che vuole mantenerti in quello stato di sudditanza. Il giudizio e il pregiudizio ci mettono in ginocchio più dell’uomo violento. E se ci si ribella, si ricomincia a vivere e si torna a prendersi cura di sé – andando dal parrucchiere o dandosi un velo di rossetto rosso – ecco che non si è più riconosciute come vittima. Bisogna abbattere questo muro: quello costruito da chi ci riconosce vittime solo se siamo imprigionate in quella veste per sempre».
Un lungo percorso anche psicologico e, nella primavera del 2020, arriva www.ilcoraggiodelledonne.it, testata online sulla quale cura la rubrica Io conto. Una scelta di vita oltre che lavorativa importante.
G.B.: «Il coraggio delle donne nasce durante il primo lockdown, da un’idea della giornalista Lucia Ottavi, che ne è editore e direttore responsabile. Con lei conduciamo Attenti a noi due, incontri in video in cui ci occupiamo di diritti umani in senso lato. Mentre nella rubrica Io conto cerco di aiutare le donne, che subiscono spesso anche forme di violenza economica – nell’ambito di quella intrafamiliare – informando e formando. La testata è composta da varie rubriche, organizziamo interviste in video, ci avvaliamo di testimonianze dirette e di tanti contributi finalizzati a combattere ogni forma di violenza – fisica, sessuale o psicologica».
Aldilà che non abbia avuto la giustizia delle aule di tribunale, è una vincente perché ha trasformato la sua vicenda in fonte di creatività e impegno per tutte noi. Le donne possono non essere vittime?
G. B.: «Purtroppo noto che le ragazze di oggi non si rendono conto dei propri diritti: ci stiamo giocando tutto ciò che abbiamo conquistato negli anni 70. Lo vediamo nella violenza istituzionale, nella vittimizzazione secondaria, nei percorsi di chi ha avuto il coraggio di denunciare e finisce stritolata in un sistema inquisitorio, dove si finisce per doversi giustificare. Se le donne non credono più nella giustizia, non sono le donne ad aver perso ma è il sistema giudiziario che ha fallito. Il maltrattante è protetto da una politica garantista, mentre è la vittima a non essere tutelata. La cultura patriarcale continua a ravvisarsi nelle sentenze e, senza generalizzare, le peggiori provengono dal monocratico o dal collegiale al femminile. Purtroppo oltre alla violenza fisica conta molto il ricatto economico. Già nella normalità molte donne lavorano part-time, in nero, sottopagate, se poi si lavora in un’azienda familiare, si rischia davvero di perdere tutto, come è capitato a me. E nei percorsi giudiziari bisogna capire che, spesso, continuiamo a essere soggette a violenza. Certo, impiegare le proprie energie per avere giustizia ha un senso, ma se ci si rende conto che la violenza istituzionale ci soffoca, bisogna recuperare quelle energie e proiettarle in altro modo, per ricostruirsi una nuova vita. Rispetto alla violenza economica aggiungo solo che ho perso la casa coniugale – non avendo figli – in pieno percorso oncologico, senza che mi fosse nemmeno riconosciuta la sospensiva o un indennizzo per quanto ci aveva donato la mia famiglia durante il matrimonio – dato che, secondo il giudice, era una ‘donazione indiretta’. Ricordo che il mio avvocato mi consigliò di farmi trovare a letto con la flebo perché ero una malata oncologica e non avevo un’altra situazione abitativa ma io risposi: “Se la legge stabilisce che debba uscire da questa casa, lo farò, perché sono la Presidente di un’Associazione che si batte per la legalità e, nonostante sia l’ennesimo atto d’ingiustizia, non mi farò trovare in un letto malata. La tutela deve essermi garantita indipendentemente dal mio stato di salute, altrimenti perderò tutto”. Per fortuna trovai sostegno nella solidarietà di amiche e di altre donne, e adesso mi proietto verso la costruzione di una mia identità professionale. Ricordo che mentre combattevo contro il cancro, mia madre mi chiese: “Anche questo?”, e io le risposi: “Mi fa meno paura il cancro, del mio ex marito”. Lì ho capito che il mio dolore si era trasformato in forza e che, se avevo superato le violenze, potevo superare anche la malattia. Bisogna imparare che i ‘mostri’ esistono, che nessuno può venirti a salvare, e che sei stata brava a prenderti in braccio e a salvarti da sola!».
Per chi si fosse perso la prima parte:
Venerdì, 29 gennaio 2021
In copertina: Il valore delle parole. Foto di Sasin Tipchai da Pixabay.