L’America profonda v/ il deep State
di Francesca Camponero
Dopo aver ricoperto il ruolo dal gennaio del 2017 al gennaio del 2021 Donald Trump torna a essere Presidente degli Stati Uniti d’America come 47esimo nella storia del Paese. I suoi 78 anni non lo scoraggiano affatto, malgrado sia il presidente più anziano a iniziare il proprio mandato come ‘inquilino’ della Casa Bianca. A molti non sembrava facile vi mettesse nuovamente piede, eppure è stato così. Il grande magnate ci è riuscito e con una strategia precisa: ha promesso di riportare gli interessi dei cittadini statunitensi in cima all’agenda in tempi stretti.
Non è valso il breve editoriale pubblicato (senza precedenti) dal New York Times il 2 novembre, un appello al voto, scritto a caratteri cubitali, che dichiarava quanto Trump fosse “inadatto a guidare il Paese”, perché “mente senza limiti”, il che “porterebbe disastri per i poveri, la classe media, i datori di lavoro”. Non sono valsi i voti delle donne andati a Kamala Harris in quanto erano pochi, solo quelli delle donne afroamericane – come dimostra un recente sondaggio del Pew Research Center secondo cui il 53% delle donne statunitensi scelgono i Repubblicani, contro il 43% che si identifica con i Democratici. Trump, quindi, si è affermato come un candidato forte, avvalendosi del suo tipico approccio duro e sicuro verso ogni problema del suo Paese, in primis quello della sicurezza.
Molto più della controparte democratica ha espresso la volontà di risolvere la questione dell’immigrazione irregolare, ha detto di avere idee chiare su come affrontare la crisi degli Usa con l’Iran, con la Corea del Norde la questione mediorientale. E gli statunitensi avevano bisogno di sentirsi rassicurati su tutti questi punti. Il maggior consenso lo ha avuto tra le classi medie e popolari (persone senza studi universitari), che si è generalizzato. Classi scontente per gli effetti dell’inflazione: con Biden i prezzi sono aumentati, le disuguaglianze di reddito e ricchezza sono state ampliate anche della pandemia ed è proprio l’impoverimento della classe media alla radice del disagio economico che ha portato ad aver fiducia nuovamente nelle promesse di Donald Trump.
E qui arriviamo al punto: si può ancora credere alle promesse di Trump? Se pensiamo all’importanza dell’ars oratoria che da millenni ha avuto il suo peso in politica, possiamo anche capire quanto, nel caso di Trump, tale concetto sia poco applicabile: Trump è un oratore poco sofisticato, che non padroneggia affatto la retorica politica tradizionale. Eppure è proprio questo limite, nel suo caso, ad essersi dimostrato vincente. Chi lo ha votato la prima volta ha trovato come principale elemento questo: “Dice le cose come stanno!”. A questo punto si potrebbe affermare che la veridicità di Trump sia stata considerata la sua dote maggiore rispetto a ogni altro candidato. Trump appariva l’unico sincero in mezzo a un mare di corrotti. Ma la sua strategia è stata quella non tanto di promuovere la propria credibilità, ma di minare la credibilità dei suoi avversari a cui volgeva critiche pesanti senza freno. È questa una dote? Certo che no. Negli States soprattutto l’onestà di agire è sempre stata considerata un valore imprescindibile e, francamente, nessun presidente che lo ha preceduto è stato più distante dalle ‘virtù’ di Donald Trump – che anche quando viene dimostrato aver dichiarato qualcosa di falso, non solo non ammette di aver sbagliato, ma rincara la dose ripetendo la sua affermazione. Eppure gli statunitensi hanno creduto nuovamente in lui per questo secondo mandato.
Nell’interessante libro Filosofia della menzogna (edizione italiana Guanda Editore, 2022), il filosofo norvegese Lars Fr. H. Svendsen scrive che Trump sembra essere l’incarnazione di quella che viene definita ‘post verità’ (Post Truth), termine coniato dagli Oxford Dictionaries nel 2016 riferendosi a quelle circostanze in cui i fatti obiettivi hanno meno peso nel formare l’opinione pubblica rispetto all’appello ai sentimenti e alle credenze personali. Svendsen continua affermando che se abbiamo abbandonato la verità a vantaggio della post verità ci siamo lasciati alle spalle anche la menzogna e, purtroppo, al mondo della post verità viene concesso un margine di manovra illimitato. Certo il modo di trattare la verità di Trump non è un esempio di etica della responsabilità weberiana, che agisce tenendo sempre presenti le conseguenza del suo agire – e proprio guardando a tali conseguenze agisce – quanto piuttosto di una machiavellica Realpolitik. Eppure, ripeto, gli Stati Uniti d’America gli hanno dato nuovamente credibilità.
venerdì, 15 novembre 2024
In copertina: Foto di Pete Linforth da Pixabay